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minuto particolare, e la stanza da pranzo del De Coene, che, nell’austera semplicità delle linee, un po’ rigide, e delle tinte scure, e nella cura posta nel rendere comodo e facile il vivere in essa, ci dava, con straordinaria efficacia, l’impressione dell’intimità domestica di una casa dei paesi nordici.

La scoltura era rappresentata in modo che non poteva riuscire più degna da tutta una famiglia di statue in gesso, in marmo ed in bronzo di quel possente osservatore ed evocatore dell’esistenza laboriosa e penosa dei minatori e dei contadini che fu Constant Meunier; dal severo Pierre Braecke, col movimentato gruppo decorativo «La figlia dell’Ispirazione»; dal poderoso e sensuale Jef Lambeaux, con un frammento del magnifico suo bassorilievo «Le passioni umane»; dall’espressivo Jules van Briesbroeck, con due bronzee figurette infantili; dall’agile e piacente Rambeaux, con un gruppo di ignude giovanili figure muliebri; e poi ancora, con opere di minore importanza, dal versatile Charles van der Stappen, dal corretto ed elegante Paul Dubois, dal grazioso Charles Samuel e dai pregevolissimi medaglisti Jules Lagae ed Isidore de Rudder.

Bene rappresentata era anche la pittura, specie da Fernand Khnopff, con un trittico di sottile e squisita suggestione; da Émile Fabry, con un’ampia allegoria dell’«Espansione coloniale», robusta di disegno ed oltremodo saporosa di colore; da Albert Ciamberlani, con una scena anch’essa allegorica «Vita serena», di poetica ispirazione e di nobile composizione, ricordante però, forse troppo da vicino, Puvis de Chavannes; e poi ancora da Émile Berchmans, Jean Delville, Constantin Montald, Georges Buysse, Rodolphe Wytsman e Jean Delvin.

Due salette in particolar modo interessanti nel padiglione dell’arte moderna belga, erano quelle dei delicati ed abili lavori femminili, quali merletti, ricami, velluti stampati e cuoi incisi e colorati; e quella dell’arte del libro, in cui trionfavano sopra tutti gli altri James Ensen, con le sue acqueforti bizzarramente fantasiose, e Charles Doudelet, con le sue illustrazioni arcaiche di così delicata e preziosa minuzia di segno.

Un altro artista belga, venuto a Milano come espositore, che merita una specialissima menzione laudativa è Philippe Wolfers, sia come scultore, pel gruppo «Il ciclo delle ore», in cui dodici figure femminili sono evocate nel bronzo con una grazia vivace di attitudini mirabilmente ritmica, sia come gioielliere in una serie di scintillanti monili, in cui non sapevi se più ammirare l’ideazione da raffinato virtuoso ol’esecuzione da artefice sapientissimo.

Se nel padiglione belga era il cosmopolitismo che, il più delle volte, signoreggiava sotto gli aspetti più brillanti e più pratici della modernità, in quello ungherese, il quale, distrutto dal fuoco come l’italiano, sorse di nuovo dopo poco più d’un mese, in dimensioni minori ma non meno interessante e seducente, era il carattere tradizionalistico della razza magiara che prevaleva in tutto il fasto suo alquanto teatrale. I due artisti che hanno maggiormente contribuito, per la quantità e per la qualità del loro lavoro, al trionfale successo riportato a Milano una prima e poi una seconda volta nel breve periodo di un semestre, dalla sezione ungherese sono stati uno scultore, Géza Maròthi ed un pittore, Odòn Faragò.

Nulla si può immaginare di più elegante, di più leggiadro e di più caratteristico della vasta sala ideata dal Maròthi, in fondo a cui sommessamente cantava il sottil getto d’acqua della così detta «Fontana delle anitre». La nota vivace non mancava e vi era rappresentata da un alto zoccolo d’iridate mattonelle policrome, mentre la nota spiccatamente tradizionalistica appariva così nelle colonnine scolpite di evidente carattere arcaico, come nelle fioriere di rame martellato, in cui metodicamente ricomparivano la stilizzata testa di toro ed altri vecchi motivi ornamentali suggeriti dagli oggetti del V e VI secolo


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