Novelle (Bandello, 1853, II)/Parte II/Novella XIV
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Suole assai sovente, signor mio splendidissimo, il mal regolato appetito de la vendetta, mischiato col zelo de l’onore, indurre l’uomo a perigliosi e strabocchevoli accidenti, perciò che per l’ordinario nessuno ingiuriato, s’ha punto di sangue nei capelli, si contenta render a l’ingiuriante l’offesa che bramava fargli, uguale a l’ingiuria o danno ricevuto, ma rendergliene a buona derrata il doppio si sforza, facendo nel vendicarsi molto del liberale, anzi, per dir meglio, del prodigalissimo. Si vede ancora alcuno di vil condizione offeso da grandissimi uomini, non si curar di porsi a mille rischi di morire, pur che imaginar si possa in parte alcuna vendicarsi. Indi in molti luoghi d’Italia e altrove abbiamo veduto e udito raccontar infiniti omicidii e rovine di nobilissime famiglie. E questo credo io che avvenga perciò che l’appetito de la vendetta che par così dolce, a poco a poco tira l’uomo fuor dei termini de la ragione e in modo l’ira accende che, accecato l’intelletto, ad altro non può rivolger l’animo che a pensar tuttavia come offender possa il suo nemico, nè mai riflette la considerazione a tanti e sì diversi perigli che tutto ’l dì occorrer si vedeno. Avviene anco il più de le volte questo accecamento de l’intelletto, perchè impregionata la ragione, lasciamo al dissordinato nostro appetito pigliar il freno in mano de le nostre mal considerate azioni. Onde ingannati da le proprie passioni che ci dipingono il nero per il bianco ed il bianco per il nero, andiamo come cechi a tentone brancolando qua e là e non sappiamo ritrovar il mezzo in cui consiste la vertù, e per il più de le volte tanto andiamo errando che ci accostiamo agli estremi che sempre sono viziosi, ed invece di congiungerci a la vertù, abbracciamo il vizio. Così avviene che il giudicio nostro, trovandosi infetto ed ammorbato, non sa discernere nè elegger ciò che sia il meglio da operare e quasi sempre s’appiglia al suo peggio. Per questo veggiamo tutto il dì esser molto più di numero coloro che dietro al vizio s’abbandonano che non sono quelli i quali seguitano la vertù, tanta è la difficultà di ritrovar la stanza de la vertù. E nondimeno deverebbe ciascuno con ogni diligenza e con ogni sforzo effettuosamente cercar il vero e buon camino e non si sbigottire nè spaventar per fatica che ci sia, ma andar animosamente innanzi e non piegar nè a la destra nè a la sinistra, perciò che la fatica che si sopporta a voler operar vertuosamente è degna d’ogni lode e si converte in grandissima gioia, e maggior gloria s’acquista ove è maggior contrasto e più difficultà. Non si sa egli che la vertù consiste circa le cose difficili? Deverebbe adunque da noi la vertù esser sempre seguìta, diligentissimamente ricercata, riverita, amata e santamente abbracciata; il che se si facesse come si deverebbe, senza dubio veruno ci dilungaremmo dagli estremi e ci avvicinaremmo al mezzo, e così l’azioni nostre sarebbero vertuose. Ma come dice il leggiadro toscano,
Perciò non mi rincrescerà mai usurpar tutto il dì ed anco scrivere una bellissima sentenzia, che sovente volte ho udito dire al glorioso e chiarissimo lume del sangue italiano, il signor Prospero Colonna, la cui memoria sempre sarà con riverenza e degnissime lodi ricordata. Diceva adunque il savio signore che la differenza che è tra il saggio ed il pazzo è cotale, che il pazzo fa sempre le cose sue fuor di tempo ed il savio aspetta il tempo oportuno. E chi dubita che come una cosa è fatta fuor di tempo non può esser buona? Come voi, signor mio, sapete, s’entrò in questo ragionamento essendo venuta la nuova de la morte del capitan Zagaglia d’Arimini, essendoci di quelli che per vendicar quella crudel morte volevano far certa impresa, la quale da voi non essendo approvata, non si pose altrimenti in essecuzione. E dopo molti ragionamenti, avendo Ferrando da Otranto narrato molte crudeltà crudelissime che già usò Maometto, di questo nome secondo imperadore de’ turchi, e ritrovandosi a parlar de le vendette che bene e male si fanno, furono molte cose dette, essendo