Novelle (Bandello, 1853, II)/Parte II/Novella XVI

Novella XVI - Bell'atto di giustizia fatto da Alessandro Medici duca di Firenze contro un suo favorito cortegiano
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[p. 322 modifica]con cui era dormito la notte. – Cotesto mi piace, – rispose il duca; – ma veggiamo com’è bella. – Aperto l’uscio, il duca fece uscir la giovane, la quale tutta vergognosa e lagrimante se gli gettò a’ piedi. Volle intender il duca chi fosse e come era stata quivi condutta. La giovane con lagrime e singhiozzi narrò il tutto, il che Pietro non seppe negare. Il duca alora con un viso di matrigna a Pietro ed ai suoi compagni disse: – Io non so chi mi tenga che a tutti tre or ora non faccia mozzar il capo. Ma io vi perdono tanta sceleratezza quanta avete commessa, con questo che tu, Pietro, adesso sposi per tua legitima moglie questa giovane e le facci duo mila ducati di dote, e che voi altri dui participevoli del delitto gli facciate mille ducati per uno di dote. E non ci sia altra parola. Ora, Pietro, io te la do come mia sorella carnale, di maniera che ogni volta che io intenderò che tu la tratti male, io ne farò quella dimostrazione che d’una mia propria sorella farei. – Onde alora fece che Pietro la sposò e che l’obligo dei quattro mila ducati da tutti tre fu fatto. E così a Firenze tornò, ove generalmente da tutti questo suo giudicio fu con infinite lodi commendato.


A l’illustre e valoroso signore il signor conte Annibale Gonzaga di Nuvolara il Bandello


Narrò non è molto il capitan Vicenzo Strozzi di qual modo il duca Alessandro de’ Medici si governasse con un giovine suo cortegiano, che aveva involata una figliuola per forza ad un mugnaio e seco la notte amorosamente s’era giaciuto; e fu da tutti il duca sommamente commendato. Era di brigata con quelli che a la narrazione si trovarono presenti il luogotenente del vostro colonnello, il capitan Tomaso Ronco da Modena, uomo ne l’arme molto essercitato e prode de la persona e di gentilissimi costumi quanto dir si possa dotato. Egli poi che vide a le lodi donate al duca Alessandro esser dato fine, disse: – Signori miei, chi volesse raccontar tutte l’operazioni che il duca di Firenze Alessandro de’ Medici in cose di giustizia ha fatto, averebbe nel vero troppo più da fare che forse non si pensa, perciò che sono [p. 323 modifica]infinite; ed egli, ove bisogna usar giustizia, usar diligenza grandissima, non si lascia trasportar da passione alcuna, nè guarda in viso a chi si sia. E certo la giustizia è una vertù necessaria a tutti i prencipi, ma molto più ad un prencipe nuovo, il qual voglia ben regger una città che sia stata lungo tempo libera, come è stata la città di Firenze. E tanto più deve il duca affaticarsi in far che la giustizia sia osservata, quanto che deve attender a stabilire questo suo nuovo prencipato e far che il popolo di Firenze l’ami. Il che facilmente consegue chi fa giustizia, perciò che a la fine i grandi e piccioli amano e cercano di conservar il lor prencipe giusto. Ora per non voler tenervi più in ascoltar questi ragionari, io vi vo’ contare un’azione fatta dal detto duca, la quale merita a giudizio mio esser lodata. – E così il capitan Tomaso narrò una novelletta molto bella, la quale in segno de la mia servitù e de l’amore che sempre m’avete dimostrato ho voluto che sotto il valoroso vostro nome sia letta. Voi questo picciol dono degnarete accettare, il quale doppiamente vi deverà esser caro, sì perchè la novella è narrata dal vostro luogotenente ed altresì perciò che da me è stata scritta. Feliciti Iddio ogni vostro pensiero.

Bell’atto di giustizia fatto da Alessandro Medici duca di Firenze contra un suo favorito cortegiano.


