Novelle (Bandello, 1910)/Parte II/Novella XXXI
Questo testo è incompleto. |
◄ | Parte II - Novella XXX | Parte II - Novella XXXII | ► |
IL BANDELLO
a l'illustre e gentilissimo signore
il signor
marco pio di carpi
Non guarda con tanti occhi l’alto cielo in terra quando, da ogni nube purgato, piú lucido e zaffirino con la chiara ed argentata luna la notte l’eterne sue bellezze ci dimostra, né tanti fiori la florida Flora ne la primavera maestrevolmente con nativi e bellissimi colori va diversamente dipingendo, né la saporosa e dolce Pomona tanti frutti da ogni tempo riduce a la debita maturitá, quanti sono gli effetti che il lusinghevole e pieno di mille lacci amore nei cori dei semplici mortali produce, alora che egli, le sue velenose fiammelle variamente avventando, gli abbruscia. Dico «variamente», perciò che chiaro si vede e con man si tocca che secondo che egli in diversi temperamenti di corpi s’attacca, cosi diverse e varie n’escono l’operazioni che gli uomini innamorati fanno. E forse con veritá direi che amore non è quello che fa talor alcuni strabocchevoli svarioni che a molti far si veggiono, ma il lasciarsi superare da le passioni è la cagione di quelli. Pertanto io mi do a credere, e giovami esser in questo parere, che non sia lecito di accusar amore quando avviene che uno mal venturoso amante trascuratamente faccia alcuna cosa fuora del debito ordine, perciò che la colpa non è de l’amore, ma di noi che, come giá cantai, non sappiamo amare. Ora deve ciascuno sapere che l’oggetto de l’amore è la cosa che «amabile» si noma, la quale altro domandar non potrá giá mai che tutto quello che buono ci appare, essendo pure, come tutti i savi vogliono, l’apparente buono il proprio e vero oggetto del nostro appetito. Mentre che questo apparente buono a l’appetito s’appresenta e lo demolce, subito l’ingordo appetito, ebro di piacere, inverso quello, come la vaga farfalla a l’amata luce 206 PARTIS SECONDA si raggira; indi in lui nasce una certa compiacenza e dilettazione che verissimamente si chiama « amore ». Questa compiacenza, se con ragione parlar vogliamo, erronea cosa sarebbe chiamar « desiderio », ancor che sia principio di quello, perché dal movimento che ella fa verso ciò che le appar buono nasce senza dubio, come fa il ruscello dal fonte, il desiderio. Onde il maestro di color che sanno lasciò scritto che tutti desiderano ed appetiscono il bello e il buono, cioè tutto quello che buono e bello ci appare. Quando adunque si ragiona di questo affetto che si dice «amore», è convenevol cosa che s’intenda, non di quella compiacenza che dolcissimamente ci diletta, ma del movimento il quale secondo diverse considerazioni debbiamo drittamente « desiderio » nomare. Da questo senza controversia alcuna segue la cosa apparentemente buona esser il vero oggetto de l’amore. Può questa cosa poi in vari e diversi modi apparerei buona, ora sotto il colore de l’onesto, ora vestita di quel manto che il diletto ci suol porgere, e talvolta sotto il velo de l'utile, che tanto pare che tutti i mortali con tante fatiche e travagli e pericoli grandissimi bramino e vadano cercando. Ma di questi tre amori che sono la somma di tutti, quello che ne l'utile si abbarbaglia e in quello il suo fine statuisce, ed intricandosi solamente nel pensiero de l’utilità che se ne può cavare quivi si ferma, è assai menore di quello che d'onestà s'arma ed a quella s’attiene, e di quello altro che a sé gli animi nostri col mezzo del diletto tira e rapisce, anzi alletta e lusingando ingombra. E fuor di questi tre amori, lasciando per ora di parlar de l’amor divino, io porto fermissima openione che altro amore non si truovi. Ghé se si vorrà ragionare o de l’amor animale o de l’amor bestiale o del ferino ed anco del naturale, tutti per giudicio mio, quale egli si sia, ben che da varie cagioni dipendano, a questi tre si riduranno. Ma, lasso me! dove mi sono io lasciato trasportare? ché in vero impensatamente sono in questo ragionamento trascorso. Tuttavia non mi