Novissima/Scritti
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Sebbene non ideata ed attuata cogli schietti, nobili e severi criteri d’arte di quelle delle due città sorelle, essa però, ad onore del vero, presentava, in mezzo a molta roba brutta e grossolanamente mercantile, parecchie opere importanti per originalità, per buon gusto e per l’elegante e sagace accordo della bellezza con la praticità, le quali hanno dato agio al nostro pubblico di conoscere, apprezzare ed ammirare vari artisti stranieri ad esso ignoti o poco noti, ed hanno riconfermato in modo vittorioso le speranze che alcuni italiani, nelle precedenti prove del 1902, del 1903 e del 1905, avevano fatto sorgere negli animi di coloro che del risveglio delle così dette arti minori occuparsi con spiccata simpatia. Credo quindi che potrà riuscire non priva d’interesse pei lettori di «Novissima» una rivista sommaria, ma abbastanza completa della «Decorativa» milanese.
Come avrebbero dovuto e potuto essere tutti i vari com- partimenti dell’esposizione d’arte decorativa di Milano, lo rivelavano in modo oltremodo persuasivo il padiglione belga ed il padiglione ungherese, nelle cui sale si attardavano, con compiacimento grande degli occhi e dello spirito, gli intenditori ed i buongustai d’arte.
Nel primo, un baldo gruppo di artisti ed artieri, sotto la guida accorta e sagace dell’architetto” Horta e del critico d’arte Fièrens-Gevaert, avevano saputo accordare le arti maggiori con le arti minori, in un armonioso complesso di estetica leggiadria.
Il padiglione, nel suo complesso, nella semplice, ingegnosa e leggiadra facciata e nella vasta sala d’onore, così gaia e signorile sotto il rettangolare velario giallo, era opera di Victor Horta, il geniale ed audace rinnovatore, insieme con Paul Hankar, morto precocemente, dell’architettura del suo paese; mentre alcuni altri architetti, Léon Sneyers, J. F. de Coene, Georges Hobé, Oscar van de Voorde, Jan van Asperen, Émile van Averbeke, avevano ideato e fatto eseguire, sotto l’immediata loro direzione, tutta una serie di arredamenti, quali di lusso e quali economici, di stanze di appartamenti privati. Fra essi i due più riusciti, benchè di carattere spiccatamente differenti l’uno dall’altro, erano il salottino dello Sneyers, di vaghissima eleganza nell’assieme e di squisita e delicata grazia in ogni più minuto particolare, e la stanza da pranzo del De Coene, che, nell’austera semplicità delle linee, un po’ rigide, e delle tinte scure, e nella cura posta nel rendere comodo e facile il vivere in essa, ci dava, con straordinaria efficacia, l’impressione dell’intimità domestica di una casa dei paesi nordici.
La scoltura era rappresentata in modo che non poteva riuscire più degna da tutta una famiglia di statue in gesso, in marmo ed in bronzo di quel possente osservatore ed evocatore dell’esistenza laboriosa e penosa dei minatori e dei contadini che fu Constant Meunier; dal severo Pierre Braecke, col movimentato gruppo decorativo «La figlia dell’Ispirazione»; dal poderoso e sensuale Jef Lambeaux, con un frammento del magnifico suo bassorilievo «Le passioni umane»; dall’espressivo Jules van Briesbroeck, con due bronzee figurette infantili; dall’agile e piacente Rambeaux, con un gruppo di ignude giovanili figure muliebri; e poi ancora, con opere di minore importanza, dal versatile Charles van der Stappen, dal corretto ed elegante Paul Dubois, dal grazioso Charles Samuel e dai pregevolissimi medaglisti Jules Lagae ed Isidore de Rudder.
Bene rappresentata era anche la pittura, specie da Fernand Khnopff, con un trittico di sottile e squisita suggestione; da Émile Fabry, con un’ampia allegoria dell’«Espansione coloniale», robusta di disegno ed oltremodo saporosa di colore; da Albert Ciamberlani, con una scena anch’essa allegorica «Vita serena», di poetica ispirazione e di nobile composizione, ricordante però, forse troppo da vicino, Puvis de Chavannes; e poi ancora da Émile Berchmans, Jean Delville, Constantin Montald, Georges Buysse, Rodolphe Wytsman e Jean Delvin.
