Novelle (Bandello, 1910)/Parte I/Novella LI

Novella LI - Il cavalier Spada per gelosia ammazza se stesso ’ ed anco la moglie, perchè non restasse viva dopo lui

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Novella LI - Il cavalier Spada per gelosia ammazza se stesso ’ ed anco la moglie, perchè non restasse viva dopo lui
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IL BANDELLO

al magnifico e molto vertuoso

messer

sigismondo fanzino da la torre

salute


Mirabili nel vero son tutti quei casi che fuor de l’ordinario corso del nostro modo di vivere a la giornata accadeno, e spesso quando gli leggiamo ci inducono a meraviglia, ancora che talvolta molti uomini, non avendo riguardo a la santitá de l’istoria che deve esser con veritá scritta, come leggono una cosa che abbia del mirabile o che lor paia che non deverebbe esser di quel modo fatta, dicono: — Forse non avvenne cosí, ma chi questo fatto scrisse l'ha voluto a modo suo adornare. — Onde avendo scritto il pietoso e miserabil caso occorso in Mantova questi di, ancora che il dotto e facondissimo messer Mario Equicola e il dotto e gentile messer Giovan Giacomo Calandra de l'avvenuto caso facciano indubitata fede, e che la gentilissima madonna Giovanna Trotta moglie di messer Carlo Ghisi, essendo io a Diporto a desinar con madama illustrissima, a quella puntal- mente il narrasse, ho voluto mandarlo a voi che per commissione de l’illustrissimo e reverendissimo cardinale Sigismondo Gonzaga andaste a parlar con la donna prima che morisse, la quale è la maggior parte di questo caso. Vi piacerá adunque, essendo alcuno che dicesse non esser cosí, con l’autoritá vostra far a la mia scrittura scudo. Il che so la vostra mercé che farete. State sano. M. Bandello, Novelle. IS [p. 226 modifica]226 HARTE PRIMA NOVELLA LI 1! cavalier Spada per gelosia ammazza se stesso ed anco la moglie perchè non restasse viva dopo lui. Già sono, illustrissima madama, circa dicesette anni passati che Paiazete imperadore de’ turchi bandi l’oste a dosso ai veneziani e tolse loro nel Peloponesso, che oggi la Morea si chiama, la città di Modone per forza, ove tante e si varie crudeltà usò che per memoria d’uomini mai da barbari non furono usate le maggiori. Il perché tutti quelli che ebbero il modo di levarsi da le mani dei turchi, lasciata l’amata patria, abbandonati i lor beni, a la meglio che puotero se ne vennero in Italia. Di questi adunque da le mani de’ turchi fuggid se ne condusse uno qui in Mantova ai servigi del magnanimo e liberal signor marchese vostro consorte, il quale si chiamava Pietro Barza, uomo ne le guerre molto essercitato e prode de la persona, che poi il signor vostro consorte, conosciuto il suo valore, fece capo di molti stradiotti. Prese costui per moglie una gentildonna che anco ella era di Grecia, venuta pure de la città di Modone, e si chiamava Regina, giovane di tanta e si incredibil bellezza dotata che da tutti era detta « la greca Elena ». Era poi oltra l’estrema beltà in modo costumata e gentile e di tanta onestà di quanta altra donna si ritrovasse. Il perché dal marito sommamente amata ed accarezzata, se ne viveva molto contenta. Abitavano nel borgo di San Giorgio, ove il signor marchese a messer Pietro, de la Regina marito, aveva una agiata casa donato, e stando insieme ebbero una figliuola, senza più. Né guari stette che messer Pietro mori. Onde essendo la Regina giovane di ventitré in ventiquattro anni rimasta vedova, si condusse con la picciola figliuola in casa d’un suo fratello abitante nel medesimo borgo, e quivi con somma onestà se ne viveva. Avvenne che non essendo ancora l’anno che ella era vedova, il cavaliero Spada albanese, uomo tra la nazion sua assai stimato, di lei fieramente s’accese. E veggendo che cosa che egli facesse per acquistar l’amor di quella nulla gli giovava, tolse per espediente [p. 227 modifica]NOVELLA LI 227 di ricercarla per moglie. Era esso cavaliero Spada insieme col fratello de la donna ritrovatosi su molte guerre, essendo tutti dui cavalli leggeri, talmente che seco aveva contratta molta domestichezza e somma benevolenza. 