Novelle (Bandello, 1853, III)/Parte III/Novella XVI
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Non manca mai argomento, a chi vuole, di scrivere a chi più gli aggrada, come nuovamente a me è avvenuto di scriver a voi non solamente questa lettera, ma anco di mandarvi una faceta novella. Andai questi dì da Milano a Mantova e, nel passar per Bozzolo, il signor Federico Gonzaga, signor d’esso luogo, mi v’ha tenuto otto dì, che mai non m’ha voluto lasciar partire. Quivi tutti quegli onesti piaceri che a un par mio si ponno dare, egli per sua cortesia a me ha dati e intertenutomi tanto allegramente quanto dir si possa. Come il mio signor Pirro suo fratello seppe ch’io quivi era, ci venne anco egli; e partendomi per andar a Mantova, volle il signor Pirro che seco andassi al suo piacevole Gazuolo, ove mi tenne in grandissimi piaceri alcuni giorni. Era in Gazuolo il signor Sebastiano da Este, che nuovamente era ritornato da Napoli, il quale un dì, essendo noi di brigata in ròcca, narrò una piacevole novella avvenuta in Calabria ne la città di Reggio. Quella, avendola scritta, vi mando e dono per segno de la mia servitù. State sano.
Quando io credeva di partirmi da Napoli e tornar qua, fui astretto andarmene a Reggio in Calabria, città molto antica e dal cui lito vogliono che la Sicilia per un terremuoto si smembrasse e di terra ferma si facesse isola, come ora è. Così hanno scritto gli scrittori de le memorie antiche, e là da tutti s’afferma. Era quivi ai servigi di monsignore riverendissimo vescovo de la città uno chiamato Bigolino calabrese, il più sollazzevol uomo ed allegro che in quelle contrade si ritrovasse. Egli fingeva con la sua voce ora il ragghiar de l’asino, ora l’annitrire dei cavalli ed ora la voce di questo animale ed ora di quell’altro. Medesimamente erano pochi augelli dei quali egli la voce e il canto non contrafacesse, di maniera che a tutti i reggini egli era carissimo. Passavano poi poche settimane che egli qualche piacevolezza non facesse, in modo che sempre di lui ci era da ragionare. Aveva servito in diversi luoghi varii padroni e ultimamente s’era ridutto col detto vescovo, col quale essendo stato alcuni dì, e conosciuto che, da mangiar e bere in fuori ed esser due fiate l’anno vestito, altro profitto non ne traeva, si deliberò al padrone far una beffa, e il tutto communicò con un altro servidore suo compagno. Ed avendo deliberato quanto fare intendeva, andò un giorno a la stalla e montò suso un cavallo che nuovamente il vescovo aveva fatto cavare de la razza, che era rabbioso e restio. Egli, come spesso soleva, lo menò fuor de la città, ove si facevano certi cavamenti per asciugare alcuni campi che erano molto soggetti a l’acqua. Quivi cominciò a cacciar il polledro' 'nel mezzo del fango e terreno molle che i cavatori cavavano, e con gli sproni nei fianchi del cavallo lo faceva indiavolare, di modo che tutti dui, avviluppati ed impaniati nel fango, caddero per terra alquanto lontano dai cavatori. I quali correndo là, cominciarono a gridare: – Aita, aita! – e trovarono Bigolino tutto infangato, che gettava sangue da la bocca, e più nè meno si moveva come se fosse stato morto. Credettero quelli cavatori che il cavallo avesse tutto pesto il misero Bigolino, e levatolo fuor del fango lo posero sovra una bara e lo portarono al vescovado con general compassione di tutti i reggini, perciò che per le sue piacevolezze era da tutti amato. Egli, mentre lo portavano, lasciava spesso uscire qualche gocciola di sangue da la bocca. Il vescovo, che molto amava Bigolino, udendo il caso, si turbò forte e, fattolo porre in una camera, mandò subito per il medico. Il compagno di Bigolino messosi appresso di lui, attendeva a confortarlo; e restando talvolta soli, gli rinfrescava una sponga che Bigolino piena di sangue teneva in bocca, che fatta a posta aveva per far la beffa. Venuto il medico e visto il sangue e guardato l’infermo in viso, che con certi profumi s’era di modo fatto livido che aveva color di morto, non essendo dei più esperti del mondo, giudicò che il povero uomo fosse tutto dal cavallo pesto e che non avesse vena a dosso che non fosse rotta, e disse che Bigolino era in periglio di morire. Non istette guari che pareva che il povero Bigolino cominciasse ad aprire gli occhi ed alquanto a rispirare; il perchè alora fu fatto chiamare uno sacerdote che lo confessasse. Ma da Bigolino altro non puotè avere se non certi cenni che mostravano che egli fosse dei suoi peccati malcontento. Aveva ordinato il medico castraporci certe unzioni, le quali il compagno di Bigolino diceva aver fatte. Venuta la notte, egli mostrò voler attendere a l’infermo. Era sul principio de la notte venuto monsignor lo vescovo a veder Bigolino e gli aveva