Novelle (Bandello, 1853, III)/Parte II/Novella XXXII

Novella XXXII - Varii accidenti avvenuti ad un giovine in amore; e d’un pazzo
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[p. 39 modifica]io vosco di core mi rallegro che abbiate ricuperati tutti dui gli occhi vostri. – Era fin da piccolina sempre stata Laura con un occhio guasto; ma o fosse il giovine troppo accecato ne l’amor di lei o la gelosia che era a la finestra l’avesse impedito, mai non se n’era accorto. Così adunque Amore gli incauti amanti acceca


Il Bandello al molto magnifico in ogni dottrina eccellente il signor Giulio Cesare Scaligero


Sogliono spesse fiate avvenir alcuni impensati casi, ai quali con difficultà grandissima i più saggi uomini che si siano saperiano provedere, e nondimeno un subito accidente avverrà che in un tratto al tutto ottimamente rimedia. E se questo in varie cose occorre come a la giornata si vede, par perciò che nei casi d’amore più frequentemente occorra. Onde essendo venuta una gentilissima compagnia di signori guasconi e di bellissime dame a godere in questi giorni fastidiosi canicolari il sito e l’aria fresca di questo castello di Bassens con madama Gostanza Rangona e Fregosa mia padrona, e su l’ora del merigge ragionandosi degli infortunevoli casi d’amore, poi che variamente se ne fu ragionato, messer Girolamo Aieroldo gentiluomo milanese e maestro di stalla del serenissimo re di Navarra, veggendo che quasi ciascuno si taceva, disse: – Illustrissima madama e voi, dame e signori, io vi vo’ narrare un accidente che non è guari in Guascogna è avvenuto, ove vederete che talora il caso o sia fortuna mette rimedio e provede ove Salomone col suo sapere si sarebbe perduto. Ma per convenienti rispetti io mi tacerò i veri e proprii nomi de le persone che bisogneria nomare, e m’aiuterò con qualche nome finto. – E così con piacere de l’onorata compagnia in lingua francese narrò la sua novella, non v’essendo nessuno di noi italiani che, per la lunga dimora che qui fatta abbiamo, non intenda la detta lingua. Io quel dì stesso scrissi la novella da l’Aieroldo recitata e deliberai che sotto il vostro dotto nome fusse veduta, non già certamente che io l’istimi cosa degna del valor vostro, de la dottrina e de l’antica e nobilissima vostra progenie, chè [p. 40 modifica]non sono così sciocco; ma per mostrarvi con questa mia piccola dimostrazione il desiderio de l’animo mio, che di molto maggior cosa vorria potervi onorare, conoscendovi per le infinite vostre doti d’ogni gran cosa meritevole. State sano.

Varii accidenti avvenuti ad un giovane in amore. E d’un pazzo.