dispiace tanto aver vene detto, perciò che essendo voi sul bel fiore de la vostra giovinezza, non vi potrà se non sommamente giovare se sovente pensarete, come saggiamente disse il venturoso e magnanimo NOVELLA XXXI 207 Affricano al re Massinissa, non esser tanto di pericolo a l’età giovinile negli esserciti degli armati nemici, quanto si prova dagli amorosi carnali diletti avvenire; di maniera che vie più di gloria s’àcquista in vincer (’amorose passioni e se stesso e fuggir queste lascivie che snervano e spolpano la gioventù, che non si guadagna onore in superar tutti gli armati esserciti del mondo. Mi sono adunque mosso a scrivervi per narrarvi come talora amore i sensi nostri, mutando, abbaglia e bene spesso una cosa per un’altra ci fa vedere. Onde ragionandosi dei molti inganni nei quali incorrono i miseri ed incauti amanti, il nostro gentilissimo, il signor Carlo Attellano, come sapete piacevo! e bel favellatore, narrò a la presenza del molto umano e cortese signor Alessandro Bentivoglio vostro onorato zio un accidente avvenuto ne la città di Milano. Mi parve degno il caso d'esser consacrato ad eterna memoria per ammonizione dei giovinetti che incautamente si lasciano irretire. Descrissilo subito, e voi mi occorreste a cui donare lo devessi in testimonio de la nostra cambievol benevoglienza. Voi in questa vostra fiorita gioventù tanto più séte periglioso in questi intrigamenti amorosi incappare, quanto che l’età e la inclinazione del temperamento vostro naturale pare che a l’amorose passioni tutto v’ induca. Perciò vivete cautamente e guardate che la vostra libertà non vi sia rubata. FaciI cosa è traboccar ne l'abbisso de la servitù; ma il ritornar indietro e ricuperare la cara perduta libertà è opera molto più difficile che altri non crede. Orsù, accettate questo mio picciolo dono ed ai vostri signori fratelli Gostanzo e Girolamo fatene parte. Che nostro signor Iddio lungamente tutti vi conservi. NOVELLA XXXI Amore di messer Gian Battista Latuate e l’errore ov’era intricato, con l’arguta risposta de la sua innamorata. Egli è una gran cosà, madama mia osservandissima, che ogni volta ch’io voglio parlar de la mia patria Milano, ci siano pur assai che cosi mal volentieri m’ascoltino, massimamente se 20S PARTE SECONDA 10 mi metto a voler lodar quella città. E nondimeno ce ne sono molti che non si ricordando avermi talora ripreso che io voglia lodar la mia patria, entrano, .non se n’accorgendo, nel pecoreccio di voler metter sovra le stelle alcune patrie loro che Dio per me vi dica come mertano esser lodate. E se io domando loro per qual cagione non vogliono che io dica bene de la patria mia, altro insomma non mi sanno che rispondere se non che 11 parlar milanese è troppo più goffo che parlar che s’usi in Lombardia, e quasi che non si vergognano chiamarlo più brutto che il bergamasco. Ma io non trovo mai — per l'ordinario, dico — che i tedeschi parlino altro linguaggio che il loro, i francesi quello di Francia, e cosi ogni nazione il parlar suo nativo. 10 non vo’ già dire che la lingua cortegiana non sia più limata de la milanese, ché mi crederei dir la bugia; ma bene mi fo a credere che nessuna lingua pura che s’usi del modo ov e nata, che sia buona. Si pigli pure e la toscana e la napoletana e la romana o qual altra si voglia, che tutte, non ne eccettuando alcuna, hanno bisogno d’esser purgate e diligentemente mondate, 'altrimenti tutte tengono un poco del rozzo ed offendono gli orecchi degli ascoltanti. Cosi credo io che il parlar milanese sia da sé incolto, ma si può leggermente limare. Tuttavia io non saperei biasimare chiunque si sia che la lingua sua volgare parli, che insieme con il latte ha da’ teneri anni bevuta. 