Novelle (Bandello, 1853, II)/Parte I/Novella LIV
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che come si dice è una gabbia di pazzi, di quelli talmente condizionati che il proprio diffetto del quale sono macchiati gettano in occhio a chi non l’ha, e con vituperose parole villaneggiano altrui di quello che a’ lor proprii conviene. E con queste taccarelle che sono di grandissima importanza, si tengono avvisti, scaltriti e di svegliato ingegno, non s’accorgendo questi animali che da tutti son beffati e scherniti. Di questo ragionandosi un dì a la presenza de la valorosa signora Ippolita Sforza e Bentivoglia, molte cose furono dette che troppo lunga istoria sarebbe a raccontarle. Basta che si conchiuse che l’uomo non deverebbe mai esser facile a far giudicio di cosa che sia, se prima non ha bene e maturamente tutte le condizioni a quella appartenenti pensate, conoscendosi chiaramente che quelli che così di leggero danno la sentenzia hanno riguardo a poche cose e sempre errano. Si disse poi che la natura n’aveva dato due orecchie aperte e senza ostacolo alcuno a fine che il tutto agiatamente potessimo udire; ma che a la lingua aveva opposto duo bastioni a ciò che l’uomo, prima che parli, abbia tempo di considerar tutto ciò che intende di voler dire e poi rompa gli argini, che si fa aprendo i denti e le labra. Su questo l’eccellente dottor di medicina, gentiluomo de la nostra città, messer Girolamo Roberto che spesso si ritruova in Milano e sempre alberga in casa de la detta signora, disse: – Io vo’ narrarvi brevemente a questo proposito una novella che non è molto avvenne in Brescia, ove vederete che se uno avesse tenuti chiusi i denti con le labra, non averebbe dette le sciocchezze che disse. – E così narrò la novella. La quale essendomi paruta assai festevole, ho voluto che vostra sia, sapendo che d’ora in ora più manterrete il vostro buon costume di non esser facile a giudicare nè dir altrui male, appresso a tante altre eccellenti doti e vertù che in voi sono. State sano.
Io mi son trovato, valorosa signora, altre fiate in casa vostra e di varie cose sempre ho sentito ragionare e narrarsi di molte novelle, ed assai sono stati quelli che novellando hanno ricerco quasi tutta la bella Italia, ma de la patria mia non so se ragionato si sia. Il perchè volendo ora dirvi quella novella che v’ho promessa, mi conviene entrar in Brescia, fertile ed onorata città, e dirvi un piacevol caso in quella avvenuto, il quale ancora che svogliati ne siate, penso che vi farà ridere sì per la persona di cui parla che molti di voi conoscete, ed altresì chè la novella di cui v’intendo ragionare mi pare solazzevole e degna de le vostre festevoli risa. Ed essendovi di quelli, come s’è detto, che volentieri si trastullano schernir altrui di quello che essi meritevolmente deveno esser corretti, se a le volte avviene che questi tali restino beffati, par senza dubio alcuno che bene gliene avvenga, e come proverbialmente si dice, qual asino dà in parete tal riceva. Dico adunque che al presente si ritruova in Brescia uno Stefano venuto di Val Troppia chiamato da tutti il Boientis perciò che nè per altro nome nè per cognome sarebbe conosciuto. Questo essendo ancora giovinetto ed avendo pur a la scola apparato legger e scrivere ed attaccatosi il calamaio a la cintola, si pose per scrivano a la banca d’un notaio di cui qualche scrittura copiava, ed attendeva a farsi pratico di saper formar queste scritture comuni, e a le volte or una or un’altra ne faceva traendone qualche profitto, di maniera che in poco di tempo egli si credette esser gran maestro in quell’arte. Onde non volendo più altrui servire, tanto fece e disse con l’aita d’alcuni cittadini che divenne notaio, ancora che molte fiate egli scrivesse di quelle scritture che poi egli stesso non sapeva nè intender nè leggere. Tuttavia cominciò a mettersi innanzi, chè è più