dette le migliori e più amorevoli parole del mondo, chè in vero molto gli doleva de la perdita del suo giocolatore. Volendo il vescovo partire, Bigolino fece con le mani un certo cenno che pareva che volesse dire qualche cosa. Il vescovo amorevolmente se gli accostò dicendo: – Bigolino mio, fa buon animo, chè Iddio ti aiuterà. Vuoi tu nulla da me? – Il cattivello accennava che sì. L’amico e compagno di Bigolino teneva anch’egli detto che cosa voleva, chè monsignor era per far ogni cosa. Tanto accennò e tanti atti fece il buffone, che il suo compagno disse: – Monsignore, egli mi par che questo poveretto voglia il suo giuppone. Che vorrà egli fare? Io credo che la morte lo cacci. – Fu recato il giuppone a Bigolino, il quale, come l’ebbe in mano, accennò al vescovo che lo pigliasse e con la mano gli mostrava che in certo luogo guardasse d’esso gippone. Il vescovo lo pigliò, e volendo discucire quella parte che Bigolino gli aveva mostrata, egli fe’ a la meglio che puotè‚ cenno che via se lo portasse. Monsignore, volendo vedere che cosa fosse questa, se n’andò col giuppone a la sua camera e tutto solo, preso un coltello, aprì quella parte del giuppone che l’infermo mostrata gli aveva. Ivi ritrovò uno scritto di banco sì bene contrafatto che proprio pareva fatto nel banco degli Spinelli a Napoli, per lo quale i banchieri d’esso banco si obligavano a render seicento ducati d’oro in oro a chiunque gli porterebbe il detto scritto, mostrando che Bigolino gli avesse su il banco depositati Come il vescovo vide lo scritto, facilmente credette che fosse vero e pensò che Bigolino gli avesse depositati in quel tempo che egli era stato seco a Napoli, convenendo la data de lo scritto con quel tempo; e tanto più teneva questo per vero che sapeva in quei dì dal vicerè e da’ baroni essere state donate di molte cose a Bigolino, e che anco aveva avuti dei ducati per le piacevolezze sue che fatte aveva. Onde tra sè disse: – Veramente non è così pazzo Bigolino come è tenuto. Egli s’ha molto bene saputo governare. – Era il vescovo non solo de l’entrata' 'del vescovado ma di molte altre rendite assai ricco, ma avaro troppo: onde si persuase che Bigolino gli avesse data la cedula a ciò che i danari gli restassero, e così serbò lo scritto. Quando fu ciascuno ito a dormire, Bigolino con l’aiuto de l’amico cenò a suo bell’agio e poi dormì sin passata mezza notte; nel qual tempo il compagno ebbe modo d’aver un bacile di sangue e tutto lo riversò dinanzi al letto di Bigolino, che già tutto il volto s’era insanguinato. Il compagno levò il romore come Bigolino moriva. Venne il capellano, che gli cominciò a raccomandar l’anima come si fa a chi muore. Vennero anco degli altri. Bigolino faceva tutti quegli atti che si fanno nel morire, e ne l’ultimo se ne rimase come morto. Veggendo tutti l’abondanza del sangue, che da la bocca credevano che il cattivello avesse gittato, e la pallidezza che in viso dimostrava, tutti il tennero per morto. Il buon suo compagno, fattosi recar de l’acqua, non volendo aita di persona, disse che lo voleva lavare. E restato seco solo in camera, gli lavò il viso e lo involtò in un lenzuolo, essendo sul far del dì. Il vescovo, intendendo Bigolino essere morto, ebbe doglia d’averlo perduto e allegrezza d’aver guadagnati i seicento ducati. Venne il compagno di Bigolino e disse al vescovo: – Io ho, monsignore, lavato il mio povero amico, il quale è tutto disfatto per le percosse del cavallo. E perchè è tanto contrafatto che non pare più Bigolino, ed anco che già pute per esser tutto guasto di dentro, l’ho involto in un lenzuolo. Egli sarà ben fatto che si ordini che i funerali si facciano a buon’ora. – Io voglio, – rispose il vescovo, – che se gli faccia onore e che tutti i preti e frati di questa città sieno adesso adesso invitati. – E voltatosi ad uno dei suoi, ordinò il tutto, di maniera che fece la spesa di più di trenta ducati. Il compagno, a ciò che nessuno andasse troppo a metter le mani a torno a Bigolino, aveva concio nel lenzuolo un pezzo di carogna che fieramente putiva. Venne poco innanzi il desinare tutto il popolo con la chierica per accompagnar Bigolino, dolendo forte a tutti d’averlo perduto. Fu posto il corpo ne la bara e, fatta la processione per mezzo la città, si ritornò al vescovado, ove ne la chiesa maggiore si deveva seppellire. L’essequie furono solennissime e il vescovo cantò la messa da morti. Nessuno per la puzza s’accostava troppo al cataletto. Bigolino tra sè scoppiava de le risa, aspettando il fine de la comedia. Finita la messa e cantato l’officio sovra il morto che è di costume, vennero i beccamorti e pigliata la bara la portarono a la sepoltura, ove già la pietra dal sepolcro era rimossa. Uno dei beccamorti s’accorse che la