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Così — ma con maggior forza di generoso desiderio, che reale corrispondenza di cose - lo scultore Carlo Fontana ha scritto sul bozzetto del monumento da inalzarsi a Shelley, in San Terenzo; di là, donde il Cuor dei Cuori partì per quella favolosa «isola delle belle, isola degli eroi, isola dei poeti» ove, - solo tra i moderni! - parve al Carducci fosse degno entrare questi che egli chiamò «spirito di Titano, entro virginee forme».
Delle opere di Percy Bysshe Shelley, in una rivista come «Novissima» destinata naturalmente ad andare per le mani della parte più eletta e più colta della patria, sarebbe non ozioso, ma certo difficile il dire degnamente, dato i termini di spazio assegnatici. Le opere di Shelley fanno parte della grande poesia mondiale; cantano tutto ciò che è primigenio, continuo ed immortale nell’anima umana, dalla ribellione contro tutto quello che è forza bruta e prepotente, superstizione e religione, frode e bassezza, dalla più alta e trascendentale filosofia, sino al sorriso di due labbra di rosea fanciulla, sino all’umile pianticella che cresce povera ed ignorata tra il lussuoso splendore dei suoi ridenti fratelli di aiuola.
Allorquando Orazio diceva di sè stesso che la sua fama sarebbe durata sino a che la tacita vergine avrebbe salito col sacerdote il Campidoglio, non pensava certo che questa sua orgogliosa auto-apoteosi sarebbe stata superata da millenni di gloria: - così quando fu detto che la poesia di Shelley durerà sino a tanto che si parlerà la lingua inglese, non si pensò che potrà forse venire un giorno in cui la lingua inglese suonerà così diversa dalla odierna come ora l’italica dalla latina, ma che anche allora la poesia di Shelley sarà cercata, studiata, interpretata, ammirata come oggi, perchè essa fa parte di ciò che solo v’ha di immortalmente bello nella vita: il sentimento umano. Ed a me torna ora qui in mente — per affinità di pensiero non del tutto casuale — quello che Giovanni Pascoli dice della poesia: «In verità la poesia è tal meraviglia che se voi fate una vera poesia, ella sarà della stessa qualità che una vera poesia di quattromila anni sono».
Shelley fu a lungo misconosciuto. — Come il poema di Lucrezio paurosamente bandito dalle scuole e dalle biblioteche del prete, pauroso di discussione, indagine e verità, così Shelley fu a lungo perseguitato da tale una satanica fama di immoralità di vita e di opere che la società, dopo averlo messo al bando, aveva quasi finito con l’obliarlo. Ora il suo tempo è venuto. Ed è bene - adesso che di lui più si parla e si scrive, ora che la geniale e generosa idea del monumento ha trovato aderenze di entusiasmo, di arte e di mezzi, - che si sappia e si ripeta qualchecosa dei tratti salienti della sua vita e dei particolari a lungo mal noti della sua morte. Shelley fu de’ pochi poeti che ebbero poetica la vita; sì sé potrebbe anzi dire che tutta la sua vita fu una lirica continuata ed inspirata alle idee da lui difese od avversate ne’ suoi poemi; e come altamente lirica fu la sua vita, così tragicamente poetica ne fu la morte. Nato con la rivoluzione francese (Field Place, presso Londra, 1792), egli dovè bere - quantunque di nascosto dal padre, superbo baronetto inglese, e dalla società reazionaria e formalistica dell’Inghilterra di allora- il liquore inebriante e vivificante delle teorie rivoluzionanie.
Entrato a 16 anni nel collegio di Oxford, ne fu cacciato per avere scritto quella sua Mecessità dell’ateismo che nè l’autorità del rettore del collegio, nè la solennità dell’arcivescovo di Cantorbery riuscirono a fargli sconfessare.
Contrario al giuramento, alle formule legali e religiose del matrimonio, nemico delle differenze di grado e di sangue, sposa - lui figlio di un baronetto inglese! — una giovinetta figlia di un oste, ma le dichiara che egli non dà alcun valore morale a queste formule del prete e del sindaco, alle quali si sottomette solo per meglio affermare il suo atto davanti ai parenti ed al mondo.