presuntuoso che le mosche, e molto si rendeva piacevole a chi del suo mestieri lo richiedeva, ancor che di rado fosse richiesto, se non era da qualche povero contadino che non fosse ne la città ben pratico o che non lo conoscesse. Fece il Boientis dui o tre anni quest’ufficio, le cui sciocchezze che in quei dì avvennero, per ora non intendo narrarvi, chè tante e tali sono che di leggero non se ne verrebbe a capo. Ora avvenne che essendo in quei giorni la città nostra in mano di Massimigliano Cesare, egli la diede in guardia agli spagnuoli che in quei tempi in Italia in favore de l’imperadore contra i francesi ed i nostri signori veneziani guerreggiavano. E cominciando i veneziani a ricuperar quello che in Terraferma avevano così miseramente perduto, posero l’assedio intorno a Brescia, di modo che ne la città, al grido de l’arme e al terribil rimbombo de l’infernali bombarde, cessero le sante leggi, e a le sentenzie dei giudici si pose silenzio, perciò che essendo la città di soldati tedeschi e spagnuoli piena, in palazzo niente si faceva. Il Boientis in quel tempo, poi che la penna niente gli profittava, si trovò pur assai di mala voglia e non sapeva che farsi, non potendo de la città partirsi. E conte scioperato andava vagabondo per la città e sovente a le mura, ove di continovo si riparava per l’assidue batterie che da quei di fuori si facevano; onde avvenne ch’essendo stato ferito da uno scoppietto in una coscia un fante che su per il terrato andava, essendo per scontro ove le mura erano cadute, fu domandato mastro Calimero cirugico a medicarlo. Quivi si ritrovò il Boientis; e mentre il medico ricercava la piaga del ferito, diede un mezzo cannone in un merlo, le cui pietre mosse da quel ferventissimo impeto diedero nel capo al mal aventurato cirugico di modo che subito morì, ed insiememente anco il povero fante passò a l’altra vita. Era quivi, come s’è detto, il Boientis il quale non so in che modo ebbe la tasca di maestro Calimero e tutti i ferri da medicare. Ed essendosi ridutto a casa e ne la tasca ritrovato un libro scritto a mano, tutto pieno di ricette da medicar ferite d’ogni sorte così di taglio come di percossa e i mali nascenti, s’avisò che gli potrebbe di leggero venir fatto che egli medico di cirugia divenisse e con quest’arte divenir ricco. Il perchè lesse e rilesse diligentemente il libro, e con l’aita d’un barbieruolo mezzo medico che era molto amico suo, compose di molti olii ed unguenti e distillò acque di varie sorti, ed a cintola s’attaccò una gran scarsella con suoi ferri ed unguenti dentro, cominciando a medicar quei poveri soldati che a le batterie e scaramucce talora venivano percossi, feriti e magagnati. E giovavali molto che fanciullo aveva veduto sua madre medicar di molti mali, essercitando l’ufficio di medicare, dì modo che da tutti si diceva «la medica del Carmeno», perchè abitava presso a’ carmeliti. Ora in poco di tempo con la sovvenenza del modo che la madre usava e con l’aita de l’amico barbiero acquistò nome di medico. Cominciò poi a mettersi innanzi e prender di varie cure disperate che gli altri medici in cirugia avevano abbandonate. Ed andò sì fattamente la bisogna che essendo da buona fortuna aiutato, prese qualche credito appo i soldati i quali credevano che egli l’arte di cirugia a Padova od a Pavia avesse apparata; indi nacque che egli altresì si persuase d’esser cirugico. Onde veggendo che l’arte bene gli succedeva, a ciò che di più credito e maggior riputazione appo la plebe divenisse, si fece una veste da medico lunga sino a’ piedi e attese tuttavia a medicare, facendosi pratico a costo di poveri uomini. Finita poi la guerra e ridutta la città nostra sotto il dominio di San Marco, egli comprò una gran mula che oggidì cavalca, guarnita di velluto con le borchie brunite d’oro, e si vestì di scarlatto con una cuffia in capo che pare il protomedico de la