Novelle (Bandello, 1910)/Parte I/Novella L
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IL BANDELLO
al magnifico e dotto
messer
francesco maria molza
Non m’è uscita né uscirá giá mai di mente la umanitá e cortesia vostra, Molza mio molto onorando, che voi, essendo io in Bologna, non m’avendo mai piú veduto, meco usaste. E veramente le carezze e le gratissime accoglienze che voi mi faceste mi vi resero di modo ubligato che io sempre ho detto e dico non esser in mio potere di sodisfarvi, e tanto meno per l’avvenire lo potrò io fare quanto che voi ogni di via piú obligo m’accrescete parlando di me, ove l’occasione v’occorre, tanto onoratamente che le lodi che voi mi date conosce ciascuno che sono da esser date non al merito mio ma a l’amor che mi portate, che tale mi predica qual vorrebbe o forse gli pare ch’io sia. Ed avendo tra me deliberato di scrivervi qualche cosa, ho preso argomento dal ragionamento che in Bologna l’ultimo giorno che fummo insieme fu da noi fatto, quando assai lungamente disputammo se le donne che per prezzo son preste a far copia del corpo loro a chiunque le ricerca, ponno ardentemente amar un uomo particolare. L’openion vostra fu che si e la mia che no. Ma poi che ragioni assai furono da noi ad- dutte, la questione restò indecisa, e tuttavia restammo amici, perché, come dice Aristotele, la varietá de le openioni non rompe l’amicizia. E certo a me sempre è paruto esser cosa difficile che una donna che a molti del corpo suo faccia piacere, possa fermamente e con grand’ardore amar un uomo, perciò che io credo che amandolo fuocosamente ad altri non si darebbe in preda. Crederò bene che sia assai piú facile che un uomo ami una cotal femina per la speranza che l’adesca di poterla piegare e 222 PARTE PRIMA renderla tutta sua. Ora un pietoso caso avvenuto nuovamente a Lione di Francia m'ha da la prima mia openione rimosso e sforzato con mano e piedi a correr ne la vostra. E cosi confessandomi vinto, vi do allegramente l’erba. Sapete adunque come questi di il nostro signor Lucio Scipione Attellano ed io eravamo con molti altri in casa de la valorosa signora Ginevra Benti- voglia e Pallavicina, ove ragionandosi di varie materie, il conte Niccolò Maffeo che veniva da la corte del re cristianissimo narrò il caso di cui v’ho parlato; il quale da me scritto, al dotto vostro nome in segno de la vittoria vostra dedico, ancor che se ben una cortegiana ha fatto questa dimostrazione, non si deve perciò dedurre in consequenzia, perciò che una rondinella non fa primavera. State sano. NOVELLA L Una donna cortegiana in Lione pensando compiacer a chi a sua posta la teneva s'ammazza molto scioccamente. Passando nel ritorno mio da la corte del re cristianissimo per Lione ove dimorai tre giorni, Girolamo Aieroldo gentiluomo milanese mi narrò un caso nuòvamente in quella città avvenuto, il quale nel vero mi parve pure assai strano. E perché è di quei casi che rade volte avvengano, mi piace di racontarvelo. Lione, come devete sapere, è una de le mercantili terre d’Europa e quella ove forse sono più ordinariamente italiani, e massima- mente toscani, che in qual altro luoco fuor d’Italia si sappia. Poi per le guerre di Lombardia vi si sono milanesi assai e gente di questo ducato ridutti. Evvi tra gli altri il signor Teodoro Triulzo governatore de la città, che vi sta con una grossissima famiglia. Ha esso signor Teodoro per spenditore de la casa un Marco da Salò, il quale prima fu paggio di don Gasparo cappellano de la signora Buona Bevilacqua moglie del detto signor Triulzo, ed essendosi mostrato diligente e fedele è divenuto spenditore, comprando le cose che a la giornata bisognano cosi per il mangiare come per altri bisogni di casa. Era in Lione una assai bella donna che del suo corpo per picciolo prezzo serviva NOVELLA L 223 tutti quelli che la ricercavano, la quale si chiamava Malatesta; cd era donna a cui stava molto meglio in mano la spada e la rotella che la conocchia ed il fuso e per aventura l'ago. Ella di notte con la sua spada e la rotella partiva da l'albergo e passava il ponte che è sovra la Sonna, ed andava tutta sola ora a casa di questi ed ora di quelli secondo che era richiesta; e