Novelle (Bandello, 1853, II)/Parte II/Novella XVII

Novella XVII - La moglie d’un Bresciano, imbriaca, si pensa esser ita in paradiso, e dice di gran pappolate
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[p. 326 modifica]pagare. E certo Andrea Marsupini si diporta troppo civilmente teco, e non mi par onesto che tu più lo meni d’oggi in domane. – Stringevasi ne le spalle il debitore e ripregava il duca che almeno d’un mese gli facesse temine, non sapendo per alora dove dar del capo. – Per questo non resterà, – rispose il duca, – io te gli presterò e dal mio tesoriero te gli farò dare, con questo che in termine d’un mese e mezzo tu gli paghi poi al tesoriero. E guarda non fallire. – Promise il giovine pagargli al tempo ordinato, onde il duca, fatto chiamare un zio del fanciullo, gli fece sborsare dal tesoriero tutta la somma de la quale il giovine era debitore, a ciò che fidatamente al suo parente la facesse avere; il che fu messo in essecuzione. Questo atto divolgato per Firenze, accrebbe mirabilmente la riputazione d’esso duca e fu cagione di rappacificare gli animi di molti che forse non si contentavano di quel nuovo dominio, veggendo nel prencipe loro tanta giustizia col cui mezzo speravano di giorno in giorno andar di bene in meglio. E nel vero tra l’altre lodevoli e necessarie parti che ogni prencipe deve avere, io credo che la giustizia sia una de le prime.


Il Bandello al signor Lelio Filomarino colonnello del re cristianissimo


Io ho molte fiate notato, – chè di rado avviene che così non sia, – che la maggior parte degli uomini i quali anzi che no hanno un poco de lo scemo, ma si tengono esser avveduti e credeno che non ci sia persona che ingannar gli possa, che questi sono quelli che ogni dì incappano in mille errori e fanno i più strabocchevoli falli del mondo. Tutto quello poi che fanno par loro il meglio che far si possa. E se talora alcuno gli ammonisce e si sforza fargli capaci quanto eglino s’ingannino, non la vogliono intendere e si beffano di chi i lor misfatti ripiglia, dando sempre l’ordinaria risposta degli sciocchi, che ben sanno ciò che si fanno e che non temeno esser ingannati, di modo che ne l’errore, che essi avviluppati sono, non vogliono vedere. Quando poi parlano, si ascoltano, e se l’uomo de le sciocchezze che dicono, chè pur assai ne dicono, si ride, pensando molto spesso cotal risa venire perchè abbiano alcuna bella e notabil [p. 327 modifica]cosa narrata, se ne tengono assai da più. E quanto meno sanno parlar e discorrer dei maneggi del mondo, più si metteno a parlare e non lasciano mai che il compagno finisca una ragione, chè sempre lo interrompeno. Se per sorte poi tu non lodi ciò che dicono, ti biasimano e ti chiamano uomo senza ingegno. Di questi tali non è molto che ne l’alloggiamento del conte di Pontremoli si ragionava, poco dopoi che l’essercito del re cristianissimo sotto la cura ed imperio del signor conte Guido Rangone, luogotenente generale d’esso re, partì da la Mirandola passando per mezzo Lombardia a la volta di Genova; passato e ripassato l’Apennino, attraversò il Monferrato ed in Carignano si fermò, che voi col vostro colonello avevate da le mani degli imperiali levato. Ragionandosi adunque di costoro che nulla sanno e si persuadono saper il tutto, e de le beffe che talora a quelli si fanno, il signor Antonio Maria capo di fanterie narrò una piacevole e ridicola novella, la quale essendomi paruta festevole descrissi. Ora sotto il valoroso vostro nome l’ho al numero de le mie novelle annoverata, a ciò che resti, appo coloro che dopo noi verranno, testimonio de l’amicizia nostra. State sano.

La moglie d’un bresciano imbriaca si pensa esser ita in paradiso e dice di gran pappolate.


