Novelle (Sercambi)/Novella LXXII
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LXXII
L>o preposto e la brigata avendo udito la novella di Dante, li stormenti cominciarono a sonare; e le danze prese, danzarono con tanto piacere che l’affanno sostenuto del caminare niente si ricordavano; e tal danze fenno più ore, tanto che i confetti e’ grechi funno aparecchiati. E rinfrescatosi tutti, lo preposto a l’altore si rivolse comandandoli che una novella dica fine che’ cantarelli d’una canzonetta vorranno le donzelle far liete. L’altore, che presto era a ubidire, disse: «Dicano, et io poi dirò la mia novella». Li cantarelli disseno:
«Canzone, a chi non sa vivere andrai,
dicendo: Io son colei
che do di buona vita altrui la via
e ’nsegno per vertù qui fugir guai
e’ vizii uccider rei
a chi seguir vuol la dotrina mia.
Io son colei che mostro la follia
su’ a colui che ’l mondo tiene a bada:
di paradiso ancor mostro la strada».
L’altore poi disse:
DE JUSTA RESPONSIONE
Come lo re di Napoli volse provare di veder lo senno
di Dante da Firenze in più modi.
C>ome innell’altra novella avete udito, come i’ re Uberto di Napoli per desiderio di vedere Dante e per sentire quant’era il suo senno in corte l’avea fatto venire; et essendosi acorto che lui era savio, lo volse provare come era forte a sostenere le ingiurie; e pensò farlo adirare per mezzo de’ suoi buffoni. E fattone dinanti da sé venire vi, comandò loro che a Dante dessero tanta noia di parole che lui s’adiri; non però volea che dicessero né facessero cosa da dispiacere, salvo che con parole per modo di motti lo tastassero. Li buffoni (perch’e’ naturalmente hanno alcuna ritentiva et astuzia) pensonno con alcuni motti fare adirare Dante, e simile pensarono la sua scienzia vilipendere con uno onesto modo.
E fatto loro pensieri, ciascuno de’ ditti buffoni di bellissime robbe si vestirò et in presenzia de’ re e di Dante se ne vennero. Lo re, che sa quello che coloro han diliberato, prendendo Dante per mano, e per la sala l’andava menando domandandolo or d’una cosa or d’un’altra, tanto che i buffoni, acostatosi a’ re disseno: «Santa corona, noi ci meravigliamo che voi così di segreto state con cotesto prelato, il quale ci pare che debbia essere da poco». Lo re disse: «Come, non cognoscete voi costui, che è il più savio omo d’Italia?» Li buffoni dissero; «Come è quello dite? È costui Salamone?» Rispuose il re: «Egli è Dante!» «Tò, togli!», disse uno delli buffoni, «Fa’ buot’a Dio, che mi pare innell’aspetto di que’ brodolasti da Firenze, e non so se elli è tanto savio che sapesse l’Amo rivolgere in su acciò che de’ pesciulini se ne prendesse a Montemurlo».
E mentre che quello buffone dicea, l’altro prese la parola dicendo: «Santa corona, io vorrei sapere da Dante, se lui è così savio che si tiene, che mi dica perché la gallina nera fae l’uovo bianco». Disse il terzo buffone: «Come hai ditto bene, compagno mio! ché se Dante serà quel savio che lui medesmo si tiene, diffinita la tua quistione, mi converrà dire per che cagione l’acino, che ha il culo tondo, fa lo sterco quadro». Lo re sta fermo e gran voglia ha di ridere, ma pure, per non dimostrare a Dante che lui ne sia stato cagione, fermo stava.
Dante, che di prima aparienza avea i buffoni cognosciuti, vidde quello esserne stato cagione lo re: steo pure a scoltare pensando tutte le parti rispondere per figura, gittando tutte le vergogne a dosso a’ re.
Udito il quarto buffone le sottili e prefonde quistioni, rivoltatosi verso Dante disse: «O Dante, la vostra fama vola per tutto come fanno le penne gittate giù da una torre, che l’una va alta e l’altra bassa in qua e in là. Ditemi: che fanno li pianeti?» Lo quinto buffone disse: «Per certo Dante dé sapere — tanto ha cercato dentro e di fuora — in che modo si può servire a Dio e al mondo». L’ultimo disse: «Oh, che lena a dire che Dante sia savio! Io per me noi credo, però che ’l savio omo sempre acquista e acquistando vive con onore, e lui vituperoso si vive. E però conchiudo ciascun di noi essere di magiore sentimento che lui, e pertanto ci pare che lui non sia degno così al pari con voi, santa corona, d’avere andare».