11 primo cardinale Trivulzo, che nato e nodrito era stato in Milano e fu già vecchio fatto cardinale, andò a star a Roma al tempo di papa Giulio secondo. Egli parlando non si poteva nasconder che non fosse milanese, si schiettamente quel linguaggio parlava. Gli fu da molti detto che devesse mutar parlare ed accostumarsi a la lingua cortegiana; onde sorridendo rispose loro che gli mostrassero una città megliore e d’ogni cosa più abondante di Milano, che alora egli imparerebbe quell’idioma; ma che ancor non aveva sentito dire che ci fosse un altro Milano. E ben diceva egli il vero, perciò che a lo stringer de le balle pochi Milani si trovano. Onde io che per l’Europa e per l’Affrica sono tanti anni ito errando, a parlar da gentiluomo e dire veramente ciò che ne sento, io reputo Milano aver poche città che il pareggino NOVELLA XXXI 209 e siano d’ogni cosa al viver umano necessaria si abondevoli come egli è. Il perché Ausonio Bordegalese nel catalogo de le città mirabilissimainente lo commenda e quasi Io fa pari a Roma, in quei tempi che ancora Roma da’ barbari non aveva ricevuto danno, ma intiera e bella fioriva. Se adunque un poeta guascone lo loda, non riputo che a me debbia esser disdicevole aver fatto il medesimo e farlo ogni volta che me ne venga l’occasione. Dico adunque che in Milano, ricco e copioso d’ogni buona cosa e pieno di grandissima e leggiadra nobiltà, non è molto tempo fu un giovinetto chiamato Gian Battista da Latuate che per la morte del padre era rimaso ricchissimo e si nodriva sotto la cura de la madre, madrona nobilissima dei Caimi, la quale poneva ogni diligenza, studio e sollecitudine in allevar questo suo unico figliuolo gentilmente e fare che insieme con le buone lettere riuscisse ornato d’ottimi costumi. Crebbe il giovinetto, e già essendo di quindeci in sedeci anni, dava a tutti ottima speranza di farsi un compito gentiluomo, praticando con altri giovini gentiluomini e spesso essercitandosi ora in cavalcare, ora in giocar a la palla ed ora su la scola de lo schermire, adattandosi meravigliosamente al maneggio d’ogni sorte d’armi. Aveva egli le paterne case, come ancor ha, ne la strada di Brera; e cavalcando sovente per la città a diporto ora su una mula ed ora sovra generosi cavalli, avvenne che passando per la contrada del Borgo Nuovo vide una giovanetta, che era ad una finestra che aveva una gelosia dinanzi, e quivi se ne stava a veder chiunque per la via passava. Parve a Gian Battista di non aver mai più veduta fanciulla cosi bella né cosi vezzosa, e di tal maniera in quella prima vista s’abbagliò e tanto gli piacque la giovanetta, che altrove che a quella non poteva rivolger l’animo. Onde due e tre volte quell’¡stesso giorno le passò per dinanzi e sempre al medesimo luogo la vide, e quanto più la vedeva tanto più gli pareva che la bellezza e la grazia in lei agumentasse. Fatto poi spiare da uno dei suoi servidori chi fosse il padre di quella, intese che era un gentiluomo non molto ricco ma persona da bene e di buona fama. Tutto quel di e la seguente notte ad altro non pensava l’innamorato giovine che M. Handello, Novelle. 14 210 PARTE SECONDA a la veduta fanciulla, e tutti i suoi pensieri erano pur fitti in un solo pensiero: di poter parlar con quella. Cominciò adunque ogni di, ora a piedi ed ora a cavallo, come più in destro gli veniva, a corteggiarla, ed ogni volta che quella vedeva, che quasi era ogni tratto che per la contrada passava, le faceva con la berretta in mano riverenza, e di maniera con gli occhi a quella fisi la vagheggiava che di leggero chi veduto l’avesse del suo amore accorto si sarebbe. Ella che cortese e costumatissima era, ogni volta che il giovine gli faceva onor di berretta, modestamente col capo alquanto chino e con lieto viso l’onor ricevuto gli rendeva, di che Gian Battista meravigliosa consolazione sentiva, parendogli che ella non avesse a sdegno esser da lui amata. Durò alquanti di questa pratica, ogni di più infiammandosi il giovine e riposo nessuno non ritrovando se non tanto quanto la vedeva. Ebbe modo col mezzo d’una vecchia di scriverle un’amorosa lettera, ne la quale le diceva come ferventissimamente quella amava, con quelle affettuose ed amorevoli parole che questi giovinetti di prima piuma sogliono a le innamorate loro scrivere. Accettò la fanciulla la