il conte Guido Rangone vostro cognato e voi ritirati ne la camera. Il signor Pier Francesco Noceto conte di Pontremoli, che era restato in sala, disse che in effetto non era dubio che chiunque desidera di far alcuna vendetta, maturamente deverebbe considerar la qualità e forze del nemico e non si voler cavar un occhio per cavarne dui al compagno. Alora entrò in mezzo dei ragionari Girolamo Giulio Franco cittadino genovese e narrò il modo che tenne un gentiluomo di Genova in far una sua vendetta. Piacque a tutti meravigliosamente sentir simil novella e fu molto commendato l’animo del genovese. Essa istoria avendo io scritta, al generoso vostro nome ho intitolata, parendomi che per ogni rispetto più a voi convenga che ad altri, sì perchè essendo io fattura e creatura vostra, le mie cose ragionevolmente deveno esser più vostre che mie, ed altresì che chi la narrò insieme con il vendicatore è de la patria vostra di Genova. Degnate adunque con quella grandezza e cortesia de l’animo vostro, conforme al nome che avete, accettarla, come mi persuado, la vostra mercè, che farete. State sano.
Egli non si può negare, signor conte, che in tutte l’azioni che si deveno fare, non debbia ciascuno aver buona considerazione ed ottimo conseglio e poi, come si suol dire, metter le mani ne la pasta e venir a l’effetto de l’opera. È ben anco il vero che molte volte gli uomini fanno de le cose che riescono secondo il voler loro, che forse se l’avessero ben essaminate, non si sarebbero messi a farle. Se l’uomo, quando si vuol vendicare d’una ingiuria ricevuta e delibera uccider il suo nemico, si mettesse innanzi gli occhi tutti i perigli e casi fortunevoli che gli ponno occorrere, e che egli si mette a rischio di perder la vita che cerca tòrre altrui, di rovinar sè e i figliuoli, certo io mi fo a credere che poche vendette si fariano. Ma come s’è detto, il vendicarsi è cosa tanto dolce e appetibile che inebria ed offusca gli occhi de la mente, di modo che la persona ad altro non rivolge l’animo che a far vendetta, avvengane poi ciò che si voglia. Ora io vo’ narrarvi quanto altamente un nostro gentiluomo genovese si vendicasse e come ne la vittoria moderasse la còlera. Solevano già i nostri cittadini, come anco al presente fanno, trafficar per tutte le provincie del mondo così tra’ fedeli come tra gli infedeli. Avvenne negli anni di nostra salute mille trecento ottanta, poco più o poco meno, che un nostro gentiluomo chiamato Meguolo de la nobile ed antica schiatta dei Lercari si trovò in Trebisonda, ove negoziando, perciò che era persona molto destra ed avvenevole, entrò in grandissima grazia di quell’imperadore e non sapeva domandar cosa che da lui non ottenesse. Per questo trafficava con inestimabil utilità in quella provincia e ne l’altre parti, di modo che divenne ricchissimo. E per esser straniero, era da molti de la corte invidiato. Ma egli attendeva con buona grazia de l’imperadore a far i fatti suoi e non offender persona, anzi dove poteva giovar a chiunque l’opera di lui ricercava, mai non si mostrava stracco. Avvenne che un giorno giocando con un favorito de l’imperadore, di cui era publica voce e fama che da l’imperadore era la notte come moglie adoperato, che Meguolo, perchè giuocavano a scacchi, diede scacco matto al giovine. Aveva esso Meguolo pazientemente sopportato mille ingiuriose parole che giocando il giovine gli aveva dette; ma veggendo che finito il giuoco non cessava di dirgli ingiuria, e insuperbito del favor de l’imperadore moltiplicava d’ingiuriarlo, a la presenza di molti cortegiani gli rispose senza còlera quanto gli pareva che a l’onor suo appartenesse, mostrando sempre nel suo parlar modestia nè parola fuor di proposito dicendo, se non quanto era da la conservazione de l’onor suo astretto. Il giovine cortegiano che non sapeva servar modo, ove deveva riconoscersi e non ingiuriar Meguolo, cominciò fieramente più di prima a disprezzarlo e dir non solamente mal di lui, ma vituperar disonestamente tutta la nazion genovese. A così enorme vituperio, non potendo più Meguolo sopportar l’insolenzia de l’effeminato giovine, gli disse ch’ei mentiva, e cacciò mano