Novelle (Bandello, 1853, IV)/Parte IV/Novella XXVII

Novella XXVII - Il Gonnella fa una Inula alla marchesa di Ferrara, e insiememente alla propria moglie: e volendo essa marchesa di lui vendicarsi, egli con subito argomento si libera
Parte IV - Novella XXVI Parte IV - Novella XXVIII

[p. 385 modifica]con grandissimo piacere degli amanti, nel quale tempo il giovane si reputava il più beato e lieto amante che mai fosse. Ma la malvagia fortuna, che non può soffrire che gli amanti lungo tempo felicemente vivano, separò con la morte del giovane così ben governato amore, perchè una ardentissima di maligna sorte gran febre assalì il detto gentiluomo, non le trovando mai li medici con lor arte compenso o rimedio alcuno; di modo che in sette giorni se ne morì, con inestimabile e gravissimo dolore de la sua donna, che ancora con amarissime lagrime non fa che dì e notte piangerlo.


Il Bandello al vertuoso e dotto messer


Paolo Silvio suo salute


Molte fiate ho io, Silvio mio vertuosissimo, tra me pensato la varietà de la natura, che tutto il dì si vede tra questa sorte d’uomini che noi volgarmente appellamo buffoni e giocolatori, veggendo i modi loro l’uno da l’altro diversissimi, essendo perciò il fine loro per lo più di guadagnare senza troppa fatica il vivere ed essere ben vestiti, aver adito in camera e a la tavola de li signori da ogni tempo, e scherzar con loro liberamente, e insomma dare gioia e festa a ciascuno. Si vede chiaramente che cercano tutti dilettare, se bene talora offendeno chi si sia, facendoli alcuna beffa, che nondimeno la beffa risulta in piacere a chi la vede o la sente recitare. Ce ne sono oggi in Italia alcuni molto famosi, e massimamente in Roma, ove talora, per fare ridere la brigata, fanno di brutti scherzi a certi magri cortegiani. Ma io non so se li chiami urbani, faceti, lepidi, festivi, salsi, mordaci, piacevoli, adulatori, fallaci, insulsi, contenziosi, loquaci, susurroni, simulatori e dissimulatori, perchè tutti tengono uno poco negli atti loro di questa e quella parte. Si ragionava di costoro dentro Carignano, dopo che, partiti da la Mirandola, sotto il governo del signore conte Guido Rangone, questo felicissimo esercito soccorse Turino, avendo alcuni nominato il Gualfenera, altri il Gonnella, e volendo altri parlar di Calcagno. Allora il signor Galeotto Malatesta disse: – Or vedi a che siamo venuti, cercando ricrearsi con qualche dilettevole ragionamento: [p. 386 modifica]disputare di buffoni! Ragioniamo di altro, se vi piace, e poi che di buffoni parlato si è, dicasi alcuna burla fatta da alcuno buffone, che allegri tutti e ci faccia ridere. – Tutti allora approvarono il parere del signore Galeotto; e messer Gian Angelo Montemerlo, gentiluomo dertonese, persona molto discreta, narrò una beffa fatta dal Gonnella a la marchesa di Ferrara, la quale io subito descrissi. Sovenendomi poi de la nostra dolce compagnia che in Pavia con tanto piacere avessimo, deliberai che questa novella al nome vostro fosse dedicata, non avendo io fin qui nessuna de le mie novelle ancora mandatavi. Perciò talora, quando da li vostri gravi studi vi sentirete alquanto fastidito, potrete con questa e altre simili lezioni la mente afflitta uno poco ricreare, chè sapete bene come a Pavia eravate solito sovente fiate di fare. State sano.

NOVELLA XXVI


Il Gonnella fa una burla a la marchesa di Ferrara


e insiememente a la propria moglie; e volendo essa


marchesa di lui vendicarsi, egli con subito argomento si libera.