Devete sapere, signori miei, che ciascuno che occupa il dominio de la sua patria, e massimamente che fin alora sia stata libera, che conviene che faccia molte cose e stia più vigilante che non farebbe uno che s’insignorisse de la patria o d’altro luogo che già fosse avvezzo aver signore. Questo dico perciò che avendo il duca Alessandro preso in sè il dominio di Firenze che era in molti, è necessario che non solo quelli che attualmente erano de la Signoria, ma che anco gli altri che speravano ascendere, chi ad esser gonfalonieri, chi degli «otto» e chi d’altro ufficio, si tengano offesi, e che giorno e notte pensino a la ricuperazione de la lor antica libertà. Bisogna poi che consideri che communemente i cittadini più facilmente si metteranno soggetti ad uno straniero che ad un cittadino, parendogli che essi meritino così bene quel grado come quell’altro, e gli pare non dever sofferire che uno che era lor uguale gli debbia così leggermente diventar padrone. [p. 324 modifica]Per questo il duca Alessandro che non solo si sodisfà aver messo il freno a la patria sua e fattosene signore, ma vorrebbe cotesto dominio stabilire e lasciarlo ben fondato e fermo ai suoi figliuoli e nipoti, è astretto tutti quelli che conosce contrarii a questo suo desiderio, o con morte o con essilio o con dar loro quei confini che gli paiono, levarsi dinanzi, e tanto tenergli da sè lontani quanto che conosca essersi di tal maniera proveduto che più non gli possano nuocere. Nè solo i manifesti nemici' 'ed avversarii deve levarsi dinanzi e render deboli, ma deve ben considerare tutti gli aderenti, e questi tali anco tener per qualche tempo allontanati da la pratica de gli altri cittadini, il che a me pare che egli molto saggiamente faccia. E come già s’è detto, egli si sforza che la giustizia in ogni cosa si essequisca. Vi dico adunque che essendo Andrea Marsupini, tra’ cittadini onorati di Firenze uomo di molta stima venuto in qualche sospetto al duca Alessandro, fu da lui confinato in contado, e si ridusse a Prato ove dimorò qualche tempo. Il duca dapoi per qualche sospetto che ebbe, o che a questo fosse da altri stimolato, non volle che più Andrea si tenesse a Prato, ma gli diede i confini in Casentino, in una villetta vicina a Bibiena che da’ paesani si chiama Rassina. Quivi si condusse il Marsupini e vi menò la moglie e i figliuoli, e come colui che non si sentiva colpevole, attendeva questo essiglio a sopportare più pazientemente che fosse possibile, sperando pure d’esser un dì a la patria restituito. Egli era creditore d’un cittadino, cortegiano d’esso duca, il cui nome m’è uscito di mente, e deveva da quello aver circa cinquecento ducati o poco più o poco meno. E veggendosi esser poco grato al duca del quale il debitore era molto favorito, non ardiva fargli molta instanza per riaver i suoi danari, ma così freddamente glieli faceva richiedere. Il giovine, che poca voglia mostrava di volerlo pagare, gli dava parole e con quelle lo menò circa quattro o cinque anni. Ora veggendo il Marsupini che l’amico non era disposto a pagarlo così di leggero, pensò per via di parenti ed amici fargliene parlare, e quando pure lo ritrovasse come al solito renitente, aver con una supplicazione ricorso al duca. Fatta questa deliberazione, mandò Amerigo suo figliuolo, che era di dodici in tredeci anni, verso Firenze, informato del caso e con lettere a’ suoi parenti ed amici. Amerigo, prima che parlasse nè desse lettere a nessuno, come fu a Firenze se n’andò a ritrovar il debitore e per commissione di suo padre gli domandò i danari. Il debitore mostrò curarsi poco di lui, di che il fanciullo, che era d’ingegno e di spirito, non si smarrì punto, [p. 325 modifica]ma disse che se non pagava il debito che deveva al padre, che se n’anderebbe a querelar al duca. Il giovine, sdegnato che un garzoncello avesse ardire di dirgli simil parole, lo minacciò che se più di parole lo molestava, che gli romperebbe il capo, e da sè con agre parole lo licenziò. Il fanciullo veggendo questi contegni del debitore, senza mettervi su nè più oglio nè più sale, se n’andò di lungo al palazzo ove il duca dimorava, e detto ad uno degli uscieri che aveva bisogno di parlar con il signor duca, fu intromesso. Il duca veggendo il fanciullo di buona presenza, gli domandò ciò che