cirugia. Diventato adunque il Boientis cirugico senza mai aver veduto notomia e tuttavia attendendo a medicare, avvenne che egli ne la contrada del Carmeno vide una fanciulla di forse diciotto anni assai appariscente e grassa, che aveva alquanto di gavocciolo, come quasi generalmente tutte le nostre donne o poco o assai ne hanno, ed anco gli uomini per l’ordinario hanno grossa la gola. Di questa giovane il Boientis estremamente s’innamorò, in modo che mostrando aver traffico in quel luogo, per veder la sua innamorata quattro e sei volte per la contrada passava, e quando la vedeva, – chè quasi ogni volta la vedeva, perchè su la strada filava a molinello, – la riguardava molto fisamente per farle conoscere che di lei fieramente era acceso, e traeva alcuni sospiri alti che dagli spagnuoli aveva imparati. Aveva la giovane, che Domenica si chiama, madre, che era una povera e buona femina e con far le bucate di qua e di là si guadagnava il vivere. Con la madre adunque parlando Domenica, le disse di questo amore che maestro Boientis le mostrava. La madre che vedeva il Boientis andar vestito molto onorevolmente ed altrimente di sua condizione non sapeva se non che era medico, essortò la figliuola a fargli buon viso, sperando con questo cavarne qualche cosa. Ora l’amante che aveva voglia d’altro che pascersi di vedere, le fece parlar da una vecchia, con prometterle gran cose se voleva divenir amorosa di messer lo maestro; ma la giovane non la volle intendere, dicendo che voleva servar l’onor suo. Il che intendendo il Boientis, ebbe ragionamento un dì con la madre, la quale avvertita già da la figliuola si mostrò molto ritrosa, con dirgli che più di simil fatto non parlasse. Egli che era veramente innamorato, si deliberò di prenderla per moglie, ed avuto stretto ragionamento con lei e con la madre, gli promise che la pigliarebbe per sposa; di che tutte due si mostrarono contentissime, parendole che il loro avviso avesse buon fine. Andò adunque un giorno il Boientis, essendo d’aprile, ed in presenza de la madre sposò legitimamente, quanto a le parole ed intenzione, la sua Domenica, e quel dì medesimo colse il frutto del suo fervente amore tanto affettuosamente quanto dir si possa. Così la tenne e con lei quasi ordinariamente si giaceva, in casa perciò di lei, trovando sue scuse se teneva il matrimonio segreto e non la menava a casa. Ma le mandava de la roba e le diede qualche danari e la vestì alquanto meglio di quello che ella era solita vestire. Perseverando adunque un tempo in questa pratica, la Domenica ingravidò. Ora essendo stato il Boientis circa undici mesi con lei, o che ella più non gli piacesse o fosse di lei sazio o che che se ne fosse cagione, un giorno disse a la suocera che non voleva la Domenica più per moglie, e che se aveva ardimento mai di dire ch’egli l’avesse sposata, che le farebbe far uno scherzo che non le piacerebbe. Le parole ed il rammarico de la madre e de la figliuola furono assai, ma il tutto fu indarno. La povera madre che si vedeva privata d’aita e di conseglio non sapeva che si fare, e tanto più si trovava di mala voglia quanto che, ad istanzia di Boientis, messer Antonio Martinengo, che sempre l’aveva favorito, la mandò a minacciare e bravarle su la vita se ella o la figliuola ardivano dir parola di questo sponsalizio. Ed a ciò che più facilmente tacessero, le fece il Boientis promettere venti ducati d’oro ogni volta che la Domenica pigliasse marito. La buona donna che si vedeva a mal partito, sentendo la promessa dei venti ducati si tenne per assai appagata e cominciò a cercar nuovo marito per la figliuola, e molto s’affrettò conoscendola già gravida. Onde gli fu messo per le mani un uomo giovine che stava con un armaruolo che lavorava a la fucina de l’arme; e fatto un poco di pratica, il matrimonio si conchiuse. Chiamavasi il giovine Gian Maria Rinovato, il quale sposata la Domenica, a