Ancora che voi, signori miei, siate su l’armi e abbiate dato alto principio a la felice impresa, avendo da l’assedio degli spagnuoli liberato Turino, che era ridotto al verde, e ogni dì andiate acquistando terreno, avendo già ricuperate molte castella, io non credo già che ne si disdica, tra la cura de l’armi, talora prendere uno poco di ricreazione, per essere poi a le fazioni più freschi e più vigorosi. Perciò, come bene ha detto il signor Galeotto, lasciamo le disputazioni a le scole e dottori, e mettiamo in campo alcuna piacevole beffa fatta da qualche buffone. E perchè io ne ho una per le mani, che altre volte a Pavia udii narrare, quella ho deliberato di narrarvi. Devete adunque sapere che il Gonnella, essendo di origine fiorentino, si partì a posta da Ferrara per andare a Firenze, con licenza del marchese Nicolò da Este, per prender moglie; ove prese una monna Checca Lappi, che era giovane assai bella e molto accostumata, e quella a Ferrara ne condusse in una sua casa vicina al palazzo, che era assai agiata e bene a ordine, e provista di tutto ciò che a una casa di uno cittadino fa mestieri. Quivi la tenne egli cerca diece giorni, e, trovando certe sue scuse, non volle, da andare a la messa in fuori, che pratticasse con persona. Fu rapportato a la signora marchesa come la moglie del Gonnella era venuta, e [p. 387 modifica]che era tutta galante e forte bella, mostrando negli atti suoi molta leggiadria. Venne voglia a la marchesa per ogni modo di vederla; onde disse al Gonnella: – Io vorrei pure che ormai tu ci lasciassi vedere questa tua sposa, e permetterle che pratticasse con le mie damiselle. – Il Gonnella, che altro non aspettava che di essere richiesto di questa cosa, volendo rispondere a la marchesa, si lasciò pietosamente uscire uno gran sospiro e disse, facendo quasi vista di lagrimare: – Deh, madama mia, non vi curate di vedere le mie penaci angoscie, perchè, veggendo mia moglie, voi non potrete ricevere piacere veruno, anzi vi sarà cagione di fastidio grandissimo. – Come! – soggiunse la marchesa. – Tu sei errato, perchè a me recherà ella consolazione non picciola, e per amore tuo io la vederò volentieri e la accarezzerò. Falla, falla venire. – Il Gonnella allora rispose: – Madama, io farò ciò che vorrete. Ma per Dio! che gioia potrete voi ricevere da quella, non potendo seco ragionare, perchè ella è di modo sorda che chi con lei parla, se non grida altissimamente, non può da quella essere udito? Ha poi ancora presa cotesta mala usanza: che se parla con chi si voglia, credendo, come ella è sorda, che ciascuno sia di tale sorte, ella quanto più alto può grida, così che pare forsennata. – Non si resti per questo, – disse la marchesa, – chè io parlerò sì alto seco che mi intenderà. Va pure, e falla venire per ogni modo. – Sia con Dio! – rispose il Gonnella; – io vi ubedirò. Bastami che vi abbia avertita, chè non ripigliate poi, e sgridarmi col dirmi villania. Io vado, madama, di lungo a casa. – Andò dunque e, trovata la moglie, appo quella si assise e le disse: – Checca mia, io fin qui non ti ho voluto lasciare pratticar per questa città, aspettando l’occasione che prima tu potessi far riverenza a la signora nostra marchesana. Ella patisse una infermità, che assai sovente la molesta; perchè ora la terrà occupata otto dì, ora quindeci, ora uno mese, e ora più e meno, secondo che la luna fa il suo crescimento e decrescimento. Questo suo male è sì maligno, che la fa di modo sorda che conviene, a chi parla seco, gridare a più alta voce che sia possibile. Ella medesimamente, mentre questo suo umore le dura, non sa nè può parlare che non gridi. Pensa pure che il signore marchese non ha lasciato cosa a fare, e fatto venire li più solenni medici di lontani paesi, che si possano trovare, per darle alcuno compenso. Il signore da Carrara, prencipe di Padoa, padre di essa marchesa, anco egli vi si è affaticato assai e ha mandato medici eccellentissimi; ma il tutto è stato indarno, perchè tutti li rimedi punto non giovano. Questa mattina ella [p. 388 modifica]mi ha rotta la testa parlando, e commandato che io ti faccia andare a corte, perchè ad ogni modo ti vuole vedere e parlar teco. Sì che dimane doppo pranso ti metterai a ordine, chè io vuo’ che tu vada a farle riverenza. Come tu sarai intrata in camera, le farai tre belle riverenze e con altissima voce inchinevolemente le dirai: – Bene stia madama la marchesana, mia soverana signora e padrona. – Ella subito ti risponderà, con alta voce gridando, che tu sia la ben venuta. Tu te le accosterai e le bacierai le mani, ed ella faratti dare da sedere. Fa che tu saggiamente le risponda, come so che farai. – La buona mogliera credette troppo bene questa così mastramente ordita favola. Era allora essa marchesa a Belfiore, palazzo che in quelli tempi si trovava fora de la città vicino al convento degli Angeli, che ora si vede ne la città nova, perchè il duca Ercole, di questo nome primo, ampliando la città, lo fece restar dentro le nòve mura. Venuto il seguente giorno, come disinato si fu, monna Checca a l’ordine si mise, e tutta polita, con due sue donne e uno servitore, se ne andò verso Belfiore. Il Gonnella, trovato il marchese insieme con molti cortegiani che dal castello andavano a Belfiore, disse loro la beffa che ordita avea, e tutti gli invitò a vedere la comedia. Andò il marchese con la compagnia su una loggia del palazzo, la quale avea uno gran fenestrone che rispondeva dentro la sala, dove la marchesa, per istare al fresco, si era ridutta con tutte le sue donne. Vi erano anco alcuni cortegiani e gentiluomini, e chi parlava e chi giocava. Arrivò allora il marchese su la loggia, cheto cheto, che monna Checca intrò in sala; la quale, fatte le sue tre belle riverenze, cominciò a piena e altissima voce salutare la marchesa, che medesimamente, per non causare dissonanzia, in quello altissimo tuono fece risposta. A così ridicolo spettacolo, perseverando madama e monna Checca a parlare più alto che potevano, non potendo il marchese e gli altri che erano su la loggia contenere le risa, il