Novelle (Bandello, 1853, III)/Parte II/Novella XLIII
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e lo fece portar in una casa vicina. Nel mezzo del pasto fece venire la nutrice col figliuolino in braccio, accompagnato da’ sonatori; e come arrivò in sala, prese la nutrice per mano e la menò tuttavia sorridendo al capo de la tavola principale. Spiacque questa cosa così ai parenti d’Antonio come a quelli di Pietro, e molto se ne turbò la sposa che, abbassando gli occhi, lasciò il mangiare e cominciò forte a piangere. Antonio medesimamente, imaginatosi quello essere il figliuolo di Maria, si turbò meravigliosamente e vorrebbe essere stato in ogni luogo fuor che là dove era. E mormorando ciascuno, Pietro si recò in braccio il suo figliuolino, e poi che teneramente due e tre volte l’ebbe' 'basciato, alzando la voce disse sì che da tutti fu inteso: – Signori e dame che sète venuti ad onorare le mie nozze, non vi meravigliate di ciò che io faccio con questo bambino, perciò che egli è veramente figliuolo di mia moglie e di me, e voglio che sia. E udite come: io, trovandomi fieramente innamorato di mia moglie, e pensando per la nemistà che tra noi era, che mio suocero non me l’averebbe data, usai qualche inganno per venire al mio intento. – E quivi narrò come il caso era stato, e volle che l’amico che l’aveva invitata rendesse testimonio al tutto. Il che colui, che era dei vestiti per servire, con ammirazione ed allegrezza di tutti fece. E così la festa si raddoppiò. E dopo Antonio fece rimetter il bando al fratello di Pietro, il quale si trova oggidì contentissimo di sua moglie, e viveno insieme in tranquillissima pace; ed esso Pietro è da Antonio tenuto ed amato come figliuolo, e dopo la morte di suo suocero erediterà quello che vale più di trenta mila ducati, con una casa sì ben fornita di tutti i mobili che ci bisognano, come qual altra che in Medimborgo sia.
Si partì questo agosto ultimamente passato dal contado d’Agen madama Gostanza Rangona e Fregosa, mia signora, per ischifare i perigliosi tumulti senza occasione veruna scioccamente nati da la feccia del volgo de la città di Bordeos, alora che ammazzarono monsignor di Monino, luogotenente del re cristianissimo. Il che molto caramente costò loro, per l’agro castigo e debita punizione che gli fu data. Si condusse madama in Linguadoca a San Nazaro, castello de la badia di Fonfreddo vicino cinque o sei miglia lombarde a l’antica città di Nerbona, che già diede il nome a la provincia nerbonese. Quivi fermatasi, perchè la badia è d’uno dei signori suoi figliuoli, (ed ha molte castella con giurisdizione di far sangue, e ci sono luoghi bellissimi di caccie di cervi, caprioli, cinghiari e altre fere e d’augelli da terra e d’acqua, essendo presso a la marina), era tutto ’l dì dai circonvicini signori e baroni visitata. È costume del paese che quei gentiluomini e signori con le dame e mogli loro di brigata si vanno visitando, e fanno insieme una vita allegra e gioiosa, avendo per l’ordinario in tutto dato bando dagli animi loro a la malinconia e gelosia, e d’ogni tempo ballando e facendo mille festevoli giochi, e basciandosi in ogni ballo assai sovente. Avvenne un dì che ragionandosi degli inganni che alcune de le mogli hanno fatto ad Enrico di questo nome ottavo re d’Inghilterra, e de la vendetta che egli di loro ha presa, il signor Ramiro Torriglia spagnuolo, che lungo tempo è stato in Italia, a proposito de le beffe che le donne fanno ai mariti, narrò una picciola istoria. Piacque essa istoria agli ascoltanti, onde mi venne voglia di descriverla. Sovvenutomi poi di tante mie novelle non ve n’aver ancor donata una, me stesso di trascuraggine accusai, deliberando che questa fosse quella che appo tutti facesse testimonio de la cambievol nostra benevoglienza e de la vostra gentilissima cortesia. Ma io non voglio ora entrar a dire de l’amorevolezza vostra, de la diligenza sempre vivacissima che ne le cose degli amici mostrate, a di tante altre vostre lodate condizioni, chè sarebbe opera troppo lunga, ed io non mi mossi a scrivervi per voler raccontar le vostre lodi, ma per donarvi questa istorietta e rendervi certo che ovunque io sia, sono e sarò sempre del mio generoso Olivo. State sano.