ad una daga che a lato aveva; ma dai circonstanti fu tenuto, e in quello il giovine gli diede un buffettone e subito si ritirò. Di questo atto molto adiratosi Meguolo così contra chi l’aveva ingiuriato come contra gli altri cortegiani che impedito l’avevano, essendo uomo molto geloso de l’onor suo e dotato di grandezza e generosità d’animo, deliberò non lasciar questa tanta offesa senza vendetta. E considerato i grandi oblighi che a l’imperador aveva, andò a parlargli. E narratoli il caso come era successo, lo supplicò che degnasse concedergli che a singolar battaglia potesse far conoscer al giovine che senza superchieria non era buono per avvicinarsegli a batterlo; che poi, come sperava, castigato quello, era per combatter tutti gli altri ad uno per uno. L’imperadore che amava più che gli occhi suoi il giovine e chiaramente conosceva che ne lo steccato averebbe voltato le schiene, si sforzò con parole assai mitigar l’ira di Meguolo ed a modo nessuno non gli volle dar licenza di combattere. Sdegnatosi fieramente il nostro genovese, e veggendo che l’imperador non faceva contra il giovine dimostrazione alcuna, anzi che lo mandava quando usciva del castello con molti soldati accompagnato, cominciò a dar ordine a le cose sue e levar tutte le robe che ne l’imperio di Trebisonda aveva ed il tutto ridurre a Genova. E non veggendo modo alcuno, per la solenne guardia che i nemici suoi facevano, di poter prender vendetta di nessun di loro, e cadutogli in mente di che maniera deveva governarsi, parlato a l’imperadore senza mostrar segno de lo sdegno che ne l’animo aveva, allegando alcune sue ragioni gli chiese licenza di ritornar a riveder la patria per qualche tempo. L’imperadore che altro non ricercava che la salvezza del suo ganimede, e tuttavia gli pareva vederselo a brano a brano da Meguolo smembrare innanzi agli occhi, gli diede graziosamente licenza usandogli molte buone parole, perciò che in effetto egli amava Meguolo, ma troppo più aveva caro il giovine cortegiano. Montò in nave Meguolo col resto' 'dei suoi beni e con prospera fortuna arrivò a Genova. Quivi amorevolmente ricevuto da parenti ed amici, poi che con loro stette alcuni pochi giorni in festa e consolazione, ordinò un sontuoso convito in una sua amenissima villa vicina a la città, e vi fece convitar quei parenti ed amici suoi dei quali a lui parve potersi prevalere. Poi che si fu desinato e le tavole levate, essendo i servidori andati a mangiare, Meguolo con accommodate parole, chè era bellissimo parlatore, narrò a tutti il caso che in Trebisonda occorso gli era ed il poco conto che di lui e di tutta la nazione genovese aveva l’imperador dimostrato. Narrato che ebbe il successo del caso, manifestò loro la deliberazione che ne l’animo più e più volte aveva fatta, di voler prima morire che restar con quel mostaccione sul viso. E perchè Meguolo era pratichissimo di quei mari e paesi di Trebisonda, mostrò quanto legger cosa sarebbe il potersi vendicar de l’ingiuria ricevuta se lo volevano seguitare, ed oltra il vendicarsi divenir tutti ricchi. Indi affettuosamente gli pregò che volessero aiutarlo, e che da loro non voleva nè roba nè danari, ma che ciascuno d’essi trovasse tanti compagni che fossero bastanti per armar due galere, chè egli pagherebbe tutte le spese. Tutti quei che al ragionare di Meguolo eran presenti, che per il più erano Lercari, e tutti gli altri, udita l’offesa del parente ed amico che sommamente amavano e avevano caro, molto con lui si condolsero de la disgrazia sua, e tutti largamente se gli offersero andar seco in persona e tanta ciurma condurvi che armerebbero due de le meglior galere che a quei tempi solcassero l’acque marine, soggiungendo che non si devesse perder tempo a metter in essecuzione sì giusta vendetta. Vedendo Meguolo la pronta deliberazione dei suoi parenti ed amici, molto gli ringraziò, e non dando indugio al fatto, fece con somma diligenza fabricar due galere a San Pietro d’Arena, e fabricate che furono e provedute di quanto era mestiero, le fece spalmare. Gli amici in questo tempo avendo provisto di ciurma e di valentuomini per menar le mani al bisogno, insieme con