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di H. Granville Fell, e da alcune fibbie, da alcuni pettini e da alcuni fermagli, quali in argento sbalzato e quali in argento smaltato, della «Guild Handicraft».

La Svezia e la Norvegia non avevano partecipato ufficialmente alla mostra milanese, ma a ricordarne la modernista attività artistica vi era tutta una collezione delle delicate e squisite porcellane della Reale Manifattura di Copenhagen e vi era la mostra, così varia, così originale e così attraente, di ceramiche, di piccoli bronzi e di gioielli di quel versatile, aristocratico e geniale artista che è Hans Stoltenberg Lerche.


Nella sezione italiana, decorata con tanta vivace grazia di agili e disinvolti pennelli da Galileo Chini e Marcello Dudovich, quattro espositori si elevavano in modo speciale in mezzo alla mediocrità, alla banalità e spesso alla volgarità dei troppi verso cui la giurìa di accettazione erasi dimostrata eccessivamente indulgente, cioè Eugenio Quarti, Vittorio Ducrot, Alessandro Mazzucotelli e Giovanni Beltrami.

Il Quarti ed il Ducrot, a Milano come già a Torino nel 1902, hanno chiaramente dimostrato di essere, nella loro dissomiglianza oltremodo accentuata di aspirazioni artistiche e di applicazioni pratiche, i due più originali, abili e significativi fabbricanti di mobili dell’Italia di oggigiorno. Il primo, nella sua mirabile sapienza costruttiva di ebanista e nella sua squisita raffinatezza d’intarsiatore, ci appare come il principe della mobilia di lusso, mentre il secondo, lavorando su disegni di Ernesto Basile, gloria dell’odierna architettura italiana, rimane finora insuperato nel creare mobili di graziosa semplicità, in cui i diritti della bellezza e dell’eleganza artistica si accordano tanto garbatamente con quelli della praticità e dell’economia.

Il Mazzucotelli, poi, coi suoi lavori di ferro battuto, cancelli, ringhiere, lampade, tettoie e forniture di caminetto, addimostra, nel trattare il rude ed austero metallo, un’eccellenza d’inventiva e di tecnica che ne fa l’emulo dei migliori fabbri ornatisti di cui ai tempi nostri possonsi vantare la Germania, l’Olanda e l’Ungheria. Il Beltrami, infine, insieme coi suoi valenti collaboratori, Buffa, Cantinotti e Zuccaro, attestasi, mercè le sue grandi e piccole vetrate, così leggiadre di disegno e così vivaci di colore, in continuo progresso.

Qualche altro espositore potrei ricordare con lode, come ad esempio il Monti pei mobili, il Miranda ed il Malnati pei gioielli in oro ed argento cesellato, il Ferrari per le stoffe in seta, il Pizzanelli pei cuoi incisi e colorati, il Mattei per le rilegature su disegni del pittore Decol, il Tosa-Borella per alcuni bicchieri e per qualche boccia in vetro colorato, ma lo spazio mi manca per dilungarmi in osservazioni e riflessioni sulle opere loro e di alcuni altri non indegni di menzione.

Noterò invece con compiacimento che progressi grandi in breve tempo hanno fatto gl’italiani nei vari rami delle arti grafiche, come eloquentemente lo provavano i cartelloni e le copertine in cromolitografia, le tricromie, le foto-incisioni e le pubblicazioni illustrate esposte a Milano da Ricordi, dall’Istituto italiano d’arti grafiche, da Danesi, da Alfieri e Lacroix, dall’Unione degli zincografi e dalla Società editrice di «Novissima», e noterò altresì, con non minore compiacenza, che eccellente era, sempre sotto l’aspetto tecnico e parecchie volte anche sotto l’aspetto puramente artistico, la collezione di medaglie e targhette presentata dalla Ditta Johnson, e che varia, bella ed interessante si presentava quella dei lavori regionali della Cooperativa nazionale delle industrie femminili, fra i quali a buon diritto primeggiavano i merletti magnifici dell’«Aemilia ars», dei quali, se alcuni erano fedeli riproduzioni di antichi modelli, altri invece erano stati, con lodevole iniziativa, eseguiti su disegni moderni.

Mi sono riservato di ricordare per ultimo, a titolo di onore, il nome del giovane scultore Edoardo de Albertis, il quale ha


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