Egli mi vien a la niente una novella che non è guari di tempo a Verona avvenne ad un nostro bresciano, il quale è uno di quelli che avendo poco sale in zucca si pensa d’ingegno e di prudenza pareggiar Solomone, e che il nostro re cristianissimo non abbia un suo pari in corte. E certo ancora non è molto che io a la presenza d’alcuni uomini da bene gli udii dire che se egli consigliasse il re e fosse creduto, che la guerra anderebbe d’un’altra maniera. Pensate mò se egli si mette innanzi e se ha de la presunzione in capo. Nondimeno dice il vero, perciò che se egli governasse e potesse far a suo modo, secondo che, la Dio mercè, le cose di questo felicissimo essercito vanno tuttavia di bene in meglio, elle anderebbero d’un’altra maniera, cioè di mal in peggio, e poi al superlativo grado. Questo non avendo nè casa nè tetto nè possessioni nè danari in banco, ma solamente un poco di salario da un padrone che serviva, fu nondimeno tanto ardito che prese moglie. Nè crediate già che la [p. 328 modifica]moglie gli portasse in dote una somma di danari o qualche grande eredità di terre e palazzi, chè, da le veste in fuora che indosso aveva, niente altro gli recò. Praticava costui a Vinegia, ove prese domestichezza con una garzona che serviva alcune meretrici, (a ciò che voi non vi credeste che d’alcuna casa onorata la levasse), e di quella s’innamorò. Ella per un marchetto si dava a vettura ai facchini e barcaruoli e a simili altri uomini di bassa condizione, non ne rifiutando nessuno. Di questa essendo il bresciano innamorato, per due cagioni frequentava la pratica: prima perchè era vicina a la casa ove albergava e poi perchè spendeva poco. E dandole ad intender mille ciancie, partendosi da Vinegia la menò seco a Verona ove abitava il padrone. Gran sciocchezza certamente si vede in costoro che sono de la condizione del bresciano, i quali per ogni minimo difettuzzo che veggiano in uno, subito lo riprendono, e non s’accorgono i poveri uomini che essi sono in quel medesimo errore. Ma hanno tanto l’occhio a l’altrui cose che le proprie non vedeno, e non s’accorgono che quello che in altri biasimano è in loro vituperio. Ora il nostro bresciano ed un altro suo fratello di sì picciola levatura come lui, hanno questa consuetudine: come sono ove non siano conosciuti, per l’ordinario si fanno gentiluomini molto agiati e tengono una reputazione meravigliosa. Ma bello è sentir lodarsi al fratello, il quale nel tempo di pace ho veduto più di quindeci paia di volte rappezzar le scarpe di poveri uomini e donne, e non avendo risguardo come egli il più de le volte su la guerra per fante privato se ne sta in farsetto molto mal in arnese, come è in circolo di famigli, narra loro di gran faccende e dice le maggior pappolate del mondo. Ma tornando al bresciano, dico che in Verona sposò la puttanella, che condutta v’aveva, per moglie. Ella era assai giovane, con un visetto apparente e certi atti puttaneschi, e vedendo che il marito era attempato e non gli scoteva sì ben il pelliccione come averebbe voluto e come a Vinegia era avvezza, per non star indarno, si procacciava altrove e non si curava punto che si fossero o servidori od altri. E sovra tutti a lei piaceva un certo fornaro che coceva molto bene il pane, e di masserizia era grossamente fornito e di durissimo nerbo. Fu più volte il bresciano avvertito che la moglie, per risparmiar la roba di casa, logorava l’altrui; ma egli diceva che erano bestie che per invidia parlavano, e non s’accorgeva il misero che egli era pur il bestione e che era per privilegio fatto cittadino cornetano. Un’altra vertù aveva anco sua moglie, che era sì grande ed avida bevitrice di vino, che in un sorso averebbe [p. 329 modifica]bevuto l’Adige se fosse stato vino, e come una bertuccia s’inebriava. E questo vizio del vino rincresceva più al marito che tutte l’altre taccarelle che aveva, onde più volte seco se ne lamentò ed assai la garrì. Ma ella faceva il sordo e attendeva a bere quando voglia le ne veniva, e ne aveva di continovo voglia dal matino a sera e tutta la notte, di maniera che il botticino che in casa avevano troppo spesso restava vòto. Aveva