Meguolo se ne montarono in galera, e tutti avuti buon soldo, là circa mezzo aprile diedero di remi in acqua e s’inviarono a la volta del mar di Trebisonda, e senza impedimento veruno or a vela or a remi pervennero nei mari de l’imperio di Trebisonda. Quivi giunti, cominciarono a costeggiar quei liti depredando ed abbrusciando il paese con grandissimi danni de la contrada. Meguolo poi a quanti uomini sudditi de l’imperadore poteva aver ne le mani, senza pietà alcuna faceva tagliar il naso e l’orecchie ed in un vaso a ciò apprestato gli faceva salare. A le donne non volle mai che facesse ingiuria alcuna nessuno dei suoi e massimamente ne l’onore. Andò la nuova a l’imperadore come alcuni corsari saccheggiavano non solamente i liti, ma anco fra terra facevano danno assai, onde fece armar alcuni legni per conservazione del paese. Ma il tutto era indarno, perciò che le galere erano tanto agili e tanto era il valor dei genovesi che mai non potero quei di Trebisonda guadagnar cosa alcuna, anzi erano dai compagni di Meguolo fieramente oltraggiati, di modo che perdettero molti legni senza mai dannificar le galere. Erano tra l’altre volte quattro galere de l’imperadore in mare e si misero a dar la caccia a le due di Meguolo, il quale facendo vista di fuggire non attendeva ad altro che veder di separar l’imperiali l’una da l’altra. De le imperiali ce n’erano due megliori di vele che l’altre. Queste veggendo fuggir le galere dei nemici, le diero dietro molto animosamente. Meguolo veggendole tanto dilungate da le compagne che non potevano più esser soccorse, fatto voltar le prore de le sue, investì di modo le due nemiche galere che, senza perder uomo dei suoi, prima che potessero aver aita, assai dei nemici ancise e de le due s’insignorì. E senza dar indugio al fatto, con i sanguinolenti ferri in mano, dopo molta occisione degli avversari, con poca perdita dei suoi, prese le galere, e a tutti quei che' 'sopra gli erano fece tagliar il naso e l’orecchie e porre nel vaso con il sale. E fatti gli uomini che erano restati vivi smontar in terra, tutti senza naso e senza orecchie lasciò andar ove più piacque loro. Preso poi fuor de le galere vinte tutto quello che a lui e ai compagni fu a grado, quelle fece ne l’alto mare affondare, non volendo che l’imperadore più se ne potesse prevalere. Crebbe in tanto l’animo a Meguolo ed ai suoi compagni per i felici successi che avuto avevano, che non lasciarono parte alcuna marittima pertinente a l’imperadore che non dannificassero; e spesso anco discorrevano fra terra, brusciando e saccheggiando il tutto, di modo che i luoghi marittimi cominciarono ad esser disabitati, perchè non ci era chi si confidasse starvi dentro per tèma de le due galere. Pareva a l’imperadore gran cosa che due galere facessero tanto di male, nè sapeva se erano cristiani od infedeli, perciò che Meguolo non s’era mai lasciato conoscere. Avvenne un dì che mandando Meguolo a prender rinfrescamento di carne e d’altro vivere ad un villaggio assai lontano dal mare, ove non era più andato nessuno de le galere, che presero oltra i bestiami ed altre vettovaglie, molti uomini, ed ogni cosa a salvamano condussero a le galere. Fece Meguolo ammazzar le bestie, e quelle col rimanente del vivere distribuì a tutti gli uomini che erano seco. Ordinò poi che ai prigioni d’uno in uno si tagliassero i nasi e le orecchie. Era tra quei cattivi un vecchio con dui figliuoli giovinetti, il quale veggendo che il manigoldo cominciava a far l’ufficio suo di snarare questi e quelli, si gittò pietosamente piangendo ai piedi di Meguolo, parendogli, per il comandar che faceva, che fosse il signor di tutti, e sì gli disse: – Io non so, signore, chi tu ti sia nè di qual nazione o legge: questo so ben io, che mai nè miei figliuoli nè io ti offendemmo, perchè io di continovo, da che nacqui, ne la villa ove sono stato preso, allevato e vivuto sempre mi sono. L’età poi scusa i miei figliuoli che qui vedi, che mai lungi da casa andati non sono, nè a te nè ad altrui hanno potuto nuocere. Ora non l’avendo io nè essi meritato, io supplico e risupplico che per l’amor di Dio, se deliberi contra noi incrudelire, che