Gonnella si affacciò al fenestrone e ridendo cominciò ad alta voce dire: – Olà, che romore è cotesto che io sento? – Disse il marchese: – Finite la vostra comedia, o signore, ma parlate più basso. – Così intraviene, – soggiunse il Gonnella, – a chi è sordo. – Poi discesero a basso, e intrati in sala, il marchese disse il fatto come era, e che il Gonnella era quello che questa trama avea ordita. Mostrò ne l’apparenza la marchesa prendere da scherzo questa truffa, ma a dentro era tutta piena di veleno e in se stessa si rodeva, e pareale non istare mai bene se contra il Gonnella a doppio non si vendicava, dandogli ischiacciata per pane con centuplicata [p. 389 modifica]usura. Celando in petto poi il conceputo sdegno, aspettava alcuna occasione, tuttavia pensando a la vendetta. Fra questo mezzo ella scherzava col Gonnella come prima, di modo che pareva che de la beffa più non si rammentasse. Onde quando le parve avere assicurato il Gonnella, communicò al marchese quanto ne la mente coceva, e caldamente lo pregò che degnasse in questo caso aiutarla. Il marchese largamente le promise fare quanto ella voleva, e amorevolemente la avertì che guardasse bene ciò che faceva, perchè il Gonnella era tanto aveduto e scaltrito che saperebbe in uno tratto schifare tutti i suoi inganni. – Bene istà, – disse ella; – degnatevi pure fare ciò che io vi ricerco, e del remanente non vi caglia, e lasciate fare a me, e conoscerete che io saperò assai più di lui. Se io non lo gastigo, mio sia il danno, pur che voi non lo avertiate di nulla. – Aveva la marchesa fattosi secretamente portare uno gran fascio di bacchette di cornio, grosse come uno buono deto, e poi ammaestrate le damiselle e altre sue donne de la casa di quanto volea che facessero; e tra loro aveva distribuite le bacchette. Sapendo il signore marchese ogni cosa essere a ordine, disinando, chiamò a sè il Gonnella, e pian piano li disse a l’orechia: – Va e dirai a mia moglie che di quello negozio, che ieri ella mi ragionò, io ne ho parlato col gentiluomo che sa, e che io lo trovo molto mal disposto a l’accordio, allegandomi certe sue ragioni, le quali mi paiono assai apparenti, per le quali ha deliberato che per ogni modo la lite si veggia e se giudichi nel mio consiglio, e che io non lo voglio nè debbio sforzare. – Andò il Gonnella verso le stanze de la marchesa, e non essendo ancora fora de la sala ove il signore desinava, esso marchese il tornò a chiamare e li disse: – Tu le potrai far intendere che ella le faccia parlare dal guardiano de li frati di San Francesco, chè mi è detto che molto di lui può disponere, e che io altro rimedio non saprei trovarli, nè miglior mezzo di questo guardiano. Faccia mò ella. – Il buono Gonnella, che nulla sapeva de l’ordine posto da la marchesa, nè che questa ambasciata fosse vana e una cosa finta, andò allegramente ad eseguire quanto dal suo signore gli era stato imposto. Trovò adunque che la marchesana non si era ancora messa a tavola, essendosi quella mattina assai tardo levata di letto. Come ella vide il Gonnella, li fece uno bonissimo viso e li disse sorridendo che fosse il bene venuto, e che buone novelle reccava. Il Gonnella, fattale la convenevole riverenza, se le accostò, e con molte parole le ispose la finta favola de l’ambasciata del signor marchese. Mentre [p. 390 modifica]che egli parlava a la marchesa una de le damiselle serrò l’uscio de la camera che rispondeva in sala, e tutto a uno tratto uscirono da una salvaroba tutte le damiselle, massare e serventi de la marchesana, succinte e armate di quei bastoni verdi di cornio, di maniera che pareano proprio li farisei con la squadra de li soldati che volessero pigliare Cristo. E gridando dicevano: – Tu sei pure, Gonnella, Gonnella ribaldone, ne le mani nostre, e hai a la fine dato del capo ne la rete. A la croce di Dio! ora non ti valeranno le tue magre buffonerie. – Ridendo allora disdegnosamente, la marchesa, minacciandolo con la mano, così li disse: – Gonnella, asino che sei, tu ci hai fatte tante burle, che il debito vuole che noi sovvra la persona tua acerba vendetta di mano nostra prendiamo. Su su, damiselle! E voi, donne, che fate? – Il Gonnella, veggendosi còlto a l’improviso da quella turba di femine, armate tutte di bastoni e despositissime di fargli uno strano scherzo, aiutato da subito consiglio, rivoltato a la marchesana, disse: – Madama, io vi supplico che per amore del signore marchese, voi degniate farmi grazia di ascoltarmi solamente diece parole; e poi pigliate, voi e le damiselle vostre, tutto quello strazio di me che più vi aggrada. – Che vuoi tu?/ – rispose ella. – Di’ pure ciò che tu vuoi, perchè tu non saprai tanto dire che tu possa fuggire questo acerbo gastigo che ti voglio far dare, ladro e ribaldone truffatore che tu sei. Su, di’ di’! Non tardare più. – Allora il Gonnella: – Madama, – disse, – io supplico voi e tutte queste vostre damiselle e donne, che quella di voi, che ha posto il cimiero de le corna in capo al suo consorte, compiacendo del corpo suo a chi si voglia, e prego ancora quelle che non sono maritate e che si sono sottoposte agli amanti loro, che siano le prime a battermi, e non mi abbiano in conto alcuno una minima compassione. – Udendo questa cosa, le donne restarono tutte confuse, non sapendo che farsi. Nessuna voleva essere la prima a percuoterlo, per non parere femina disonesta. E dicendo tra loro che non erano mica donne di mala vita, e contendendo con dire l’una a l’altra: – Va tu, va tu! – il buon Gonnella con il timore de le future battiture, che credea avere, aggiungendo ale a li piedi, in dui passi saltò a l’uscio, e aprendolo se ne corse ove il marchese disinava. Esso marchese, come il vide, li dimandò che risposta la marchesa gli avea fatta. – Risposta! – disse il Gonnella. – Il cancaro che vi venga, messer lo compare di Puglia! Voi sète uno galante uomo a mandare il vostro povero Gonnella al macello in mano di quelle arpie. Ma, mercè di Dio, io sono fuggito. – Indi narrò come fatto avea, e da tutti fu lodato il suo avedimento. [p. 391 modifica]