il bresciano un Alessio de la Marca suo compare, dal quale a Vinegia ed altrove aveva ricevuti molti piaceri. Capitò Alessio a Verona, al quale il bresciano fece molte carezze ed offerte, e volentieri gli averia dato un desinare od una cena, ma temeva che la moglie non facesse disordine nel bere. Onde la sera le disse: – Io molto volentieri, moglie mia, darei un pasto al nostro compare Alessio al quale son molto ubligato, come tu sai; ma se io l’invito e per sorte tu ti truovi carca di vino come solita sei, io appo lui rimarrò sempre vergognato. Sì che io non veggio ciò che far mi debbia, perchè non vorrei che il tuo inebriarti, che solamente fin qui a quei di casa è noto, agli stranieri anco si palesasse. – La donna udendo il ragionar del marito, in questa maniera sorridendo gli rispose: – Io non voglio già che per cagion mia restiate d’onorare il compare, chè se io devessi bene per dui giorni astenermi da ber vino, farò di modo che non averete vergogna. – Il bresciano confidatosi de le parole de la moglie, invitò il compare a desinar seco per un giorno de la settimana, e invitò anco il maestro di casa del suo padrone. Ordinò poi le cose che per il desinare voleva che si facessero. La donna, bramosa che il marito si facesse onore, come seppe il giorno che deveva il compar venir a desinare, il dì innanzi, a la meglio che seppe e puotè, ordinò la casa ed apparecchiò quanto era di bisogno, e tutto quel dì stette senza gustar vino, bevendo acqua pura. Il seguente giorno levata a buon’ora, insieme con una buona donna ch’era venuta ad aiutarla, cominciò a dar ordine al desinare. Era il mese di luglio ed il bresciano aveva provisto di buoni meloni e fatto portar da casa del suo padrone buona vernaccia in dui fiaschi che il maestro di casa gli aveva fatto dare; e per esser mal agiato di casa, bisognava far la cucina in una camera ove il bresciano con la moglie dormiva. Ora postasi la donna a torno al fuoco e le vivande apprestando, ed or questa or quella gustando per veder se erano saporite, si riscaldò molto forte. E dato de l’occhio ai fiaschi de la vernaccia ed ai meloni, ne tagliò uno ch’era buono e ne mangiò la sua parte; e scordatasi de la promessa fatta al marito, pose [p. 330 modifica]mano ad un fiasco e levatolo e messolo a la bocca cominciò molto bene a bere. E sì andò la bisogna, che dopo il melone mangiò del cervellato, e parutole buono ne mangiò pur assai, di modo che vinta dal caldo de la stagione ed arsa dal calor del fuoco ed incitata dal salato che tuttavia mangiava, prima che si lasciasse uscir il buon fiasco di mano, inghiottì tutta la vernaccia. E già essendo mezza cotta, ritornò a torno al fuoco a far non so che, di modo che la vernaccia così le occupò il cervello e levò le sue fumosità che ella, più imbriaca ch’una sponga quando è stata longo tempo ne l’acqua, si corcò suso una panca a dormire. Il marito d’una pezza innanzi che menasse il compare a casa, se ne venne per veder come le cose erano concie. Così tosto come egli fu in casa, trovò la moglie che suso la panca dormiva come una marmotta, e disse: – Che ora è cotesta di dormire? – La buona donna che faceva i servigi per casa gli rispose dicendo: – Messere, voi sète venuto a tempo, perchè io non so che mi fare e madonna s’è addormentata. – E che cosa ha fatto questa sciagurata? – disse il marito. – Ella ha, – soggiunse la donna, – tanto mangiato del melone e del cervellato e bevuto uno di quei fiaschi, che io penso che sia andata in gloria. Che Dio le perdoni. – Il marito entrato in còlera ed accostatosi a la buona moglie le disse: – Leva su, rea femina, leva. – Ma questo niente faceva, perchè ella punto non sentiva nè si moveva, del che egli fortemente turbato, due e tre volte la sospinse. Onde la donna cadde giù da la panca in terra, ed aperse un poco gli occhi e subito gli chiuse, borbottando alcune mezze parole, e ritornò di nuovo a dormire. Onde il marito fuor di misura turbato disse: – Io so che questa imbriaca fastidiosa ha legato il suo asino a buona caviglia. – Nè altro rimedio veggendovi, con l’aita de la buona donna e d’un garzone che talora faceva alcun servigio