sovente fu trovata dai sergenti de la corte e da altri, e sempre molto animosamente si diffese menando le mani come farebbe ogni prode uomo, di maniera che per tutto Lione da ciascuno era conosciuta. Tutte le donne poi da partito la temevano come il fuoco di santo Antonio e non ardivano in alcuna maniera trescar con lei, perciò che ella dava loro de le busse a buona derrata. I ruffiani medesimamente meno che potevano seco s’impacciavano. Di costei prese Marco da Salò domestichezza e spesso andava a giacersi con lei, cosi di notte come anco talora di giorno; e andò di tal maniera il fatto che egli di lei fieramente s’innamorò. Né meno di lui ardeva anco ella, ed essendo con tutti gli altri superba e fastidiosa, era con Marco piacevole e tanto umile che nulla più. Ella senza lui non sapeva vivere, non volendo da lui prezzo alcuno, anzi largamente di quello che dagli altri guadagnava faceva parte a Marco. Egli che era molto giovine amava la Malatesta più che la vita sua, e come aveva provisto ai bisogni di casa, andava a starsi qualche pezzo con lei e trastularsi. Ora avvenne che un giorno Marco s'aveva fatto far una camiscia assai ben lavorata e postasela indosso, e forse era la prima camiscia lavorata che egli mai più avuta avesse. Con questa bella camiscia se n'andò a trovar la sua Malatesta, ed essendo l’ora dopo desinare si spogliarono tutti dui e se n’andarono scherzando al letto, ove amorosamente insieme più volte presero piacere. Dapoiche buona pezza ebbero scherzato, parendo a Marco che fosse ora d’andar a la piazza e comprar qualche cosa e proveder a ciò che fosse bisogno, come era il solito suo, disse a la donna: — Anima mia, io vo’ levarmi, perciò che egli è ora ch’io vada a trovar il maestro di casa e veder se vuole che io proveda di cosa alcuna. Rimanti in pace fin a questa notte, ché io verrò a giacermi teco. — E detto questo la basciò, volendosi levar 224 PARTE PRIMA su ed andar a far i fatti suoi. La donna l’abbracciò strettissimamente e basciandolo gli diceva: — Deh, vita mia, non ti partir cosi tosto. Non vedi che ancora non è tempo d’andar a far coteste tue provigioni? Ma tu, lassa me! mi vuoi poco bene e m’accorgo eh’ io ti sono in fastidio. Restati ancora mezz’ora meco. — Marco le rispose che ella era errata, perché l’amava più che gli occhi propri e che tutto il suo piacere era starsi seco giorno e notte, ma che l'ora era tarda; e ribasciandola si levò per partirsi. La donna il prese per la camiscia e lo tirò si ruvidamente che gliela stracciò indosso. Marco adirato le diede dui mostaccioni. Veggendolo la donna in còlerà, cominciò fieramente a lagrimare e dirgli: — Certo io m’accorgo bene che tu punto non m’ami. Almeno sapessi io di farti piacere morendo, che non starei un'ora in vita. Vuoi tu ch’io ti contenti e ch’io mora? — Marco a cui ancora l'ira non era acquetata e si vestiva, le rispose che se voleva morire che morisse, ché poco dei fatti suoi si curava. La donna alora senza pensarvi più — Ecco — rispose — che per farti piacere io me ne morrò, — e col capo avanti si gettò in terra di letto il quale non era perciò molto alto. Nondimeno la sfortunata donna si fiaccò miseramente il collo e subito mori. Marco sbigottito di simil caso la prese e la messe sovra il letto, e veggendo che ella non moveva né piede né mano, dolente oltra modo ed amaramente piangendo domandò la fante de la Malatesta e le mostrò la sua donna morta. La fante gridando fu cagione che alcune donne sue vicine che del corpo servivano ai bisognosi vennero al romore e cominciarono a biasimar gli italiani. In questa Marco parti e trovato l’Aieroldo gli narrò la disgrazia de la danna. Egli v’andò e trovate le donne che cantavano degli italiani, le cacciò di casa e andò a trovar l’ufficiale de la giustizia, il quale veduto il corpo e non vi trovato né ferita né altro male, diede licenzia che fosse seppellito; il che l’Aieroldo fece fare. E Marco restò molti mesi di malissima voglia. E nel vero gran cosa mi pare che in donna di simil sorte si trovasse si fervente amore che per compiacer al suo amante l’inducesse omicidiale di se stessa, se amore perciò si de’ chiamare e non più tosto dissordinato appetito e pazzia.