Negli anni de la salute' 'nostra del millecentonovanta, poco più o poco meno, era conte di Barcellona don Pietro d’Aragona, e fu il settimo re d’essa provincia aragonese. Egli ebbe per moglie donna Maria di Monte Pesulino, la quale era nipote de l’imperadore di Costantinopoli. Era donna Maria assai bella, ma molto più gentile e vertuosa e molto dai popoli di Ragona amata e riverita per i suoi buoni costumi e perchè a tutti, secondo il grado loro e secondo che lo valevano, faceva grate accoglienze, compiacendo loro ne le domande quanto il debito portava. Il re Pietro, per quello che veder si poteva, mostrava averla molto poco cara, e lasciatala quasi per l’ordinario sola nel letto, attendeva a trastullarsi con altre donne. E ben che essa reina potesse assai cose fare nel regno e da’ baroni, cavalieri ed altri fosse molto onorata e da tutti ubidita, e il re cose che ella facesse non rompesse già mai, nondimeno ella in conto alcuno non si contentava e viveva in pessima contentezza, perciò che più volentieri si saria contentata di meno autorità nel maneggio del regno, ed aver le notti nel letto la debita compagnia ed abbracciamenti del re suo marito. Di questa sua mala sodisfazione non si lamentava ella con persona, anzi, se talora alcuno le faceva motto degli amori del re e de le donne con le quali egli teneva pratica, ella, come saggia che era, mostrava non curarsi, ed altro non rispondeva se non che dal re suo marito e signore era benissimo trattata e tenuta cara, e che tutto ciò che da quello si faceva era ben fatto, perciò che egli era padrone e signore di tutto. Erano alcuni dei baroni ai quali molto dispiaceva questo modo di vivere che il re teneva, perchè non avendo egli figliuol nessuno legitimo, pareva loro molto di strano che non curasse di procrear un legitimo erede e successore al suo nobilissimo reame. E di questa trascuraggine del re era nel popolo una grandissima mormorazione, ed ogni dì ci era chi a la reina se ne lamentava. Ella non sapeva che altro dire, se non che ciò che il re voleva, ella anco voleva. Nondimeno le pareva pure che gran cosa fosse che il re sì poco si curasse di lasciar un erede dopo la morte sua. Da l’altra banda, essendo pur ella di carne e d’ossa come l’altre femine sono, le era molto duro a sofferire che il re sì malamente la trattasse, e che più d’alcune altre donne si curasse che di lei, le quali seco non erano da esser parangonate nè di bellezza nè di sangue nè di costumi. E così entrandole nel petto il veleno de la gelosia, cominciò fortemente tra sè a dolersi de la vita che il re menava. Tuttavia non le parendo onesto con altri dolersene, più volte, quanto più modestamente seppe, con il re se ne dolse; ma ella cantava a’ sordi. Il re, nulla curando le vere lamentazioni de la reina, andava dietro al viver suo consueto, ed oggi con questa e dimane con quella de le sue favorite donne si dava buon tempo. La reina, a cui onesta gelosia aveva aperti gli occhi, cominciò con più diligenza del passato a spiar le azioni e gli amori del re, e di leggero s’accorse che quello un suo fidatissimo cameriero aveva, il quale, consapevole de l’animo del padrone, era colui che secondo il voler di quello ora gli conduceva questa femina, ora le menava quell’altra, e nascosamente le faceva entrar nel palazzo e mettersi in alcuna camera; poi quando il re si ritirava per dormire, il detto cameriero gli metteva a lato quella donna che condotta aveva, ed il più de le volte le faceva venir senza lume. Avuta la buona reina cognizione di questo fatto, pensò con quel meglior modo che fosse possibile, di corromper il cameriero e far tanto che in vece d’una di quelle amiche del re, ella di segreto fosse introdutta in letto con il marito. Messasi adunque a la prova, in diverse volte tanto fece e disse e tanto promise al cameriero, che egli si contentò con questo mezzo usare al suo padrone questo onesto inganno; nè troppo indugio diede a l’effetto. Dormivano il re e la reina in un medesimo palazzo, ma in diverse camere, tra le quali non era molta distanzia. Avendo adunque il re dato ordine al cameriero che quella notte gli conducesse una di quelle sue consuete donne, egli ne avvisò la reina, la quale, messasi a l’ordine d’andar a nozze, se ne stava attendendo l’ora. Venuto il tempo oportuno, andò il cameriero e, presa la reina, quella condusse e pose al lato del re, il quale credendosi d’aver una de le sue solite, con la reina più volte amorosamente si trastullò. Avendosi il re preso quell’amoroso piacere che gli parve, ed appropinquandosi l’aurora, diede congedo di partirsi a la reina e chiamò il cameriero che via ne la menasse. Alora la reina, che conseguito aveva quanto era il desiderio suo, così parlando disse: – Signore e marito mio, io non sono quella cui credete, chè, pensando voi esservi giaciuto con una de le vostre amiche, meco stato sète, che sono pur vostra legitima moglie. Io mi fo ad intendere che non debbiate aver a male, se quello che di ragione è mio, non lo potendo io buonamente conseguire, con onesto inganno ingegnata mi sono d’ottenere, con ciò sia che a nessuno fa ingiuria chi usa de le sue ragioni. Voi come re, mio marito e