per casa, levatola di peso, in un luogo quivi vicino, dove era l’arca de la farina, la portarono e ne l’arca la misero. Chiavò il bresciano l’arca e l’uscio del luogo fermò; poi si mise ad ordinar le cose per il desinare. In questo arrivò il maestro di casa, a cui il bresciano disse: – Mia moglie n’ha fatta una de le sue, chè ha bevuto tutto un fiasco di vernaccia, e vi so dire che sta fresca. Bisognerà poi far la scusa col compare e dirgli che è ita al partorire d’una nostra vicina. Bisogna mò che voi prendiate cura d’apprestare il desinare, che mi par essere assai ben in ordine. La tavola è messa. Questa buona donna e questo garzone faranno quanto gli commetterete. Io in questo mezzo anderò a trovar mio compare Alessio che su la piazza dei Signori [p. 331 modifica]m’aspetta. – Così se n’andò, e trovato il compare a casa lo condusse, e per meglio onorarlo invitò anco Matteo da la Lira. Nè crediate che io dica Agostino da la Viola, quel così famoso da Ferrara, che ai nostri giorni con la viola in collo è veramente stato un nuovo Orfeo. Ma questo di cui vi parlo è un povero compagno che sa così un poco gratugiare la lira e dire a l’improviso. Ed in vero chi sente quei suoi versacci ed abbia niente di gusto di versi, s’accorge molto bene che sono detti impensatamente, perciò che non ci è verso dei suoi tanto limato che non abbia almeno nove o dieci piedi, senza poi le belle e scielte parole, che tutte son nate, allevate e fatte perfette nel borgo di San Zeno, ove questa lettera «o» è in maggior riverenza che non è esso santo, onde hanno un privilegio di terminar il più de le parole loro in «o». Ora vennero costoro a desinare e furono assai comodamente di ciò che ci era serviti. Mentre che essi desinavano, la donna che sepolta era dentro l’arca de la farina si risvegliò alquanto, e quinci e quindi le mani dimenando nè dove ella si fosse imaginar sapendo, si dubitò d’esser forse morta, parendole che la farina fosse polvere. E per esser ancor molto ben carca di vernaccia, ella non sapeva discerner la farina da la polvere. Nè veggendo punto di lume, chè la finestra e l’uscio del luogo erano chiusi e l’arca chiavata, tenne per fermo esser passata a l’altra vita e sepolta; onde fra sè diceva: – Cotesta è una mirabil cosa, che io sia morta e non mi sovenga d’aver avute alcune infermità e non sappia quando io morissi. Ora sapessi io almeno se sono in paradiso od in purgatorio o per i miei peccati condannata a l’inferno. Ma che peccati aveva io di venir a casa del diavolo? Che se io ho prestato il mio corpo a questi e a quelli, e sovra tutti al nostro fornaio che infornava così bene e così gagliardamente, che è poi cotesto? Io non penso già che sia peccato a far piacere a’ poveri compagni, ben che questi preti e frati dicano di sì. E nondimeno quando io era con quelle buone donne a Vinegia, tutto il dì i preti e frati per la casa le trescavano, ed io so che meco più di tre paia ci sono giaciuti. Io anco non so che ingiuria in questo si faccia a’ mariti, quando essi ogni volta che vogliono si ponno giacer con le moglieri. E mio marito non trovò già mai che una sola volta la parte sua, quando l’ha voluta, non ci fosse. Così la volesse egli ogni dì e fosse bastante per i miei bisogni come io sono per i suoi! Egli quando mi menò via da Vinegia mi promise di molte cose, de le quali io non ne ho trovata nessuna. E se io non mi fossi ingegnata guadagnar alcuna cosetta con soccorrer [p. 332 modifica]i bisognosi, io so che staremmo male. Povero vecchio insensato che egli è, che vuol far il bravo e non s’avede che de le diece volte che vuol prendersi meco carnalmente piacere, egli fa, le otto, tavola e spende doppioni! Si crede poi con il suo parlar tondo e con l’andar in ponta di piedi come fanno i ragni, avermi contentata. A la croce di Dio, e’ vi vuol altro che parole a sodisfar a una donna! Ma io non sono mica stata così sciocca che io non abbia, con il meglior modo che ho potuto, proveduto ai casi miei e per carità ed amorevolezza provisto ai bisogni degli altri. Ora il tutto è finito, poi ch’io son morta. Io ho tante volte sentito dire che il morire è così gran