11 perché presa un giorno la comodità, dopo molti ragionamenti gli domandò la sorella per moglie. Egli che conosceva il cavalier Spada valente e da' capitani di cavalli leggeri amato, gli promise che con la sorella farebbe ogn’opera a ciò che avesse l’intento suo. Né diede guari d’indugio a la cosa, ma quello stesso giorno parlò con la sorella, a la quale seppe tanto dir e fare e si bene persuaderla che ella consenti di rimaritarsi. Onde non dopo molto il cavalier Spada sposò la Regina, con la quale, amandola assai più che la vita, cominciò a darsi il meglior tempo del mondo, e si riputava meglio maritato che uomo de la sua nazione. Veggen- dola adunque bellissima e d’ogni mosca che per l’aria volava temendo, egli oltra ogni credenza geloso di lei divenne, di tal sorte che pensava eh'ognora gli fosse da le braccia rapita. Né altra cagione a ciò lo sospingeva se non che com'egli molto l'amava e molto bella la vedeva e conosceva che ella con tutto il suo studio s'ingegnava di piacerli, cosi da malinconico umore avvelenato s’imaginava che ciascuno l’amasse e che ella ad ogni uomo piacesse, ed ancora che cosi cercasse di piacer altrui come a lui faceva. Ingelosito adunque, tanta cura e si strema guardia ne pigliava e si stretta ia teneva che forse ci sono assai di quelli che a capitai pena condannati non sono dai guardiani de le prigioni con si diligente guardia tenuti. Ella che onestissima era e il marito unicamente amava, ancora che vita dura e fuor di misura dispiacevole ed amara vivesse, per non conturbarlo il tutto pazientemente sofferiva e quanto egli comandava metteva ad effetto, né mai con atti o con parole gli volle far intendere che egli avesse torto a tenerla de la maniera che la teneva. E cosi vivendo sperava pur di levar di capo al marito questa infermità di gelosia e abominevol morbo non con altra medicina che essergli in ogni cosa ubidientissima, senza mai darli un minimo sospetto di cosa alcuna. Ma il tutto era indarno. Io non credo che sia nazione al mondo più sospettosa [p. 228 modifica]228 PARTE PRIMA de l’albanese; onde il cavaliero Spada ingelosiva ogni ora molto più e pareva che d’ogni cosa avesse paura, e non sapeva dir di che. Era egli stato molti anni al servigio del signor Gian Giacomo Triulzo e da lui a Castelnuovo molta roba di ghibellini avuta possedeva; onde parendoli che a Castelnuovo starebbe meglio che in Mantova, deliberò condurvi la moglie. Ed avendo fatta questa determinazione e a la moglie dettala, che del tutto si contentava, avvenne che in quei di per Mantova ed anco ne lo stato di Milano si divolgò non so in che modo che il re di Francia avendo saputo come il Triulzo s’era fatto borghese di svizzeri per il castel di Musocco, gli aveva fatto mozzar il capo. E spargendosi quer.ta fama, in quei medesimi giorni il Triulzo che era vecchio mori in via tornando da la corte di Francia a Milano. Onde per tutto la morte affermandosi ben che variamente il modo de la morte si dicesse, il cavaliero Spada tanto se n’attristò e in si fiera malinconia ne cascò che nessuna cosa lo poteva allegrare, di maniera che altro tutto il di far più non sapeva che pianger dirottamente e lamentarsi. La moglie meravigliatasi di cosi subita ed aspra malinconia, gli domandò di questo strano accidente la cagione. Egli largamente le disse nessuna cosa affligerlo se non la mala nuova che de la morte di suo padrone si diceva, di che ella seco dolcissimamente se ne condolse e pianse. A la fine veggendo ella che il marito viveva con questa nuova una dolorosa e travagliata vita e che di mal in peggio, non mangiando né dormendo tutto il di, procedeva e ne le lagrime tutto si distruggeva, si sforzò più volte confortarlo con quelle parole amorevoli che sapeva dire. Ma cosa che ella li dicesse, niente gli giovava. Erano una notte in letto, e poi che ebbe la Reina un poco dormito, dal pianger e sospirare del marito destata, conoscendo quello proceder ne la sua passione più acerbamente che a lei non pareva convenevole, con verissime ragioni ed amorevoli parole cominciò a volergli levar questo umor fantastico di capo. Ma che! ella predicava a’ sordi ed al vento le sue parole commetteva, perciò che egli altro non rispondeva che voler morire, non gli parendo dopo la morte di cosi amato padrone dever restar in vita. Onde le diceva: [p. 229 modifica]NOVELLA LI 229 Che vuoi, moglie mia, ch’io faccia senza lui? E veramente se una sol cosa non mi ritenesse, io morrei più volentieri che mai morisse persona. E questo è, anima mia, che troppo più che la propria morte mi dorrebbe dopo me lasciarti, ché solo pensando ch’altri dopo me ti devesse avere, mi morrò di doglia. — A questo la semplice e buona donna gli diceva che si levasse questa fantasia, affermandoli che se per caso egli morisse, che a lui sovraviver non vorria, anzi vorrebbe ella prima morire che vedersi questo cordoglio de la morte di lui. E più volte fecero simil ragionamento, dicendo sempre ella che dopo lui la vita non le saria cara. Avuta l’albanese questa risoluzione, finse aver bisogno di scaricar il ventre, e levato di letto se n’usci fuor di camera, né guari stette che ritornò. Ed appresso a la moglie corcatosi, assai più che non era solito la festeggiò e non lasciò parte del candidissimo corpo di lei che non basciasse, quell’amoroso piacer di lei prendendo che tanto gli uomini da le donne ricercano. Allegravasi la donna pensando che il marito devesse uscir di quei suoi fieri farnetichi, ed egualmente quello accarezzava. Ma egli di nuovo ritornò a le