Novelle (Sercambi)/Novella CVIIII

Novella CVIIII

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Novella CVIII Novella CX
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CVIIII


L>a brigata giunta a Recanato, dove con sollazzo si dienno buon tempo fine alla mattina che levati seranno; <e levati>, il proposto comandò che l’altore una novella dica fine che a Cesena giunti saranno, ma prima dica una canzonetta. Lui presto disse:

«Io, Gola, mangio e beo fuor di misura,
tanto che ’l gusto mio, ghiotto e cattivo,
desiderando sta d’ogni ben privo».

E presto a ubidire, disse: «A voi, golosi, li quali non pensate mai potervi impiere di cibi ghiotti, ad exemplo dirò una novella d’uno che per fare tali cibi ne perdéo la persona». Incominciando così:

DE SUMMA GOLOSITATE

Quando la corte di Roma era a Vignone, un pastiscieri facea pastelli di carne di uomo.

A>l tempo che papa Urbano Quinto tenea la corte di Roma innella città di Vignone, dove tutta la cristianità vi correa e là v’era grande corte de’ cortigiani e d’altri mercadanti et artieri, infra li altri mestieri che quine in abundanza erano si era il mestieri del cuoco, però che generalmente tutti quelli che la corte visitavano sono più tosto maestri del boccolieri che della spada, cioè che sono più tosto golosi che franchi a combattere; e con tale vizio procede esser di lusuria involti. Di che quelli che tal [p. 480 modifica]mestieri di cuoco fanno, con libri e con maestrìa s’ingegnano le vivande fare tanto ghiotte che la loro bottega abbia gran ressa e guadagno. Et infra l’altre vivande, in Vignone e dov’è la corte di Roma, ci sono li pastelli e di quelli si fanno assai, con gran profitto.

Sentendo che molto guadagno si facea de’ pastelli, uno giovano da Fermo nomato Troiante, il quale più anni era stato scarano e malandrino e d’ogni cattiva condizione, il quale più volte come malvagio avea mangiato e lesso et arosto de li omini che uccisi aveano, et avendo sentito quanto era ghiotta cosa, pensò d’andare a Vignone poi che sentito avea l’arte de’ pastelli e del cuoco esser di tanto frutto. E così da Fermo si partì e caminò a Vignone, dove Troiante fe’ uno ostello di mangiar cotti. E per aver nome di fare buone vivande, et anco per ispender meno, se n’andava ogni dì al giubetto e della carne delle cosce e de’ luoghi carnosi di quelli che di fresco apiccati erano prendea e e con quella facea de’ pastelli. E tali vernano tanto odoriferi e buoni, che tutto Vignone concorrea a prendere da Troiante li pastelli et altre vivande.

<Avenne che uno>, essendo molto ghiotto, co’ suoi amici procacciò la podestaria di Vignone solo a fine di quelli pastelli potere mangiare. E come pensò li venne fatto, ché eletto fu podestà di Vignone et all’officio andò. Et intrato innell’oficio, domandò quelli che usavano le vivande ghiotte qual persona le facea migliori. Fulli ditto Troiante essere sommo maestro, e che pari di lui trovar non si potea. Lo podestà subito mandò per lui.

Troiante comparito disse al podestà quello che volea. Lo podestà disse: «E’ in’è ditto che tu fai le miglior vivande e le più ghiotte che persona di Vignone, e massimamente li pastelli; e pertanto voglio che ogni dì ch’è da mangiare, fà che io n’abbia alcuno». Troiante disse: «Serà fatto». E partitosi, la sera ne li mandò uno dicendo: «Questo vi manda Troiante che l’asaggiate, e non vuole che questo alcuna cosa vi gosti; e se questo vi piacerà vi farà delli altri e voi li pagherete». A cui lo podestà disse ch’era contento. Et assagiato quello pastello e parutoli buono meglio che vivanda che mai mangiasse, mandò a dire a Troiante [p. 481 modifica]che ogni dì ne li mandi o uno o due e che bene lo pagherà. Troiante così fa, che ogni giorno al podestà ne mandava.

Divenne una sera che il podestà avendosi posto a taula per cenare et avendo innanti uno de’ pastelli che Troiante mandato li avea, e prima che cominciasse a toccare niente, subito fattosi alcuna zuffa e romore in Vignone, fu di necessità che ’l podestà si levasse da taula e coll’arme tutta la notte stesse per Vignone alla guardia; né miga potéo aver agio di cenare: pensando la mattina mangiare quello pastello, lo fe’ ripuonere. E steo fino alla mattina che il romore richetato fu.

E tornato il podestà al palagio, volendo mangiare si fe’ il pastello alquanto riscaldare e dinanti da sé venire. E come lo venne ad aprire trovò tutto quello pastello pieno di vermi vivi. Lo podestà, vedendo questo, stimò per certo < . . . . . > non dover essere, dicendo: «Or come può esser la carne cotta e calda faccia vermi in sì picciol tempo?» E volendo sapere la cosa com’era, mandò per Troiante, mostrandoli quello che il pastello avea fatto. Troiante quasi palido non rispondea. Lo podestà, vedendolo palido diventare, stimò che Troiante avesse qualche cattività fatto. E messoli paura, Troiante confessò li pastelli e altre vivande fare della carne delli omini apiccati. Lo podestà, mandato al giubetto, trovò tutti li apiccati avere tagliato i polpacci delle cosce e del culo e d’ogni lato dove carne senz’osso sta. E fattone relazione, il podestá veduto quello vole, a ragione più presto che potéo Troiante per la gola apiccar fe’, avendo prima fatto legger il perché.

E saputosi per Vignone tal cosa, qual più era vago di pastelli, per lo modo tenuto di Troiante vennero a ciascuno in fastidio, et il ditto podestà de la golosità che prima avea s’astenne, disponendo poi la vita sua a temperata vivanda né mai di cose nuove s’invaghìo. E così molti altri feceno.

Et io altore, ciò sentendo, dispuosi che pastelli mai in mia casa si facesseno; e così fine qui s’è oservato et oservasi fine che vivo serò.

Ex.º cviiii.