lettera e la lesse, ma altra risposta non le rese. Replicò l’innamorato Gian Battista un’altra lettera tutta piena d’amorose parolette, di suplichevoli preghiere, e le faceva instanzia grandissima che ella degnasse di prestargli una udienza segreta, perché le faria intender molte cose che non era da esser commesse a la scrittura e che le sarebbero care. A la giovanetta punto non dispiaceva d'esser vagheggiata ed amata da cosi nobile e ricco giovine, ed ancor che pari suo non fosse, sperava perciò che di leggero egli cosi potesse invaghirsi che per moglie la prenderebbe. Ella era ingegnosa ed avveduta molto, e chiaro comprese ciò che importava il gergo de l’audienza segreta. Gli rescrisse adunque ella ringraziandolo de l’amor che diceva di portarle, e che ella amava lui quanto ad onesta fanciulla apparteneva: di segreta audienza da lei avere, che non sperasse già mai, perciò che cotali audienze da lei si serbavano a colui che il padre le daria per marito. Avuta questa savia risposta, Gian Battista, essendo da l’amorosa tarantola morso ed il veleno troppo a dentro NOVELLA XXXI 21 I penetrato, tuttavia più si sentiva accendere, e tanto più andava di mal in peggio quanto che la fanciulla ogni volta che lo vedeva tutta allegra gli faceva buonissimo viso e pareva che volentieri si lasciasse vedere. Essendo adunque egli in questi termini e rimedio al suo amore non ritrovando, conchiuse tra sé di parlar al padre di lei e chiederla per moglie. Fatta questa deliberazione e presa l’oportunità, ritrovò il padre de la sua innamorata e gli disse, dopo che salutato l’ebbe: — Messer Ambrogio, per non entrar ne l’orto de le belle parole e de le cerimonie, io con voi parlerò a la libera. So che voi sapete ciò che io mi sono e che non vi accaderà andar cercando informazione de’ casi miei. Quando a voi piaccia di darmi vostra figliuola Laura per moglie, io volentieri la sposerò, perché sono già molti di che ella meravigliosamente mi piace e tra me ho fatta ferma deliberazione di seco maritarmi. — Messer Ambrogio si meravigliò molto di questa domanda, e conoscendo la nobiltà e le gran ricchezze del giovine, che sapeva che in Milano averebbe molto meglior partito e più nobiltà e roba ritrovato, restò un poco sospeso, e poi cosi gli rispose: — Signor Gian Battista, a me non accade pigliar informazione de’ casi vostri, sapendo molto bene quello che voi séte. E per questo non posso se non grandemente meravigliarmi de la domanda vostra, che vogliate abbassarvi a prender mia figliuola, che se bene è nata nobile pur è figliuola di povero padre, ché le mie facoltà non son tali ch’io possa darle a gran pezza la dote che a voi si conviene. — Non mi parlate di dote — disse l’amante, — perciò che la Dio mercé io ho roba assai per lei e per me, e non vi chieggio né dote né altro se non Laura sola, a la quale io farò conveniente dote e tale, quale ad un par mio appartiene. Risolvetevi pure a darmi vostra figliuola, e del resto non vi prendete né cura né fastidio. Averò ben caro che mia madre per ora nulla ne sappia. Ma per sicurezza vostra io sposerò Laura in presenza di quattro e cinque dei vostri più prossimi parenti. — Messer Ambrogio alora gli rispose: — Signor mio, egli è ben fatto che in un caso di tanta importanza voi ci pensate suso meglio cinque o sei di ancora, ed io altresì penserò ai casi miei. — Pensate pure PARTE SECONDA disse il giovine — esser i sei giorni passati, che io lungamente tra me ho pensato sovra questo e sono determinato di quanto mi piace di fare. — Or via — soggiunse messer Ambrogio, — un altro di ne parleremo a piú bell'agio. — Ed andato l'uno in qua e l’altro in lá, scrisse il fervente e sollecito amante a la sua innamorata quanto col padre di lei aveva ragionato, del che ella si trovò meravigliosamente lieta. Messer Ambrogio, pensando a quello che il giovine chiesto gli aveva, dubitò che credendo di far amicizia e parentado non acquistasse una eterna nemicizia. Egli conosceva la diseguaglianza che tra le parti era, e giudicava