Due salette in particolar modo interessanti nel padiglione dell’arte moderna belga, erano quelle dei delicati ed abili lavori femminili, quali merletti, ricami, velluti stampati e cuoi incisi e colorati; e quella dell’arte del libro, in cui trionfavano sopra tutti gli altri James Ensen, con le sue acqueforti bizzarramente fantasiose, e Charles Doudelet, con le sue illustrazioni arcaiche di così delicata e preziosa minuzia di segno.
Un altro artista belga, venuto a Milano come espositore, che merita una specialissima menzione laudativa è Philippe Wolfers, sia come scultore, pel gruppo «Il ciclo delle ore», in cui dodici figure femminili sono evocate nel bronzo con una grazia vivace di attitudini mirabilmente ritmica, sia come gioielliere in una serie di scintillanti monili, in cui non sapevi se più ammirare l’ideazione da raffinato virtuoso ol’esecuzione da artefice sapientissimo.
Se nel padiglione belga era il cosmopolitismo che, il più delle volte, signoreggiava sotto gli aspetti più brillanti e più pratici della modernità, in quello ungherese, il quale, distrutto dal fuoco come l’italiano, sorse di nuovo dopo poco più d’un mese, in dimensioni minori ma non meno interessante e seducente, era il carattere tradizionalistico della razza magiara che prevaleva in tutto il fasto suo alquanto teatrale. I due artisti che hanno maggiormente contribuito, per la quantità e per la qualità del loro lavoro, al trionfale successo riportato a Milano una prima e poi una seconda volta nel breve periodo di un semestre, dalla sezione ungherese sono stati uno scultore, Géza Maròthi ed un pittore, Odòn Faragò.
Nulla si può immaginare di più elegante, di più leggiadro e di più caratteristico della vasta sala ideata dal Maròthi, in fondo a cui sommessamente cantava il sottil getto d’acqua della così detta «Fontana delle anitre». La nota vivace non mancava e vi era rappresentata da un alto zoccolo d’iridate mattonelle policrome, mentre la nota spiccatamente tradizionalistica appariva così nelle colonnine scolpite di evidente carattere arcaico, come nelle fioriere di rame martellato, in cui metodicamente ricomparivano la stilizzata testa di toro ed altri vecchi motivi ornamentali suggeriti dagli oggetti del V e VI secolo del famoso tesoro di Attila, e come nelle sagome di snello aspetto rusticano degli sgabelli con incisa sulla spalliera una data commemorativa. Però la generale tinta chiarissima delle pareti e il fregio degli archi d’entrata, tenuamente argenteo e di così amabile grazia decorativa nel semplice intreccio di sottili spighe di grano dimostravano che il giovane e valente scultore di Budaest ha compreso, con fine accorgimento, quanto giovevole possa riuscire all’effetto totale delle sale destinate ad una mostra straniera l’accordare il tradizionale bisogno di squillante brio cromatico con quella sobria amabilità aristocratica di rilievi e di tinte, in cui oggidì è finora maestro insuperato l’architetto svedese Ferdinand Boberg.
In quanto al Faragò, oltre a parecchi mobili, fra cui in particolar modo notevoli erano due armadi in legno colorito e dalle luccicanti borchie metalliche, avea ideata la semplice, ma garbata decorazione della sala delle «Scuole pratiche d’arte industriale» e quella un po’ bizzarra e forse anche un po’ grossolana in qualche figurazione, ma non punto sgradevole all’occhio, se la considerava nel suo complesso, della sala della «Società dell’industria domestica», di cui egli aveva attinta l’ispirazione primiera dalla tipica ornamentazione gaiamente chiassosa delle case di legno dei contadini della Transilvania.
Accanto al Maréthi ed al Faragò sono da rammentare con viva simpatia, fra gli ungheresi che avevano esposto a Milano, il Nagy, il Kéròsféi, l’Horti e la pittrice Maria Undi, come disegnatori di mobili; il Roth, come mosaicista; il Winsinger, come orafo e smaltatore; il Ligeti ed il Telcs, come scultori; lÒ Beck, come medaglisti, ed infine il Zsolnay, dalle cui officine ceramiche escono di continuo vasi, coppe, bocce e vassoi di gioconda originalità nell’accorta applicazione degli antichi e gloriosi lustri metallici di Gubbio.