lagrime ed ai sospiri. Qui di nuovo la moglie attendeva a confortarlo; e replicando egli le parole che di già dette le aveva, e ridicendogli ella che dopo lui viver non potrebbe, ed egli avendole due e tre volte le medesime parole fatto replicare, il crudele ed inumano albanese, preso un pugnai bolognese che nel letto aveva recato quando di camera usci, diede a la donna su la testa una pugnalata e in quello stesso instante un’altra a sé nel petto, e cosi or sé or la moglie ferendo, la poverella e mal aventurosa moglie con bassa ed interrotta voce disse: — Oimè, io son morta, — non più. Alora il fiero moglicida dandosi del pugnale nel mezzo del core cacciò la brutta e sceleratissima anima a casa di cento milia diavoli, e la misera e disgraziata donna restò più morta che viva. La fante di casa ch’aveva pur udito non so che ro- more, era ita a la camera dei padroni e sentendo il ferir che il malvagio faceva, non potendo dentro entrare, era ita ad una finestra e chiamava aita ai vicini. Vennero alcuni e gettarono in terra l’uscio de la camera, ed avendo lume con loro trovarono [p. 230 modifica]PARTE PRIMA ¡1 perfido e disleal marito boccone trapassato su il quasi morto corpo de l’infelice moglie. Conobbero subito che la donna non era ancor morta. Il perché levatola di peso e postola sovra un altro letto, fecero venir un cirugico, il quale veggendo le profondissime piaghe de la donna quelle medicò, ma disse che più d’uno o dui giorni non viveria. Ella alquanto in sé ritornata, fece chiamar uno dei sacerdoti di San Giorgio e confes- sossi, di core perdonando al marito, non potendo sofferire che nessuno di lui dicesse male, non incolpando altro che la sua disgrazia. Fece testamento e lasciò tutto il suo a la figlia che del primo marito aveva, e volle morendo ne la chiesa di San Giorgio esser ne la sepoltura del Barza seppellita. La matina saputasi questa nuova per Mantova, monsignor illustrissimo e reverendissimo nostro ci mandò per informarsi del caso messer Sigismondo Fanzine suo gentiluomo, al quale la buona donna tutto quello puntalmente riferi che io ora v’ho narrato. Ella divotamente ricevendo i santi sacramenti de la eucarestia e de l’estrema unzione, passò di questa vita e come ella aveva ordinato, a lato al suo primo marito fu seppellita. Il corpo del malvagio albanese con eterno biasimo di tutte le donne mantovane fu strascinato fuor de la città • e come meritava fu lasciato per cibo di cani e di lupi. Chi vorrà adunque dire che questo non uomo ma fiero mostro abbia mai amato si bella, si gentile e si costumata donna com'era questa nobilissima greca, a cui degnamente conveniva il nome di Reina, perciò che ella è stata reina di vera onestà e di buon costumi? Veramente egli non l’amava. Il perché potrassi senza bugia dire che non era amore ma furore, non benevoglienza coniugale ma rabbia strana e barbara. Cosi guardi Iddio tutte le donne generalmente da le mani di questi mariti maledetti e bestiali, perciò che queste cosi fatte gelosie a la fine riescono in estreme pazzie, come per quello che da me è stato detto di leggero potete aver compreso. Onde io sarei d’openione che fosse men male ad ogni donna d’ingegno capitar a le mani d’un pazzo che d’un geloso, imperò che i pazzi come sono per pazzi conosciuti, si può a le lor pazzie facilmente provedere, e tenendogli in casa in una camera [p. 231 modifica]NOVELLA LI 231 legati, come fanciulli governargli. Ma al mal de la gelosia né Galeno né Ippocrate né quanti mai medici furono, hanno ancor potuto ritrovar rimedio alcuno. E credo che solamente la morte sia la vera medicina del geloso. Pertanto divotamente io prego Iddio che per liberar il mondo di tahta peste mandi tutti i gelosi in paradiso. Ché se il crudelissimo e scelerato albanese fosse dui anni sono andato in cielo, egli non averebbe si solenne e nefandissima pazzia commessa, come da fiera gelosia accecato fece, e la bella e gentilissima greca con le sue bellezze e leggiadri costumi farebbe ancor onor a questa nostra città. Furono molti epitaffi posti su la sua sepoltura, tra i quali uno ora m’è a la memoria sovvenuto, non perché sia il più bello, ma perciò che per esser in versi m’è più restato in mente. Il quale mi par di dirvi e con la recitazione di quello finir oggimai il mio parlare. Dice adunque: La greca ch’ebbe il titol d’esser bella per cui sossopra il mondo fu rivolto, a par di questa fu men bella molto, com’è del sol men vaga ogn’altra stella. E se famosa di beltà fu quella, di grazia e d’onestade in sé raccolto ebbe il pregio costei di cui sepolto il casto corpo giace in questa cella. Ebbe un marito, oimè, crudo e feroce che fuor di modo ingelosito s’era senza ragion aver del suo timore; che con man omicida orrenda e fiera uccidendo se stesso, a simil croce la moglie ancise ch’innocente more. •>