pena e così pieno di spavento. A me pare egli che tutte siano baie e filostoccole da narrar la sera al fuoco, chè io per me non ho sentito dolor alcuno nè un minimo fastidio in questa mia morte. È ben vero che par che alquanto mi doglia il capo e ch’io mi senta lo stomaco gravato. Ma torniamo un poco a vedere che peccati altri io ho, a ciò che quando sarò dinanzi al Giudice essaminata, sappia rispondere. Egli è vero che io beveva volentieri e che ogni dì mio marito me ne garriva e mi chiamava imbriaca. Io beveva sì, e quanto il vino era megliore io lo beveva molto più volentieri, Or che peccato è egli il bere? Maggior peccato credo io che facesse mio marito, che nel botticino innacquava quel poco vino che ci era, a pericolo di guastarmi lo stomaco ed anco la botte, perchè sempre sentiva un poco del legno. Nè ti creder ch’egli ne volesse gustar gocciola. Egli se n’andava a desinare e a cena a casa di suo padrone, a mangiar di buon capponi e starne, ed io restava con un poco di carne di bue o di pecora e con il vino troppo innacquato. – Mentre che queste e mille altre sciocchezze, che troppo lungo sarebbe a raccontare, la donna come imbriaca tra sè diceva, ecco che Matteo cominciò a sonar la lira e cantarvi dentro. Il che sentendo ella: – Lodato sia Iddio, – disse, – che io sono in paradiso, ove sento che gli angeli suonano e cantano. Io diceva bene che io non aveva peccato d’andar a l’inferno. – E dicendo questo, diede una volta per la farina e di nuovo s’addormentò. Ora stato il bresciano col compar Alessio buona pezza dopo il desinare a ragionar seco e sentir la lira, partirono poi di casa e se n’andarono verso la piazza dei Signori. Nè guari quivi si dimorò a ragionare, che il buon bresciano, trovate sue scusazioni, ne venne a casa, e andato ove era la moglie, aperse la finestra e, dato di piedi ne l’arca, disse: – Dormi tu ancora? olà, che venga fuoco dal cielo che t’arda. – La donna si risvegliò e tutta sonnacchiosa disse: – O marito [p. 333 modifica]mio, sète voi venuto meco in paradiso? – Mai sì, bestiaccia che tu sei, – rispose egli, ed aperta l’arca, le fece veder il paradiso ove dimorava. E veggendola divenuta mugnaia, ancor che irato fosse, non puotè contenersi che non ridesse. Tuttavia molto agramente la ripigliò e le disse molte ingiurie, chiamandola porca ed imbriaca, e che ogni modo un dì le romperebbe le braccia ed il capo. Ella tutta infarinata uscendo de l’arca, non si cambiò punto del suo vivere, ma attese a mangiar di sotto e di sopra e bere altresì più che mai, parendole impossibile il viver altrimenti. E così intendo che oggidì fa, perciò che il lupo cangia il pelo ma non muta natura. Il bestionaccio del bresciano se ne va in qua ed in la per l’Italia e pensa che la moglie debbia vivere, non le lasciando il modo, se la misera non se lo guadagna con le cose sue.


Il Bandello al molto illustre e valoroso signore il signor Livio Liviano capitano di cavalli leggeri


Ancora che noi siamo qui in Chierasco e di giorno in giorno aspettiamo l’essercito de l’imperadore, numeroso di fanti italiani, tedeschi e spagnuoli che minacciano volerne mandar tutti sotterra, non si vede perciò un minimo segno di paura in questi nostri soldati, anzi mi pare che con una allegrezza inestimabile aspettino questo assedio, come se due o tre paghe oltra il debito lor soldo aver dovessero. Io sento da ogni canto che tutti s’apparecchiano a dar a’ nemici sì fatto conto del lor valore e far tal prova, che io non posso se non credere che noi resteremo con l’onore de l’impresa, tanto più che il signor mio, il signor Cesare Fregoso, ben che sia gravissimamente d’acutissima febre infermo, non lascia cosa a fare che possa esser a nostro profitto e a danno dei nemici. La venuta poi vostra a chiudervi qui dentro volontariamente, essendo in viaggio per andar a la corte del re cristianissimo, mi dà buono augurio e mi fa sperare di bene in meglio. E così voglia il nostro signor Iddio che succeda. Ora essendo, tre dì sono, andato al bastione che è a la porta di San Francesco, ritrovai quivi molti buon compagni che discorrevano, ragionando insieme la varietà de la natura