Purtroppo, le altre sezioni straniere dell’esposizione d’arte decorativa di Milano non erano state ideate ed eseguite con la serietà di propositi e col rispetto pei diritti supremi dell’arte della belga e dell’ungherese. Alcune anzi, come ad esempio il grande padiglione francese e la frequentatissima vasta sala giapponese, per fatalità di cose e più ancora per peccaminosa incuria di uomini, portavano abusivamente sull’ingresso il titolo glorioso di arte decorativa moderna, giacchè non erano che emporî di produzioni svariate, ma tutte di carattere spiccatamente ed essenzialmente mercantile.
Due sezioni, che senza raggiungere l’eccellenza di quelle già più volte lodate del Belgio e dell’Ungheria, non mancavano di merito e presentavano vari gruppi di oggetti degni di richiamare l’attenzione del visitatore intelligente e di buon gusto erano l’Austria, coi tappeti del Ginzkey, i metalli del Krupp, i cristalli del Lobmeyer ed i mobili dei Thonet, dei Fischel, dei Portais e Fix, i quali, se non sempre per originale bellezza di sagome, si facevano però notare, di prim’acchito, per elegante semplicità e per praticità nell’uso frequente ed accorto del legno curvato col fuoco, e l’Olanda, coi mobili di Léon Cachet e di Nieuwenhuis, di un aspetto così tipico, con le signorili argenterie del Begeer, con le cromolitografie bellissime del celebre animalista Van Hoytema, e soprattutto con le stoffe graziosamente decorate mercè un sistema ingegnosissimo importato dalle colonne di Giava, conosciute sotto il nome di «batik» e con le piacevoli ceramiche delle ditte Augustin di Amsterdam, e Brouwer di Leiderdarp.
In quanto alle altre nazioni, se considerar non volevasi che la produzione di evidente carattere artistico, la Germania non era rappresentata che dall’arredamento assai leggiadro di un appartamentino moderno dell’Holbrich, e l’Inghilterra da una collezione di acqueforti, di litografie e d’incisioni, fra cui le tre davvero stupende di Frank Brangwyn, da una scelta gustosa di aristocratici vasi della «Ruskin Pottery», da alcune pregevoli rilegature in cuoio inciso ed in pergamena alluminata, su disegni di H. Granville Fell, e da alcune fibbie, da alcuni pettini e da alcuni fermagli, quali in argento sbalzato e quali in argento smaltato, della «Guild Handicraft».
La Svezia e la Norvegia non avevano partecipato ufficialmente alla mostra milanese, ma a ricordarne la modernista attività artistica vi era tutta una collezione delle delicate e squisite porcellane della Reale Manifattura di Copenhagen e vi era la mostra, così varia, così originale e così attraente, di ceramiche, di piccoli bronzi e di gioielli di quel versatile, aristocratico e geniale artista che è Hans Stoltenberg Lerche.
Nella sezione italiana, decorata con tanta vivace grazia di agili e disinvolti pennelli da Galileo Chini e Marcello Dudovich, quattro espositori si elevavano in modo speciale in mezzo alla mediocrità, alla banalità e spesso alla volgarità dei troppi verso cui la giurìa di accettazione erasi dimostrata eccessivamente indulgente, cioè Eugenio Quarti, Vittorio Ducrot, Alessandro Mazzucotelli e Giovanni Beltrami.
Il Quarti ed il Ducrot, a Milano come già a Torino nel 1902, hanno chiaramente dimostrato di essere, nella loro dissomiglianza oltremodo accentuata di aspirazioni artistiche e di applicazioni pratiche, i due più originali, abili e significativi fabbricanti di mobili dell’Italia di oggigiorno. Il primo, nella sua mirabile sapienza costruttiva di ebanista e nella sua squisita raffinatezza d’intarsiatore, ci appare come il principe della mobilia di lusso, mentre il secondo, lavorando su disegni di Ernesto Basile, gloria dell’odierna architettura italiana, rimane finora insuperato nel creare mobili di graziosa semplicità, in cui i diritti della bellezza e dell’eleganza artistica si accordano tanto garbatamente con quelli della praticità e dell’economia.