Socialista in anticipazione di una buona metà di secolo, egli titola di ingiustizia sociale e di immorale il principio dell’eredità pecuniaria, e il giorno in cui ridotto solo e povero come Giobbe gli viene offerta, dal padre impietosito, una rendita di 50,000 franchi all’anno, rappresentata da un capitale di 120,000 sterline, a condizione però che egli trasmetterà il capitale sulla testa del suo primo figlio nascituro, egli scoppia in un rifiuto indignato e scrive ad una sua amica, miss Hitchener, delle parole che è bene riportare, perchè ove Shelley non avesse all’attivo dell’ammirazione umana che questo gesto, questo dovrebbe bastare a far noto e rispettato il suo carattere. «Ah! — egli grida - vecchi rimbambiti! Con quale faccia possono essi farmi una proposta così insultante, così odiosa! Che io debba assegnare un capitale di 120,000 sterline a qualcuno che io non conosco ancora e che invece di essere il benefattore dei suoi simili potrebbe esserne il flagello... No! Voi non me ne supponete capace, non è vero?»
Ah! Io non voglio qui parlare degli uomini in generale presso dei quali voi potrete sempre trovare chi per un’idea sia pronto più presto a dar la vita che la borsa, ma io parlo dei poeti, che rappresentano la parte ideale dell’umanità, che portano il nome che l’Alighieri ha detto esser quello che più dura e più onora, e cerco e cerco nella mia mente il nome di quale tra quelli che più amo e venero sarebbe stato capace di questo piccolo gesto di cui Shelley non parlò mai, seguitando a sopportare ancora a lungo il morso assiduo della miseria, e che rimase ignorato fuori della cerchia delle mura familiari e non ebbe nè il plauso nè il fremito approvatore della folla.
Ma tutto fu luce e poesia, e bontà e disinteresse, in questo giovinetto cacciato dalla scuola, in questo giovine misconosciuto dalla famiglia, in questo pazzo Shelley messo al bando della buona società inglese e le cui opere furono chiamate sataniche.
Egli ebbe, durante tutta la sua così piccola vita, tratti di carità così ardente, che andavano dagli uomini tutti sino alle bestie, che talvolta viene involontariamente fatto di rassomigliarlo al mistico fraticello di Assisi.
Povero, quando avrebbe potuto esser ricco, donava il suo poco con tale assenza di pensiero egoistico che ogni volta che donava, il donato diveniva necessariamente più ricco del donatore.
Io insisto su questo lato del carattere di Shelley perchè è bene che si sappia - anche oggi! - che si può avere il cuore generoso e buono e aperto ad ogni più tenero sentimento di carità ed altruismo anche senza credere in Dio — si chiami Jeova, Zeus o Giove o altrimenti e senza aspettarne la centuplicata paradisiaca rimunerazione, di cui forse i preti insegnarono primi la formola al povero pezzente che stende la mano.
Che se poi nella religione si vuol vedere qualchecosa di più nobile che le rigide formalità del culto, allora è ingiusto dire che Shelley non avesse religione. Egli ebbe un’alta religione, ben migliore di quella per cui si bruciano gli incensi in chiesa e gli uomini sulle piazze; egli ebbe una religione a base della quale invece della fede era posta la carità.
Allorquando Shelley si trovava a Marlow, egli fu colpito dalla miseria degli abitanti, e miss Madocks, incaricata da lui di distribuire le elemosine, cinquant’anni dopo la morte del poeta, gli rendeva questa testimonianza: «Ogni luogo che egli ha visitato è sacro; egli portava raramente del denaro sopra di sè, ma noi ricevevamo dei numerosi biglietti, scritti talvolta su pagine di libri, che ci dicevano di pagare al portatore la somma scritta, e un giorno in cui egli non aveva né carta per scrivere nè denaro egli rientrò in casa senza scarpe perchè le aveva date ad un povero. La sua carità si estendeva sino agli animali: se per via egli incontrava un pescatore, gli comperava il paniere di gamberi per rigettarli nel Tamigi.
In altri queste cose sembrerebbero della posa, ma le anime come Shelley sono oltre il sospetto.
Shelley sosteneva che il male non esiste nell’uomo che in quanto egli lo vuole; sosteneva che l’uomo, evolvendosi, sarebbe riuscito a cacciarlo dalla psiche umana, e, come sempre, uniformava la sua teoria alla sua vita. E per quanto breve questa sia stata, noi non possiamo qui nemmeno riassumerla: ma qualunque dissenzione filosofica o politica si possa avere con lui, non possiamo fare a meno se di cuore sinceri di ammirarlo ed amarlo.
Sia che egli proclami coraggiosamente le sue teorie filosofiche e sociali, sia che egli passi sopra i pregiudizi di sangue e di casta, sia che sacrifichi il suo benessere alle sue idee, sia che soccorra i poveri, sia che vada in Irlanda a sostenere la causa della libertà, sia infine che egli canti i canti più puri ed alati di tutta la lirica inglese, Shelley è tale che non può non percuotere di ammirazione l’anima nostra.
La morte:
Nessuno come Shelley fece mai tanto vero il verso di Menandro che il povero Leopardi metteva a motto di una delle sue più sconfor tate canzoni: «Muor giovine colui che al cielo è caro».