tutto il tuo furore usi contra me. Fammi, signor mio, lacerar a brano a brano e usa in me tutti i tormenti che vuoi, ed uccidemi ti prego; ma non ti mostrar crudele contra questi innocenti figliuoli e non voler che gli siano troncati gli orecchi e i nasi. Fa ch’io paghi per tutti ed essi restino assolti da così vituperoso maleficio. Movati a pietà l’età loro, e se hai figliuoli, pensa che la rota de la fortuna non sta mai ferma in un tenore e che a’ tuoi figliuoli potrebbe avvenire un simil caso. – Mossero a pietà Meguolo l’affettuose parole ed umili preghiere de l’afflitto e dolente vecchio. Egli intendeva e parlava benissimo la lingua di quei popoli; il perchè in questo modo gli rispose: – Le pietose tue lacrime e le efficacissime preghiere procedenti da l’eccessivo paterno affetto voglio che appo me vagliano e m’inducano aver di te e dei tuoi figliuoli, contra il deliberato mio proponimento, compassione. Nè pensar già che io da te mi reputi offeso, nè da nessuno di questi e tanti altri quanti per a dietro in questa provincia ho avuti ne le mani e a tutti il naso tagliato e fatto levar via gli orecchi. L’imperadore è quello che di tanti danni e mali quanti in questi tre mesi ho fatto in queste bande, che è la sola cagione. Fui con superchiaria in casa sua battuto, e mai non volle darmi licenza che io a battaglia singolar mi vendicassi, anzi al mio nemico, suo ganimede, ha fatto tutti quei favori in dispregio mio che a lui sono stati possibili. Pertanto con questa condizione ti lascierò andar libero con i tuoi figliuoli, che tu mi prometti la fede tua e mi giuri di portar a l’imperadore e presentargli un vaso che io ti vo’ dare, il quale è pieno di nasi ed orecchie di quelli che a le mani capitati mi sono. Oltra questo io vo’ che tu gli dica come io sono Meguolo Lercaro genovese, e che ho deliberato non mi partir mai da queste contrade se prima egli non mi dà ne le mani colui che in casa sua mi percosse. E poi anco vorrò alcune altre condizioni da lui. – Il buono e avventuroso vecchio promise e santamente giurò di far con diligenza tutto quello che Meguolo gli imponeva. Onde pigliato il vaso, lieto e di buona voglia con i figliuoli se ne andò a la volta di Trebisonda, ed appresentatosi a l’imperadore, puntalmente a quello in presenza di quanti ci erano fece l’imbasciata di Meguolo. Dopo gli appresentò l’orribil vaso. Restarono tutti storditi insieme con l’imperadore a sì fiero spettacolo, nè sapevano che dirsi, guardandosi l’un l’altro in viso. Quanto dispiacesse a l’imperadore che il vecchio in publico gli avesse fatta simil ambasciata, non si potrebbe dire, perciò che troppo altamente gli doleva dar il suo favorito a Meguolo ne le mani, tenendo per fermo che subito sarebbe tagliato in mille pezzi. Gli doleva troppo il male che i sudditi suoi pativano ed erano tutto il dì per sofferire, se a la domanda de l’ingiuriato Meguolo non si sodisfaceva; troppo duro poi gli era levarsi da canto il suo ganimede. Posto adunque tra l’incude e il martello, non sapeva che farsi. Ma sentendosi ogni giorno nuovi incendii fatti da Meguolo per il paese, e cominciando già il popolo a tumultuare, e grandi e piccioli liberamente dicendo che il favorito cortegiano deveva darsi in poter di Meguolo, che ne facesse ciò che più gli era a grado, a ciò che il paese non si guastasse; impaurito l’imperadore che la provincia non si sollevasse contra lui, deliberò andar in persona a parlar con Meguolo. E mandatogli un araldo per sicurezza sua e di chi seco andasse, ed avutala, andò a la marina ove Meguolo era, assai vicino al lito. Menò seco l’imperadore il favorito cortegiano, e come fu per iscontro a le galere, che tanto erano vicine che potevano parlarsi insieme, dopo le prime date e rese salutazioni, fece che l’ingiuriante giovine con una fune al collo entrò alcuni passi in mare e con le braccia in croce umilmente quattro e cinque volte chiese perdono a Meguolo. L’imperadore poi, dopo molte parole, disse a Meguolo che questo atto di umiltà gli deveva bastare per sodisfacimento de l’ingiuria. A cui rispose Meguolo che non si terrebbe sodisfatto già mai se il cortegiano non aveva