Il Mazzucotelli, poi, coi suoi lavori di ferro battuto, cancelli, ringhiere, lampade, tettoie e forniture di caminetto, addimostra, nel trattare il rude ed austero metallo, un’eccellenza d’inventiva e di tecnica che ne fa l’emulo dei migliori fabbri ornatisti di cui ai tempi nostri possonsi vantare la Germania, l’Olanda e l’Ungheria. Il Beltrami, infine, insieme coi suoi valenti collaboratori, Buffa, Cantinotti e Zuccaro, attestasi, mercè le sue grandi e piccole vetrate, così leggiadre di disegno e così vivaci di colore, in continuo progresso.
Qualche altro espositore potrei ricordare con lode, come ad esempio il Monti pei mobili, il Miranda ed il Malnati pei gioielli in oro ed argento cesellato, il Ferrari per le stoffe in seta, il Pizzanelli pei cuoi incisi e colorati, il Mattei per le rilegature su disegni del pittore Decol, il Tosa-Borella per alcuni bicchieri e per qualche boccia in vetro colorato, ma lo spazio mi manca per dilungarmi in osservazioni e riflessioni sulle opere loro e di alcuni altri non indegni di menzione.
Noterò invece con compiacimento che progressi grandi in breve tempo hanno fatto gl’italiani nei vari rami delle arti grafiche, come eloquentemente lo provavano i cartelloni e le copertine in cromolitografia, le tricromie, le foto-incisioni e le pubblicazioni illustrate esposte a Milano da Ricordi, dall’Istituto italiano d’arti grafiche, da Danesi, da Alfieri e Lacroix, dall’Unione degli zincografi e dalla Società editrice di «Novissima», e noterò altresì, con non minore compiacenza, che eccellente era, sempre sotto l’aspetto tecnico e parecchie volte anche sotto l’aspetto puramente artistico, la collezione di medaglie e targhette presentata dalla Ditta Johnson, e che varia, bella ed interessante si presentava quella dei lavori regionali della Cooperativa nazionale delle industrie femminili, fra i quali a buon diritto primeggiavano i merletti magnifici dell’«Aemilia ars», dei quali, se alcuni erano fedeli riproduzioni di antichi modelli, altri invece erano stati, con lodevole iniziativa, eseguiti su disegni moderni.
Mi sono riservato di ricordare per ultimo, a titolo di onore, il nome del giovane scultore Edoardo de Albertis, il quale ha sfoggiato tutta la sua non comune bravura plastica nello scolpire due ignude figure ai fianchi del monumentale sedile, presentato dalla « Marmifera ligure », che applica, otte- nendone ottimi risultati, un suo speciale processo per colorire il marmo con le tinte più varie e più vaghe.
Pure respingendo l’epiteto di « arlecchinesca », con cui un critico tedesco ha voluto malignamente bollare la novissima produzione d’arte applicata del nostro paese, bisogna convenire che, malgrado i notevoli progressi fatti in quest’ultimo lustro, essa in gran parte non ha raggiunta ancora la necessaria maturità e non si è ancora emancipata dall’influenza straniera od almeno non l’ha abbastanza bene assimilata, in modo che non si ha il diritto di affermare che esista già in Italia, come senza dubbio esiste in Inghilterra, in Francia o in Belgio, una novissima arte decorativa, nel completo e complesso senso della parola, mentre devesi riconoscere che vi esiste una schiera di artisti e di artieri valenti e volonterosi, i quali hanno consacrata, con abbastanza successo, tutta la loro attività cerebrale e manuale al risveglio delle troppo a lungo neglette arti minori. Se, però, il nostro governo si deciderà una buona volta a dare agli istituti d’arte industriale un assetto in accordo con le più recenti tendenze ed a proteggere in modo efficace i tentativi sagacemente rinnovatori e se il nostro pubblico, soprattutto, vorrà incoraggiarli di proposito, respingendo i prodotti di cattivo gusto, che speculatori poco scrupolosi intendono gabellargli per stil nuovo, io sono persuaso che, benchè giunti ultimi, noialtri italiani sapremo, fra non molto, occupare con onore il nostro posto, accanto agli altri popoli anche per quanto riguarda l’arte decorativa.
Vittorio Pica