E se la vita di Shelley ci appassiona ed attira come tutto quello che appartiene al genio ed alla bontà, la sua morte interessa particolarmente noi italiani per i luoghi e le circostanze in cui si svolse.
Le quali circostanze, che hanno la poetica terribilità di un dramma, sarebbero state forse dimenticate ove gli ammiratori di lui - ed oramai sono legione anche in Italia - non ne avessero con sottile ed amorosa opera di pazienza ricercato ogni particolare.
Un episodio della giovinezza di Shelley non può fare a meno di tornare alla mente, leggendo della sua tragica fine. Il Dowden racconta che Shelley, giovinetto, se ne stava per ore ed ore costruendo delle piccole barchette di carta, di quelle che i bambini sanno fare, e gioiva a veder poi correre correre giù giù e perdersi. per il largo stagno brumoso della Valle di Health, la sua candida, piccola flottiglia. Forse da questo puerile divertimento sbocciò allora nell’animo del poeta quella passione per il mare che doveva essere la tragedia della sua vita.
Nel 1° di maggio del 1822, Shelley, dopo un lungo girovagare per l’Italia, era venuto a stabilirsi a San Terenzo, nel golfo lunato della Spezia, uno de’ più vari, de’ più ridenti, di tutta la terra.
Shelley aveva allora ventinove anni, ma ne dimostrava appena venti. Era un giovine alto, stranamente flessibile sulla vita, dal sorriso e gli occhi ingenui e pensosi ad un tempo, mite e modesto come una fanciulla, imbarazzato negli atti e nel dire. Nessuno, vedendolo, avrebbe mai presupposto in lui il satanico autore della Necessità dell’ateismo, della Refutazione del deismo, della michelangiolesca concezione del Prometeo liberato, l’uomo che firmava nell’albo della certosa di Montevert, in Isvizzera:
"Εἰμι φιλάνθρωπος δημοκράτικός τ' ἄθεος τε;"
uno di quegli uomini, insomma, che portano nella loro testa una mina per l’ordine sociale del loro tempo.
A San Terenzo, dunque, col 1° maggio del 1822 egli prese in affitto una casa il cui portico si apriva immediato sul mare, tanto che quando le onde del golfo erano irritate venivano a rompersi contro di essa e l’investivano quasi sino al primo piano abitato.
«Più nave, che casa», la chiama Paolo Mantegazza. Erano con Shelley la moglie Mary - che fu il vero rifugio dell’anima sua dopo che la prima l’ebbe abbandonato e tradito prima di suicidarsi ed erano anche con lui l’amico carissimo Williams e la moglie Jane. Il Byron con la Guiccioli e Pietro Gamba, e il Trelawny e il capitano Roberts, tutti in quel tempo residenti a Pisa insieme o in continua frequenza col poeta di Don Juan, erano da principio d’accordo di far parte della villeggiatura con lo Shelley e il Williams. Ma l’altezzoso modo di fare, la condotta di lord Byron e soprattutto la maniera con cui aveva trattato la sua povera parente ed ex-amante Clara Clermont e il frutto di questo amore, la figliuoletta Allegra, rinchiusa e Non a Shelley - che nel tempio della gloria si innalzava già da sè stesso quell’ideale monumento, aere perennius, che non varranno a screpolare il vento il gelo o la furia degli anni - ma allo shelleysmo.
Come la terza Roma ha innalzato il suo monumento al filosofo del libero pensiero, così noi - là in faccia al libero mar ligure, che sorrise così azzurro di ideali alla giovinezza di Colombo, di Garibaldi e Mazzini, - vogliamo innalzarne uno al poeta; al poeta ed in una a quello che è il capolavoro e il simbolo del suo pensiero: a Prometeo.
Il monumento colossale, alto 14 metri, sorgerà addossato ad una rupe, coi piedi nel mare, in faccia a Casa Magni, e rappresenterà Prometeo che incide col fulmine sul macigno: A Shelley, il mondo liberato!
Constatazione ed augurio.
L’enorme blocco di marmo che lo formerà, e che da solo rappresenta una cifra che difficilmente si sarebbe raccolta in lungo tempo, sarà donato e posto sul luogo da Carlo Andrea Fabbricotti; Carlo Fontana scultore dà l’opera; gli ammiratori di Shelley e del suo pensiero daranno il poco che occorrerà ancora. Le offerte si raccoglieranno presso Sebasti e Reali, qui in Roma.
A noi intanto è piaciuto che l’annuncio solenne di questa nuova cosa partisse dalle colonne di «Novissima».
SANTE BARGELLINI
BOZZETTO DEL MONUMENTO A SHELLEY