Dante, che tutto ha incorporato senza alcuna dimostrazione di coruccio, niente dicea, non dimostrando che a lui fusse ditto. Lo re Uberto dice: «O Dante, tu non rispondi a quello che costoro t’hanno domandato e ditto?» Dante dice: «Io pensava che queste cose dicessero alla vostra persona, e pertanto io lassava lo rispondere a voi; ma poi che voi mi dite che a me hanno ditto ne prenderò la magioria di rispondere, ben che onesto non sia a parlare di sì fatte cose dove siete però che a tale qual siete voi toccherè’ tal risposta fare. Ma poi che vi piace risponderò a tutti secondo che la lor domanda contiene, cominciandomi prima dal primo, dicendo: i fiorentini — li quali quello è magior fatto più volte hanno fatto che di volger l’Arno in su per prender de’ pesciulini — ti dico che la marina, la quale è acqua di molta potenzia, rivolsero in su; e non che prendesseno pesciolini, eliino preseno un gran pescio con molti pesci mezzani e minori: e questo fu quando preseno lo bel castel di Prato, dove fu preso quel re che tenete per signore». Lo re Uberto che questo ode, stimando la verità disse: «Dato m’ha per contra colle miei medesme pietre!» E steo a vedere.
E voltosi Dante al secondo buffone, disse: «Ogni signoria, quantunque si sia di stato grande come serè’ lo re Uberto, si pretendono essere vuova dell’aquila, cioè che ogni signore dé esser sottoposto allo ’mperio». Lo re Uberto, che era guelfissimo, udendo il ditto di Dante, stimò per lui tal cosa aver data.
Ditto Dante le du’ particelle, disse al terzo: «Lo tondo ragionevolmente non dé ad alcuna parte pendere, in tutte le suoi parti è uguale, e quella cosa che dal tondo si trasforma si può dire adultera. E pertanto dico che quella corte dove sono adulteri, cioè disformanti dal tondo cioè dalla signoria, si può dire sterco quadro, e per consequenza chi quelli notrica si può riputare acino e non signore». Lo re, comprendendo le parole, stimò Dante savio, ché dello ’nganno s’era aveduto.
Rivoltatosi dapoi Dante al quarto buffone dicendo: «Tu m’hai domandate dell’alte cose: a queste ti rispondo che tu non hai capacità di poter intendere quello domandi. Ma chi si crede aver capacità et ha desiderio <di intendere> le oculte cose, non ariverà mai a vera cognizione se l’usanza sua serà con simili di voi»; lo re Uberto, che avea desiderio di sempre sapere, udendo le parole di Dante stimò per lui esser ditto.
Lo quinto buffone stava col piede alto innanti per volere intendere la solvigione della sua domanda. Dante li disse: «Io t’insegnerò tenere il modo che ’l paradiso e lo ’nferno acquistar puoi: tenendo tu il capo in Roma e ’l culo in Napoli» (quasi a dire: in Roma sono tutte cose sante, in Napoli tutte donne e omini dati a concupiscenzia di lussuria). E per questo modo lo re comprese che in Napoli non era alcuna donna né uomo del vizio di lussuria netto.
E per volere Dante a tutti dare la sua asolvigione, si rivolse a l’ultimo buffone, dicendoli: «Se Dante trovasse tanti matti quanti trovate voi, elli sarè’ meglio vestito che voi, però che naturalmente il senno dé esser più pregiato da’ matti che’ buffoni». Lo re, avendolo udito, disse a Dante: «Donqua siamo, noi che tegnamo i buffoni, matti?» Dante rispuose: «Se amate virtù tenendo i modi che ora veggo, matti siete a consumar il vostro in così fatte persone». Lo re e’ buffoni cognoscendo che Dante li avea vituperati, rivoltosi i’ re a Dante disse: «Ora cognosco la tua vertù esser più che altri non dicea». E tutto li disse del modo tenuto co’ buffoni, dicendoli: «Omai vo’ che innella mia corte dimori alquanto»; faccendoli gran doni.
E per questo modo Dante vinse i buffoni e fe’ cognoscente i’ re Uberto.
Ex.º lxxii.