coperta sovra il viso di Bigolino alquanto si moveva; il perchè disse a l’altro: – Sozio, non vedi che costui ancora non è morto? Mira come dal fiato il lenzuolo si muove. – Era Bigolino ormai stracco di tanto ritener il fiato, e più destramente che poteva respirava. Onde l’altro beccamorto, avvedutosi anco egli come talora il lenzuolo si moveva, si rivoltò al compagno e disse: – Taci, bestia che sei; non dir covelle. La spesa ad ogni modo già è fatta, e costui ha in modo frastagliate tutte l’ossa che non può vivere. Lassa pur far a me e gettamelo giù. Piglia i piedi, e io il capo. Non senti come pute? Orsù! – Bigolino, sentendo questo, diceva fra sè: – Cacasangue! questi mastini vorrebbero far da dovero, ove io voglio che si scherzi. Ma si troveranno ingannati: – Ed in quello che l’uno diceva a l’altro: – Piglia i piedi, chè io piglierò il capo, – il buon Bigolino, che nel lenzuolo era di maniera involto che scotendosi rimaneva libero, disse ad alta voce: – Me non prenderete già voi! – E scotendo fortemente il lenzuolo, saltò fuori de la bara, urlando e facendo le più contrafatte voci e spaventose del mondo; il che mise in volta tutto il popolo, e dei preti e frati ciascuno fuggiva. Le croci andarono tutte per terra. Veggendo Bigolino che ciascuno pagava di calcagni, e che le smarrite donne gridavano misericordia, si ravviluppò il suo lenzuolo a torno, e presa in mano una de le croci cadute,' 'cominciò a far il verso di messer l’asino e trescare dietro a quelli che fuggivano; di maniera che i primi fuggiti di chiesa, e che alquanto d’animo avevano ripreso, s’accorsero che questa era una de le truffe di Bigolino, e il tutto si risolse in ridere. Monsignor lo vescovo non tanto si rallegrò de la vita del suo buffone quanto s’attristò de la spesa che fatta aveva. E venendogli Bigolino innanzi, che era da infiniti attorniato, pur sempre col suo lenzuolo a torno, il vescovo gli disse: – Tu me n’hai pur fatta una! vatti con Dio, chè ti so dire ch’ella è stata bella, pazzo da catena che tu sei. – Monsignor mio reverendissimo, – rispose alora Bigolino, – perdonatemi, chè voi non l’intendete. Io m’ho voluto mandar il lume innanzi, perciò che so che quando morrò da vero, che forse non ci sarà chi mi allumi una candela, chè tutti non sanno leggere gli scritti di banco. – Ed entrato in altri suoi motti faceti, disse: – Monsignore, andiamo a desinare, chè io mi casco di fame. – Tutto il dì poi andò per la città con il suo lenzuolo a torno, facendo ridere chiunque l’udiva e vedeva, e il vescovo restò sotto de la spesa fatta, sapendo la cedula esser contrafatta.
I vostri bellissimi madrigali che mandati m’avete per mano del signor conte Ercole Roscone, fatti da voi in lode de la meravigliosa ed incredibile bellezza e de l’altre divine doti de la non mai a pieno lodata eroina, la signora Giulia Gonzaga e Colonna, ho io così volentieri ricevuti e letti, come cosa che mi fosse potuta venir a le mani in questi giorni. Gli ho, dico, con mio inestimabil piacere letti e riletti più e più volte, sì perchè sono parti del vostro sublime ingegno, ch’io onoro, riverisco ed insiememente ammiro come cosa rara del secolo nostro, per le rare doti che in voi come fiammeggianti stelle risplendono in ogni azione vostra, e sì anco perchè sono belli, candidi, dolci, eleganti e molto tersi e pieni d’una soave facondia nativa e pura, senza veruna affettazione. Mi sono oltra ciò stati non mezzanamente cari, perchè parlano di quella eccellente signora che oggidì con l’ali de la chiara fama tanto in alto vola e sì famosa per ogni clima si dimostra, che tutti gli elevati ingegni de la nostra età, che alquanto abbiano poste e bagnate le labra nel fonte pegaseo, vi s’affaticano a celebrarla, non per accrescerle alcuna loda o agumentar i veri onori di lei, i quali non possono per gli altrui scritti, quantunque dotti ed artificiosissimi, più crescere di quello che sono, nè per biasimo de’ malevoli sminuirsi; ma perchè gli scritti loro e poemi dal nome di quella, che sempre è glorioso, ricevano pregio e gloria. Io ho essi madrigali, sì come per vostre lettere m’imponeste, mandati a Fondi, e gli ho dati ad un fidato messo del signor Cesare Fieramosca, che egli mandò questi dì a Capoa al signor Federico suo fratello. Esso signor Cesare in mia presenza comandò al suo uomo che come fosse a Fondi, subito presentasse le vostre lettere e madrigali a la signora Giulia, a la quale anco egli ha scritto di sua mano una lunga lettera in commendazione vostra con quel suo dire militare. Io mi fo a credere e porto ferma openione che quando essa signora Giulia vederà i vostri madrigali, – nè può molto tardare che il messo non arrivi a Fondi, – essendo quella gentilissima e giudiciosa eroina che è e da tutto