Novelle (Bandello, 1853, II)/Parte II/Novella XVIII
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mio, sète voi venuto meco in paradiso? – Mai sì, bestiaccia che tu sei, – rispose egli, ed aperta l’arca, le fece veder il paradiso ove dimorava. E veggendola divenuta mugnaia, ancor che irato fosse, non puotè contenersi che non ridesse. Tuttavia molto agramente la ripigliò e le disse molte ingiurie, chiamandola porca ed imbriaca, e che ogni modo un dì le romperebbe le braccia ed il capo. Ella tutta infarinata uscendo de l’arca, non si cambiò punto del suo vivere, ma attese a mangiar di sotto e di sopra e bere altresì più che mai, parendole impossibile il viver altrimenti. E così intendo che oggidì fa, perciò che il lupo cangia il pelo ma non muta natura. Il bestionaccio del bresciano se ne va in qua ed in la per l’Italia e pensa che la moglie debbia vivere, non le lasciando il modo, se la misera non se lo guadagna con le cose sue.
Ancora che noi siamo qui in Chierasco e di giorno in giorno aspettiamo l’essercito de l’imperadore, numeroso di fanti italiani, tedeschi e spagnuoli che minacciano volerne mandar tutti sotterra, non si vede perciò un minimo segno di paura in questi nostri soldati, anzi mi pare che con una allegrezza inestimabile aspettino questo assedio, come se due o tre paghe oltra il debito lor soldo aver dovessero. Io sento da ogni canto che tutti s’apparecchiano a dar a’ nemici sì fatto conto del lor valore e far tal prova, che io non posso se non credere che noi resteremo con l’onore de l’impresa, tanto più che il signor mio, il signor Cesare Fregoso, ben che sia gravissimamente d’acutissima febre infermo, non lascia cosa a fare che possa esser a nostro profitto e a danno dei nemici. La venuta poi vostra a chiudervi qui dentro volontariamente, essendo in viaggio per andar a la corte del re cristianissimo, mi dà buono augurio e mi fa sperare di bene in meglio. E così voglia il nostro signor Iddio che succeda. Ora essendo, tre dì sono, andato al bastione che è a la porta di San Francesco, ritrovai quivi molti buon compagni che discorrevano, ragionando insieme la varietà de la natura degli uomini di varie nazioni circa il bere, e tra loro erano molto differenti. Ed avendo di questa materia assai questionato, Lodovico da Sanseverino capo di quella guardia, giovine discreto e prode de la persona, raccontò una piacevol novelletta a quel proposito; la quale, essendomi piaciuta, scrissi e a voi la mando e dono, veggendo quanto sempre mostrate le cose mie esservi care. State sano.
Noi ci becchiamo il cervello, compagni miei cari, se pensiamo determinatamente dire che questa nazione beva più d’un’altra, perciò che d’ogni nazione ho io veduto bevitori grandissimi, e trovato tedeschi e francesi assai che più amano l’acqua che il vino. È ben vero che pare che siano alcune nazioni che amano più il vino una che l’altra; ma in effetto tutti beviamo molto volentieri. So io bene che ho conosciuti italiani sì avidi e gran bevitori che non cederebbeno a qual si sia tra gli albanesi o tedeschi famoso ingozzator di vino. E che direste voi se io vi nominassi un lombardo, il quale ho veduto far brindisi con tedeschi a una tavola d’un cardinal tedesco e vincergli tutti, ed anco riportar la palma baccanale tra gli albanesi? Il franzese beve spesso e vuole buoni e preziosi vini ma bene innacquati, e beve poco per volta. L’albanese ed il tedesco vogliano pieno il bicchiero e da la matina a la sera e tutta notte aver il vino a la bocca. Lo spagnuolo che a casa sua beve acqua, se beve a l’altrui spese, per Dio, terrà il bacile a la barba a chi si sia. Per l’ordinario poi credo io che i tedeschi, signori e privati d’ogni sorte, si dilettino più di giocar a bere che altra nazione, e publicamente a tavole signorili s’inebriano di modo che ad un ad uno bisogna portargli a casa ebri e fuor di sè; nè questo tra loro è reputato vergogna. Ora sovvenendomi un bel detto d’un tedesco a questo proposito, vi narrerò una piacevol novelletta. Poi che Francesco Sforza, di questo nome primo duca di Milano, per mantener la pace in Italia fece la famosa lega de la unione di tutti i potenti italiani, al tempo di Pio secondo pontefice massimo, maritò Ippolita sua figliuola con Alfonso di Ragona primogenito del re di Napoli Ferdinando il vecchio. Fu condotta onoratissimamente la nuova sposa a Napoli, ove le nozze si fecero pompose e bellissime, come a dui sì gran personaggi si conveniva. Avevano tutti i signori d’Italia mandati ambasciatori ad onorar le nozze, e il duca Francesco aveva fatto accompagnar la sposa dai più onorati feudatarii e gentiluomini di Lombardia. Ora tra l’altre feste, bagordi e giuochi, che molti si fecero, s’ordinò una solenne e pomposissima giostra, che si fece un dì che era caldo grandissimo per esser di giugno. Quivi comparsero i giostratori con abbigliamenti superbi e ricchissimi, con vaghe e ben ordinate imprese secondo l’appetito di ciascuno, e feroci e generosi cavalli. Corsero tutti ed assai lance si ruppero con lode di chi giostrava e con non picciolo piacere di chi a lo spettacolo era. Finita la giostra, altro non si sentiva se non lodar questi e quelli, e dire: – Il signor tale ha rotte tante lancie, quel barone ha tante bòtte e quel cavaliero ha fatto così e il tal così. – Ecco in quello che si fece silenzio per bandire chi avesse l’onor de la giostra, che un tedesco che era suso una baltresca, non aspettato che il vittore si bandisse, cominciò quanto più forte puotè a gridare e dire: – Maledetto per me sia quel giuoco e maladette tutte le feste e bagordi ove non si beve! – Non dimandate se vi fu da ridere, e tanto più che egli si mise a gridare: – Vino, vino, vino! – Onde non so se mai fu tra tanta moltitudine detta cosa per cui tanto si ridesse, come per le parole del tedesco buona pezza si rise.
Ancora che sempre l’uomo debbia prima che parli maturamente considerar le parole che vuol dire e aver riguardo al tempo, al luogo, a la materia che si tratta ed a la persona con la quale ragiona, mi pare nondimeno che molto più avvertir vi si debbia quando s’è a la presenza dei suoi maggiori, e molto più se si parla con un gran prencipe e re: sono i re sacrati e pieni di maiestà, e convenevol cosa è che noi quasi come un nume gli onoriamo. Onde ragionando voi in Pinaruolo e molte cose del re Lodovico undecimo dicendo, il signor Cesare Fregoso,