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del famoso tesoro di Attila, e come nelle sagome di snello aspetto rusticano degli sgabelli con incisa sulla spalliera una data commemorativa. Però la generale tinta chiarissima delle pareti e il fregio degli archi d’entrata, tenuamente argenteo e di così amabile grazia decorativa nel semplice intreccio di sottili spighe di grano dimostravano che il giovane e valente scultore di Budaest ha compreso, con fine accorgimento, quanto giovevole possa riuscire all’effetto totale delle sale destinate ad una mostra straniera l’accordare il tradizionale bisogno di squillante brio cromatico con quella sobria amabilità aristocratica di rilievi e di tinte, in cui oggidì è finora maestro insuperato l’architetto svedese Ferdinand Boberg.

In quanto al Faragò, oltre a parecchi mobili, fra cui in particolar modo notevoli erano due armadi in legno colorito e dalle luccicanti borchie metalliche, avea ideata la semplice, ma garbata decorazione della sala delle «Scuole pratiche d’arte industriale» e quella un po’ bizzarra e forse anche un po’ grossolana in qualche figurazione, ma non punto sgradevole all’occhio, se la considerava nel suo complesso, della sala della «Società dell’industria domestica», di cui egli aveva attinta l’ispirazione primiera dalla tipica ornamentazione gaiamente chiassosa delle case di legno dei contadini della Transilvania.

Accanto al Maréthi ed al Faragò sono da rammentare con viva simpatia, fra gli ungheresi che avevano esposto a Milano, il Nagy, il Kéròsféi, l’Horti e la pittrice Maria Undi, come disegnatori di mobili; il Roth, come mosaicista; il Winsinger, come orafo e smaltatore; il Ligeti ed il Telcs, come scultori; lÒ Beck, come medaglisti, ed infine il Zsolnay, dalle cui officine ceramiche escono di continuo vasi, coppe, bocce e vassoi di gioconda originalità nell’accorta applicazione degli antichi e gloriosi lustri metallici di Gubbio.

Purtroppo, le altre sezioni straniere dell’esposizione d’arte decorativa di Milano non erano state ideate ed eseguite con la serietà di propositi e col rispetto pei diritti supremi dell’arte della belga e dell’ungherese. Alcune anzi, come ad esempio il grande padiglione francese e la frequentatissima vasta sala giapponese, per fatalità di cose e più ancora per peccaminosa incuria di uomini, portavano abusivamente sull’ingresso il titolo glorioso di arte decorativa moderna, giacchè non erano che emporî di produzioni svariate, ma tutte di carattere spiccatamente ed essenzialmente mercantile.

Due sezioni, che senza raggiungere l’eccellenza di quelle già più volte lodate del Belgio e dell’Ungheria, non mancavano di merito e presentavano vari gruppi di oggetti degni di richiamare l’attenzione del visitatore intelligente e di buon gusto erano l’Austria, coi tappeti del Ginzkey, i metalli del Krupp, i cristalli del Lobmeyer ed i mobili dei Thonet, dei Fischel, dei Portais e Fix, i quali, se non sempre per originale bellezza di sagome, si facevano però notare, di prim’acchito, per elegante semplicità e per praticità nell’uso frequente ed accorto del legno curvato col fuoco, e l’Olanda, coi mobili di Léon Cachet e di Nieuwenhuis, di un aspetto così tipico, con le signorili argenterie del Begeer, con le cromolitografie bellissime del celebre animalista Van Hoytema, e soprattutto con le stoffe graziosamente decorate mercè un sistema ingegnosissimo importato dalle colonne di Giava, conosciute sotto il nome di «batik» e con le piacevoli ceramiche delle ditte Augustin di Amsterdam, e Brouwer di Leiderdarp.

In quanto alle altre nazioni, se considerar non volevasi che la produzione di evidente carattere artistico, la Germania non era rappresentata che dall’arredamento assai leggiadro di un appartamentino moderno dell’Holbrich, e l’Inghilterra da una collezione di acqueforti, di litografie e d’incisioni, fra cui le tre davvero stupende di Frank Brangwyn, da una scelta gustosa di aristocratici vasi della «Ruskin Pottery», da alcune pregevoli rilegature in cuoio inciso ed in pergamena alluminata, su disegni


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