signore, potete, se vi piace, far ogni strazio di me ed uccidermi, ma non potrete già fare che ciò che fatto è, fatto non sia. Pertanto se Iddio sì bella grazia fatta m’avesse, che dei congiungimenti che questa notte sono stati tra noi io restassi gravida, e partorissi al suo tempo un figliuol maschio, erede di questo reame di Ragona, essendo, appo tutto il popolo, publico che voi non vi giacete nè mescolate meco, a ciò che non si dicesse ch’io l’avessi generato d’adulterio, vi piacerà fare che i primi baroni del regno, che ne la corte sono, sappiano che questa notte io sia stata con voi, e mi veggano qui vosco, a possano render testimonio che il frutto del ventre mio sia seme vostro. – Piacque al re l’onesto inganno de la reina e la ritenne seco in letto, e volle che la matina tutti i baroni e cortegiani ne la camera entrassero e la reina seco corcata vedessero, e a tutti manifestò la sagace astuzia da lei usata. Commendarono generalmente tutti l’ingegno de la lor signora, che con così astuto avvedimento avesse onestamente gabbato il marito, e lodarono il re che di questa gentil beffa si contentasse. Per l’avvenire adunque il re, in tutto cangiato di natura, lasciò stare quelle donne con le quali amorosamente si giaceva, e cominciò molto ad amar la reina e degli abbracciari di quella in modo sodisfarsi, che dopoi non si mischiò più con altra femina. Fece nostro signor Iddio grazia a la buona reina, che ella ingravidò d’un figliuol maschio, ed al tempo debito lo partorì, il primo giorno di febbraio del millecentonovantasei. Fu di tutti i ragonesi l’allegrezza inestimabile, veggendo la legitima successione del loro re naturale. Fu portato il bambino secondo il costume di quei paesi a la chiesa ed avvenne che entrando dentro quelli che il figliuolo portavano, i sacerdoti del luogo, che nulla del fatto sapevano, cominciarono a cantar quel bellissimo cantico Te Deum laudamus, che già i dui santi dottori de la Chiesa catolica, Ambrogio ed Agostino, nel battesimo di esso Agostino, a vicenda composero, cominciando Ambrogio e rispondendo Agostino. Portato poi il figliuolino da quel tempio ad un altro, ne l’entrare di quella chiesa i preti intonarono quel cantico di Zaccaria profeta, padre del precursore del Redentore de l’umana generazione dicendo: Benedictus Dominus Deus Israël. Il che fu evidentissimo segno che il fanciullino nato deveva esser re di gran bontà e di molta giustizia. Devendo poi ricevere il sacro battesimo, e non sapendo il re e la reina che nome imporgli e molti nomi ricordando, a la fine convennero in questo. Fecero pigliar dodici torchi d’una stessa ugualità e peso, e gli fecero unitamente allumare, e a riverenza dei dodici apostoli su ciascuno torchio fu scritto il nome d’un apostolo, con intenzione che il nome de l’apostolo il cui torchio prima s’ammorzasse si mettesse al fanciullo. Onde consumandosi prima degli altri quello del nome di san Giacomo, il fanciullo da quello fu' 'chiamato Giacomo. Crebbe il figliuolo e riuscì uomo eccellente e di grandissimo governo in guerra ed in pace. Fece contra i mori asprissima e crudelissima guerra, cacciandogli a viva forza da le isole Baleari, Maiorica e Minoica. Ricuperò anco il reame di Valenza e, passato lo stretto di Gibelterra, diede danno grandissimo agli infedeli, innalzando quanto più poteva la fede di Cristo.
Verissimo pure esser ogni dì si vede il proverbio che communemente dir si suole: che «gli uomini talora si riscontrano, ma le montagne non già mai». Deverebbe questo ammonire quelli che portano il cervello sopra la berretta e, non si curando far le sconcie cose ed offender assai sovente il compagno, dicendo: «Me ne vado ed egli se ne va, nè più ci rivederemo». Erronea certamente e mal regolata openione, come la sperienza ne fa ferma fede, perciò che molte volte ciò che non accade in uno e dui anni, avviene in un punto impetuosamente. E questo ci occorre così ne le nostre vertuose operazioni come ne le male. Chi imaginato si averebbe già mai, Baldo mio soavissimo, che voi ed io dopo tanti anni in Aquitania, nel contado d’Agen, su la riva di Garonna, ad un medesimo tempo trovati ci fussimo? Ponno esser circa ventidui anni, e forse più che meno, che di compagnia a Ferrara ci trovammo a le nozze del signor Gian Paolo Sforza, fratello di Francesco secondo Sforza duca di Milano, e de la signora Violante Bentivoglia sua consorte, ed alcuni dì in grandissimo piacere di brigata dimorammo. Egli vi deve sovvenire quanti bei giochi si fecero e quanto allegramente tutti quei giorni in festa trascorremmo. Finite le nozze, chi andò in qua, chi andò in là, come spesso suol avvenire. Voi non molto dopo, facendo penitenzia de l’altrui colpa, per l’Italia, l’Alemagna, Spagna e per l’Affrica, conquassato da’ contrarii venti d’impetuosa fortuna, finora sète ito errando, e di nuovo la terza volta in Ispagna passar volete, avete di Fiandra fin qui attraversata gran parte del reame de la Francia. Vi riconduce in Ispagna la speranza che avete di dar fine a tante peregrinazioni, a tante fatiche, a tante spese, a tanti pericoli, e vedere col favore del famoso arciduca de l’Austria re di Boemia, malgrado de l’avversa