Fu in queste parti di Guascogna, non molto lontano da questo luogo, un gentiluomo di Francia che per ora chiameremo Gian Cornelio Salvinco, il quale riduttosi in Guascogna, essendo uomo di grande spirito e di elevato ingegno, prese la pratica d’una bellissima gentildonna, moglie d’un barone il quale si dilettava molto de la caccia d’augelli di rapina. E tra gli altri augelli aveva un astore, il megliore di tutta la contrada, col quale prendeva gran piacere ad uccellare. Egli aveva un suo fratello di tal sorte impazzito che il più de le volte albergava tra’ boschi, e secondo che il grillo gli montava, se ne veniva talora da mezza notte a casa, e bisognava che il' 'palazzo gli fosse aperto a tutte quell’ore che voleva, altrimenti entrava in tanta furia e di tal maniera urlava, strideva ed imperversava che pareva un diavolo d’inferno, facendo tanto di male per le case dei vicini che era cosa incredibile. S’era provato di volerlo tener serrato dentro una camera, ma egli s’infuriava di modo che da se stesso si rodeva le mani e sarebbesi tutto roso se non se gli fosse aperto. Per questo aveva libertà giorno e notte d’andare, venire e stare secondo che più gli piaceva. Il giorno al sole a la notte al lume de la luna combatteva con la sua ombra, facendo le più belle scaramucce del mondo, e assai volte a l’ombra istessa dava bere, e veggendo che l’ombra non beveva ma si moveva secondo i movimenti che egli faceva, le gittava il vino a dosso a poi si metteva smascellatamente a ridere e far cotali sue sciocchezze, che davano gran piacere a chi vedeva quegli atti. Il giorno, se non era molestato, non dava molestia nè impaccio a nessuno; ma la notte con tutti che incontrava menava le mani e dava di matte bastonate, ed anco ne riceveva. Ora andando spesso Gian Cornelio a caccia col barone, prese tanta domestichezza in casa che, con il longo praticare quivi dentro, s’innamorò de la gentildonna, ed ebbe la fortuna così favorevole che ella altresì di lui s’innamorò. E perchè ove gli animi sono d’un medesimo volere, avvien di rado che l’effetto non consegua conforme al voler [p. 41 modifica]loro, non passò molto che l’uno e l’altro presero insieme amorosamente piacere. Il che punto non estinse le fiamme amorose dei disiosi amanti, ma più l’accrebbe, di modo che averebero voluto poter esser insieme la notte, e questo non poteva essere se non quando il barone andava altrove, il che assai sovente faceva. Ma la moltitudine de le genti che in casa albergavano era di grande impedimento. Aveva la dama una sua fidata cameriera che già aveva fatta consapevole dei suoi amori, e d’altra persona del mondo non si voleva fidare, e la detta cameriera, quando il barone non ci era, dormiva con lei. Stando la bisogna di questo modo, Giovan Cornelio, avendo varii modi pensati per potersi trovar con la sua donna e non gli parendo che nessuno gli devesse riuscire, pensò che ogni volta che avesse trovato il modo d’entrar la notte in casa, che il resto di leggero gli sarebbe successo, perciò che vi sarebbe ito da quell’ore che la famiglia era a letto, e dei cani non gli accadeva temere, essendo da quelli ben conosciuto, chè a la caccia se gli aveva fatti domestichi. Disse questo suo pensiero a la donna, che non le spiacque, e di più le comunicò come voleva farsi far le vestimenta del medesimo colore ed abito che erano quelle del pazzo, a ciò che avesse più libertà d’andar la notte a torno. Ebbe poi per sorte il modo di far improntar una chiave di certo uscio, che pur dava adito in casa ma non era molto frequentato; onde fece fabricar una simil chiave che gli riuscì molto bene. Fece anco farsi in un altro castello le vestimenta simili a quelle del pazzo, il quale era quasi pari di grandezza e d’ogni altra abitudine corporale a Gian Cornelio. Ora andando esso Gian Cornelio la notte a torno, s’incontrava bene spesso nel pazzo e bisognava, come s’incontravano venir a la mischia e menar le mani. Il pazzo era gagliardo, ma senza arte combatteva e dava mazzate da orbo. Gian Cornelio era prode molto de la persona, di forte nerbo e ne l’arme longamente essercitato: e’ giocava di piatto per non ferir il pazzo, attendendo per lo più a schermirsi e riparar i colpi del pazzarone; pur talvolta gli dava qualche ferita, perchè le bòtte non si ponno così dar a misura. Domandato poi il pazzo con chi aveva combattuto, rispondeva che seco stesso, parendogli che fosse colui per la simiglianza de le vesti: diceva di gran pappolate, ridendo senza fine, quando contava che aveva fatto fuggir la sua ombra. Venne più volte a Gian Cornelio fatto, vestito da pazzo, di trovarsi con la sua donna ed alcune volte no. Ora avvenne che stando egli su queste pratiche, uno di casa, avendo' 'l’astore in pugno, disse a la presenza del pazzo: – Per la mia fede, [p. 42 modifica]cotesto