cotal matrimonio non deversi fare. Il perché diligentemente al tutto lungamente pensato, ebbe modo di parlar con madonna Francesca — ché tale era il nome de la madre de l’innamorato giovine — e puntalmente le narrò tutto il ragionamento che con il giovine era passato. Si trovò assai di mala voglia madonna Francesca di cotal nuova, e ringraziò pur assai messer Ambrogio che le avesse la voluntá del figliuolo fatta intendere, e lo essortò a maritar Laura e non perder tempo. Si strinse ne le spalle il povero gentiluomo e si scusò dicendo che la possibilitá non ci era e che Laura ancor era fanciulletta e non passava il tempo. Li domandò madonna Francesca quanto egli soleva dar di dote a le sue figliuole. A cui egli rispose: — Io, signora, ne ho maritate due e ho dato a ciascuna di loro mille ducati. Al presente mi resta Laura, a la quale vo’ dar il medesimo quando sará il tempo, ché volendola adesso maritare non averei il modo di pagar cento fiorini. — Disse alora madonna Francesca: — Messer Ambrogio, a ciò che voi conosciate quanto m’è stato caro l’avviso che dato m’avete del desiderio del mio figliuolo, cercate partito uguale a vostra figliuola, e quanto piú tosto lo farete sará meglio; ed io vi presterò tutti i mille ducati de la dote, i quali voi mi restituirete con vostra comoditá in cinque o sei anni. Né altro da voi voglio che uno scritto di vostra mano. — A questa si cortese e larga proferta rese messer Ambrogio quelle grazie che seppe le maggiori, e promise a madonna Francesca non mancar d’usar ogni diligenza per maritar Laura. E cosí restarono d’accordio. Sollecitava tuttavia Gian NOVELLA XXXI 213 Battista con lettere ed ambasciate la sua Laura, e tante volte quante in destro gli veniva passava per la contrada, ed ogni volta che a la finestra la vedeva gli pareva veder un nuovo paradiso aperto, sentendo da quelle viste una interna e meravigliosa consolazione. Madonna Francesca, che aveva paura grandissima che il figliuolo non sposasse Laura, tenne segretamente modo di parlar con monsignor l’abbate Caimo suo fratello, uomo d’autorità e di riputazione, e con altri suoi parenti; e medesimamente parlò con alcuni zii e congiunti di sangue del figliuolo, e a tutti fece intender l’amorosa pratica di quello e ciò che ella con messer Ambrogio fatto aveva, e a tutti, cosi suoi come attinenti del figliuolo, chiese conseglio ed aita a ciò che col minor male che fosse possibile si provedesse che a modo veruno Gian Battista non prendesse Laura per sua moglie. Cose assai si dissero e mille partiti furono proposti, dicendo ciascuno il parer suo. A la fine si risolsero tutti in questo: che il ineglior rimedio che ci fosse era di mandar per alcun tempo Gian Battista fuor di Milano e in quel mezzo maritar Laura. A questo partito s’accordarono tutti, ancor che madonna Francesca come piacevole e tenera madre non molto volentieri vi s’accordasse: amava ella l’unico figliuolo tenerissimamente e le pareva senza quello non poter vivere, perciò che se stava due e tre ore che noi vedeva si sentiva morire il cor nel petto. Nondimeno dal fratello e dagli altri amici e parenti essortata e fatta capace che questo solo era il salutifero rimedio per vietar che il figliuolo in tutto si ritirasse da quella impresa amorosa, vi s’accordò anch’ella. Restarono adunque in questa concordia tutti: che monsignor l’abbate Caimo invitasse Gian Battista ed altri parenti con dui tutori suoi a desinar seco il giorno seguente, e dopo il desinare che l’essor- tassero a partirsi da Milano e andare a la corte di Roma per alcun tempo. Fu fatto l’invito e di brigata desinarono in casa de l’abbate. Poi che si fu desinato, disse uno dei tutori al giovine: — Dimmi, Gian Battista: come ti piace la pratica de la nostra città? — Rispondendo il giovine che assai, soggiunse colui: — Io non ti vo’ già dire che non sia buona, ma se tu provassi una volta la corte de la città romana, egli non ti verrebbe forse PARTE SECONDA voglia di tornar cosí tosto in qua. — Io non so tante Rome — disse il giovine; — ma a me pare che tutti i piaceri del mondo siano in questa nostra patria. — E tra varcando d'uno in altro parlare pure circa questa materia, l’abbate disse: — Vedi, nipote: se tu vuoi andar a stare a Roma alcuni mesi, a me dá il core di far che mia sorella sará contenta e ti sará provisto di danari onoratamente. Ben t’assicuro che tu diventerai un altro uomo, ché se tu sei gentile, tu diverrai gentilissimo, ed imparerai mille bei costumi e vederai le piú belle cose del mondo. E se una volta ci vai, non vorresti per quanto oro sia al mondo non ci esser ito. — Insomma egli con buona licenza de la madre disse che era contento d'andarvi. Tutti alora di brigata andarono a ritrovar madonna Francesca, pregandola a contentarsi di questo viaggio. Ella ancor che si mostrasse renitente, a la fine pure disse che si contentava che per cinque o sei mesi il figliuolo andasse ove piú gli era a grado. Deliberata l’andata, il giovine del tutto avvisò la sua Laura, pregandola che di lui si ricordasse e stesse salda in amarlo, perché in breve tornería e farebbe tanto che il padre gliela darebbe per moglie. Messo adunque ad ordine di quanto bisognava, onoratamente accompagnato si parti il giovine da Milano e s’inviò verso Roma. Come egli fu partito, mandò madonna Francesca a chiamar messer Ambrogio e volle saper da lui a che termine si trovava per maritar la figliuola. — Tre partiti — rispose egli — ho io, madonna, per le mani, i quali tutti tre sono al grado mio convenienti e quasi ugualmente mi piaceno. Ma poi che voi la mercé vostra degnate accomodarmi del denaro, io mi delibero elegger quello per genero che piú a voi parrá al proposito. — E detti i nomi e i cognomi di tutti tre e le facilitá che avevano, dopo molte parole convennero in un di loro; onde madonna Francesca, secondo la promessa fatta prestando i mille ducati al buon messer Ambrogio, fu cagione che egli in dui o tre giorni conchiuse il matrimonio de la figliuola, e fu fatto lo sponsalizio e le nozze. Indi a poco tempo lo sposo, che stava ne la contrada dei Biglia, menò - la sposa a casa sua. Prima che Gian Battista si partisse, come giá v’ho detto, scrisse piú volte a Laura e con le lagrime sugli NOVELLA XXXI ocelli passando dinanzi a la casa di lei le fece riverenza, quasi da lei che a la finestra era prendendo congedo. Aveva poi lasciato un suo servidore consapevole di questo suo amore, che' fosse diligente in spiare ed intender tutto ciò che Laura faceva. Andò Gian Battista a Roma e ne l’andare vide di belle città e donne. A Roma poi ne vide pur assai, ma nessuna mai ne vide che gli paresse si bella come Laura. La madre di lui, come vide fatte le nozze di Laura, subito scrisse al figliuolo che ritornasse, il quale non aspettate le seconde lettere a buone giornate tornò a casa. Come fu smontato, abbracciata la madre, si ridusse a la camera a cavarsi i panni cavalcareschi e vestirsi; e domandò al servidore che era di Laura. — Male — rispose egli, — perché è maritata nel tale e le nozze son fatte. — Credette Gian Battista a questa nuova morire. Pur fatto buon animo, montò a cavallo e andò a trovar Laura, e la ritrovò che era in porta con una parente di suo marito. Come la vide, subito la conobbe, ma si meravigliò forte che la vide con un occhio accecato. E giunto dove era, la salutò ed ella gli disse che fosse il ben ritornato. Egli si rallegrò seco che fosse maritata, mostrando allegrezza dei piaceri di lei; poi gli disse che si condoleva de la disgrazia che l’era accaduta. — E qual disgrazia? — disse ella. — La disgrazia de l’occhio — soggiunse egli — che io vi veggio aver perduto. — La giovane, che era accorta, alor gli disse: — Ed io vosco di core mi rallegro che abbiate ricuperati tutti dui gli occhi vostri. — Era fin da piccolina sempre stata Laura con un occhio guasto; ma o fosse il giovine troppo accecato ne l’amor di lei o la gelosia che era a la finestra l’avesse impedito, mai non se n’era accorto. Cosi adunque Amore gli incauti amanti acceca.