voleva. Amerigo alora disse di cui era figliuolo e la cagione per la quale suo padre l’aveva mandato a Firenze, e le male parole che il debitore gli aveva detto col minacciarli di rompergli il capo. Supplicò dopoi molto umilmente il duca che degnasse fargli giustizia e non volesse permettere che se ben suo padre era confinato, che perciò il debitore di questo modo lo straziasse, essendo già più di cinque anni che era vero debitore. Il duca udita la proposta del fanciullo, essendogli mirabilmente piaciuto il ragionar di quello, considerato che non domandava se non cosa che licitamente non se gli poteva negare, disse che non si devesse partire e che in breve lo spedirebbe. Onde commise che il debitore fosse domandato, al quale venuto a la sua presenza domandò s’era debitor d’Andrea Marsupini, e di quanta somma e da quanto tempo in qua. Non seppe il cortegiano negar la verità e liberamente il tutto confessò. Il duca alora: – Adunque, – disse, – vuol il devere che tu gli sodisfacci senza indugio, essendo tanti anni che questa somma gli dèi dare, assicurandoti che se più tosto mi fosse stato detto, che tu già l’averesti pagato. E perchè io intendo che tu hai bravato e minacciato di battere e romper il capo a cotesto garzone, io ti ricordo per profitto tuo che tu' 'lo guati e lasci stare, non gli dando molestia in qual si voglia maniera, per quanto hai cara la vita, perchè io non ti averei in questo caso un minimo rispetto. E per Dio tu sei divenuto uno gran bravo a volerti porre contra un fanciullo. Va, e provedi che stamane Andrea Marsupino abbia il suo come è il devere, e fa di modo che io non ne senta più motto alcuno. Io non vo’ nè sono per sopportare che uomo del mondo sotto l’ombra mia faccia nocumento a persona. – Cominciò il debitore a scusarsi, dicendo che non era possibile che così tosto potesse trovar tanta somma di danari, e domandava che il termine a lui si prolungasse tre o quattro mesi, e che daria idonea cauzione di pagare. – No, no, – disse il duca, – tu hai avuto tempo assai, e a farti il debito tuo, meritaresti che gli interessi ti fossero fatti [p. 326 modifica]pagare. E certo Andrea Marsupini si diporta troppo civilmente teco, e non mi par onesto che tu più lo meni d’oggi in domane. – Stringevasi ne le spalle il debitore e ripregava il duca che almeno d’un mese gli facesse temine, non sapendo per alora dove dar del capo. – Per questo non resterà, – rispose il duca, – io te gli presterò e dal mio tesoriero te gli farò dare, con questo che in termine d’un mese e mezzo tu gli paghi poi al tesoriero. E guarda non fallire. – Promise il giovine pagargli al tempo ordinato, onde il duca, fatto chiamare un zio del fanciullo, gli fece sborsare dal tesoriero tutta la somma de la quale il giovine era debitore, a ciò che fidatamente al suo parente la facesse avere; il che fu messo in essecuzione. Questo atto divolgato per Firenze, accrebbe mirabilmente la riputazione d’esso duca e fu cagione di rappacificare gli animi di molti che forse non si contentavano di quel nuovo dominio, veggendo nel prencipe loro tanta giustizia col cui mezzo speravano di giorno in giorno andar di bene in meglio. E nel vero tra l’altre lodevoli e necessarie parti che ogni prencipe deve avere, io credo che la giustizia sia una de le prime.


Il Bandello al signor Lelio Filomarino colonnello del re cristianissimo


Io ho molte fiate notato, – chè di rado avviene che così non sia, – che la maggior parte degli uomini i quali anzi che no hanno un poco de lo scemo, ma si tengono esser avveduti e credeno che non ci sia persona che ingannar gli possa, che questi sono quelli che ogni dì incappano in mille errori e fanno i più strabocchevoli falli del mondo. Tutto quello poi che fanno par loro il meglio che far si possa. E se talora alcuno gli ammonisce e si sforza fargli capaci quanto eglino s’ingannino, non la vogliono intendere e si beffano di chi i lor misfatti ripiglia, dando sempre l’ordinaria risposta degli sciocchi, che ben sanno ciò che si fanno e che non temeno esser ingannati, di modo che ne l’errore, che essi avviluppati sono, non vogliono vedere. Quando poi parlano, si ascoltano, e se l’uomo de le sciocchezze che dicono, chè pur assai ne dicono, si ride, pensando molto spesso cotal risa venire perchè abbiano alcuna bella e notabil