Il Bandello al magnifico ed eccellente


dottore de le cesaree leggi e pontificie


messer Gian Pietro Usperto salute


Sono mille anni che nè voi mi scrivete cosa veruna, nè di voi ho avuto novelle, se non quando ultimamente fuste, già giorni e mesi molti passano, a Parigi, ove mi scriveste una vostra umanissima e amorevolissima epistola, a la quale io subito feci risposta. Dapoi, avendo inteso voi essere ritornato a Fano, a la cura di quello vescovato, per commissione del riverendissimo vostro cardinale, non vi ho più scritto, non mi essendo occorso occasione alcuna. Ma non è già che molte volte e bene spesso non abbia ragionato di noi, di quello modo che a la nostra vera amicizia si richiede e come conviene a le vostre singolari e rare doti. Voi non solamente iureconsulto consumato sète, ma avete a le umane leggi aggiunte le buone e recondite latine e greche lettere, di modo che, o scriviate in prosa o vero con le muse cantiate, in l’una e l’altra facultà mostrate chiaramente quanto sia il candore del vostro felicissimo ingegno, come ne le prose e versi vostri leggiadramente appare. Ora, per dirvi la cagione che mi move a scrivervi, vi dico che questi giorni venne qui uno mercatante genovese, messer Gioanni Rovereto, che dimora in Lione; il quale a madama nostra e a tutti noi altri narrò una mal pensata malizia de uno mercatante drappieri di Lione, che, volendo ingannare altrui, restò egli parimente il beffato e ingannato, come ne la novella che vi mando vederete, perciò che al vertuoso vostro nome la ho intitolata. Essa novella ci empì tutti di stupore e meraviglia, veggendo pure essere vero ciò che communemente si suole dire da molti: che questo mondo è una piacevole gabbia piena di diversi pazzi, che quando il capriccio entra loro in capo e si