liberamente ne le mani; onde l’imperadore, astretto dai suoi, con le lagrime su gli occhi lo mandò suso un battello in galera. Tenevano tutti per fermo che l’ira di Meguolo non si devesse saziare se non con la morte de l’effeminato giovine, il quale, veggendosi andar in potere del suo armato nemico, come un fanciullo fieramente sferzato senza fine piangeva. E come fu in galera, piangendo tuttavia, s’inginocchiò avanti a Meguolo chiamando mercè. Il vittorioso Meguolo alzò un piede e con una pedata percosse il nemico nel volto sì fortemente che gli fece uscir il sangue dal naso e da la bocca, e riversarsi in terra. Fattolo poi levare, disse con alta voce, di modo che l’imperadore e tutti gli altri l’intesero: – Io nel principio che con queste galere cominciai a costeggiar queste contrade, comandai che a le femine non si desse nocumento; perciò tu devevi pensare che io non incrudelirei contra una vil feminuccia. – Alludeva Meguolo con queste parole a le lagrime dei cortegiano e al disonesto ufficio di quello. Lo rese poi a l’imperadore, il quale gliene rese grazie infinite e s’offerse dargli grandissimi doni. A cui egli rispose che non era venuto in quelle parti da sì lontano paese per cupidigia di sangue nè di roba, ma per sodisfar a l’onor suo e del nome genovese, al quale teneva aver integralmente sodisfatto. A la fine l’imperadore promise di dar un fondaco a la nazion genovese in Trebisonda con privilegi amplissimi, e che ne la facciata di quello farebbe intagliar tutto il successo di questa istoria; il che integralmente essequì. E con il console di Caffa fin che visse ebbe sempre buona intelligenza, chè alora Caffa, città nel Mar Maggiore, era nostra colonia. Fu adunque sempre amico nostro' 'questo imperadore, e dopo lui tutti gli altri, fin che Maometto imperadore di Costantinopoli l’imperio di Trebisonda soggiogò. Così adunque Meguolo a sè ed a la patria, vendicandosi, acquistò onore, e con i suoi compagni ricchissimo ritornò a Genova.
Aveva il signor conte Guido Rangone vostro cognato e, conte sapete, luogotenente generale in Italia di Sua Maestà cristianissima, comandato che qui in Pinaruolo un giovine molto prode de la persona s’impiccasse, perciò che egli aveva sforzata violentemente una giovane, non ostante che i parenti de la donna avessero a lo sforzatore già perdonata l’ingiuria e la giovane stessa si contentasse che da la giustizia fosse assoluto. Essendone poi anco esso signor conte da molti capitani e valenti soldati pregato, tutti brevemente risolse: che senza fine gli doleva far morir un uomo, fosse chi si volesse, non che poi un soldato e valente; ma che era necessario che la giustizia avesse luogo e che simil enorme delitto non restasse impunito, perciò che se l’esser giusto stava ben a tutti i rettori e giudici dei popoli e a tutti i prencipi e signori, che meno non stava bene a un capo e governatore d’esserciti, nei quali l’ubidienza e giustizia era più che necessario che s’essequisse. E così il misero e sfortunato giovine pagò un poco di piacer venereo con il prezzo de la vita e fu impiccato. Erano quel dì ne la sala del palazzo ove alloggiava il signor conte molti gentiluomini in drappello, essendo veramente in questo felicissimo campo il fior di tutta la nobiltà italiana, e variamente del successo caso secondo la diversità de le affezioni si ragionava. Onde il capitano Vincenzo Strozzi figliuolo di Filippo, che era di brigata con loro, disse: – Signori, non vi meravigliate se il signor conte ha voluto che lo stupratore muoia, perciò che in vero se la giustizia non si facesse negli esserciti, essi non sarebbero esserciti ma spelonche di ladroni. La giustizia in effetto dispiace a quelli contra i quali si fa, ma ella è di tanta vertù che nessuno ci è che mal ne possa dire, e sforza gli animi degli uomini a temere, amare e riverir tutti i giudici giusti. E pare che un prencipe ancor che abbia di molte taccarelle, se è giusto, è da dire che la giustizia sia un manto che copra gli altri suoi errori. Sapete se la casa mia ha cagion di lodarsi d’Alessandro Medici duca di Firenze. Nondimeno io son astretto a dire che egli governa quello Stato