augello è grasso come un ghiro e sarebbe, chi lo mettesse arrosto, un buon pasto. – Il pazzo udendo questo disse ridendo: – Al corpo di Cristo! io lo mangerò. – Pure non fece altro movimento. Quella notte, venuta l’ora consueta, Gian Cornelio entrò in casa e gli parve di sentir alcuno dentro la cucina, il perchè pian piano se n’andò verso il luogo per veder chi a quell’ora fosse in piede. Giunto pianamente a l’uscio de la cucina, vide che il pazzo metteva ne lo schidone un augello, e stette tanto a mettervi mente che conobbe che aveva ammazzato l’astore, perchè su l’uscio v’era il capo. E così vide che cominciò ad arrostirlo, essendosi spogliata la gazacca e rimaso in giubbone. Non si potria dire se Gian Cornelio si meravigliò e tutto a un tratto se gli venne voglia di ridere, veggendo sì fatta pazzia. Ora, accortosi poi che altri non era per casa se non il pazzo, se n’andò a la camera de la donna e, quivi spogliatosi, con quella nel letto si corcò e seco secondo il consueto cominciò amorosamente a trastullarsi. Il falconiere, che aveva un falcone infermo e la sera gli era convenuto dargli una purgagione, così là circa mezza notte si levò per vedere come il falcone si portava e ciò che aveva smaltito, e per veder il tutto andò con la candela a la cucina per allumarla; ove giunto, vide il pazzo che menava lo spedo, e ne l’entrar in cucina die’ dei piedi nel capo de l’astore. E presolo in mano: – Oimè, – disse, – chi ha ammazzato l’astore? – Il pazzo come s’accorse che il falconiero era in cucina, subito entrò in gelosia e sospettò che fosse venuto per levargli l’astore; onde si levò furiosamente da sedere e con l’astore inspedato se ne venne incontro al falconiero, il quale, dato di mano ad una stanga che a caso ritrovò, cominciò una gran mischia col pazzo. Gridava il pazzo ad alta voce facendo il maggior romor del mondo, e non meno gridava il falconiero chiedendo aiuto. Come la donna sentì il menar de le mani ed il gridar che si faceva, fece levar l’amante; il quale, subito messosi le calze ed il giubbone, non si ricordò di pigliare la gazacca che era suso un forziero a’ piedi del letto, ma così in giubbone uscì per un uscio che era verso un giardino e se ne andò ne la strada, ove accortosi che era senza gazacca, stette per sentire se poteva comprender che romor fosse quello. Ora fece la dama da la sua cameriera aprir l’uscio de la camera in quello a punto che il falconiero, non potendo resistere al pazzo, via se ne fuggiva. E sentendo la dama che gridava: – Che cosa è questa? – entrò in camera, e dietro il furioso con lo spedo in mano. Ardeva in camera de la dama di continovo il lume. Ebbe pur tanto rispetto, [p. 43 modifica]come vide la cognata, il pazzo, che non diede altro impaccio al falconiero, ma disse che era ito per arrostir l’augello e che il falconiero era ito per levarglielo. La donna vide in quello la gazacca e molto si smarrì; ma il pazzo come la vide, pensando che fosse la sua, senza dir altro se la prese e di camera uscì. Il falconiero, veggendo finita la questione e che il pazzo se n’era andato in sala a mangiarsi l’astore mezzo arrostito, se n’andò per veder il falcone infermo e trovò la gazacca del pazzo, e meravigliandosi pur assai disse tra sè: – Come sta questa cosa? Io ho pur visto che il pazzo nel partir di camera di madama aveva in spalla la sua gazacca, ed ora mi par di vederla qui. Ma io piglierò questa e la farò tigner in negro. – E così fece, di modo che mai alcuno non se n’accorse se non Gian Cornelio, che sapeva certamente aver lasciata la sua in camera di madama ed a certo segno de la fodra la conobbe indosso al pazzo, e più volte con la sua innamorata ne rise, con la quale fin che dimorò in Guascogna si diede buon tempo ogni volta che vi fu la comodità.


Il Bandello a madamigella di Vaulz madama Anna de la Vigueria


Era questi dì madama Fregosa, la signora Gostanza Rangona, a Montbrano, castello di questo vescovado di Agen, per fuggir i caldi de la città che adesso sono molto intensi, ove ancor voi spesso solevate venire a diportarvi e tener compagnia ad essa madama. Avvenne che un giorno furono portate lettere da Grassa, città in Provenza, a madama la quale domandò al messo se in quelle contrade era niente di nuovo. Egli le rispose che non altro se non che una gentildonna che aveva fatto ammazzar il marito, per essersi scoperto l’omicidio, se n’era fuggita. Quivi si ritrovava alora monsignor Bartolomeo Grimaldo da Nizza canonico di Agen, che aveva quel giorno desinato con madama, il quale narrò l’istoria interamente com’era seguìta, perciò che diceva da uno dei suoi fratelli, che era venuto da Nizza a vederlo, aver inteso minutamente il tutto, essendo Nizza assai vicina a Grassa. Parve a tutti, che eravamo ad ascoltarlo, esser il caso molto strano. Voi alora,