casa per pulcella se la menò, che già era gravida di circa duo mesi. Il Boientis fu leale e attese la promessa e mandò i venti ducati a la donna, la quale in dote a la figliuola gli diede con alcun’altre cosette. Pareva al Boientis aver fatta una bellissima cosa e degna di gran commendazione, e non s’accorgeva il pazzerone che pagava uno che gli mettesse gloriosamente in capo l’arme de’ Soderini. Giacque Gian Maria con la Domenica ed al parer suo la prima notte che seco giacque si credette averla fatta, di vergine, donna. Ma egli s’ingannava, come molti altri fanno che pensano la prima volta che con le mogli si congiungono coglier la prima rosa del giardino, e di già infinite se ne sono spiccate. Ma io non voglio ora che entriamo nel farnetico di monna Licisca e di Tindaro. Faceva buona ed amorevol compagnia l’armaruolo a la Domenica, la quale gli diede ad intendere che la prima settimana che era giaciuta seco ch’ella era ingravidata; il che egli che non era però il più astuto uomo del mondo si credette e molto se ne rallegrò. Venuto poi il tempo del parto, gli fece la madre de la moglie credere che il figliuolo che nacque era di sette mesi. Il buon uomo fece grandissima festa del figliuolo, ed indi a pochi dì secondo il suo parere la ringravidò. Era passata la prima quadragesima, ne la quale il Boientis ancor che si confessasse, o si scordò o non volle confessar d’aver sposata la Domenica. Venuta l’altra quadragesima, andò il Boientis a confessarsi e trovato un venerando sacerdote a San Faustino, fu da lui domandato se aveva moglie. Egli non volle negar la verità e gli narrò come il fatto stava de la Domenica. Il santo monaco che era persona intelligente, conoscendo per le parole del penitente il contratto e consumato matrimonio esser vero e indissolubile, gli disse: – Figliuol mio, nè altri nè io in questo caso ti possiamo assolvere, se tu non ripigli tua moglie, la quale per quanto tu mi dici è tua leggittima sposa. E oltra di questo non ti posso anco assolvere perchè tu hai contratto il matrimonio nascosamente, e bisogna che tu vada a trovar il nostro monsignor vescovo. – Ora dopo molte parole, conoscendo il Boientis che il venerabil monaco gli diceva il vero e consegliava il suo bene, si dispose ad ubidirlo e gli promise che farebbe tutto quello che egli ordinava. Ed essendo ben disposto, senza dar indugio a la cosa se n’andò di lungo in vescovato, ed ebbe la licenza di farsi assolver del matrimonio che celatamente aveva contratto. Il dì poi seguente a buon’ora andò a la torre de la Palata, ove in bottega de l’armaruolo Gian Maria lavorava; e quello trovato, lo domandò fuor di bottega e gli disse: – Fratello, tu ai mesi passati sposasti la Domenica figliuola di Margarita Scartezzina, e a casa te l’hai menata come tua moglie e così la tieni. Ma ella non è tua moglie nè può essere e tu sei errato, perchè io di molto tempo innanzi a te, quella in presenza di sua madre sposai e seco più e più mesi mi sono giaciuto. Ora io non posso confessarmi se non ritoglio mia moglie; il perchè ti prego che tu mi voglia render la donna mia come è il debito, e far di modo che non vegnamo a romore, perchè io t’assicuro che voglio mia moglie per ogni modo. – Il buon uomo a cui la Domenica era sommamente cara e di lei si teneva benissimo sodisfatto, udendo così strano e nuovo ragionamento quasi stordì. Pure, fatto buon animo, in questo modo rispose: – Maestro, per Dio vi prego, non mi beffate e non mi dite queste ciancie, ch’io non son uomo da star su queste baie. Io ho sposata la Domenica in presenza d’assai buone persone che furono testimonii ed holla sempre trovata onesta e buona donna, e son certo che ella non fece mai male de la persona sua con voi. Lasciatemi fare i fatti miei e non mi date noia. Ed al corpo che non vo’ dire, egli non sta bene a dir queste cose che dite. Andate per i fatti vostri. – Il Boientis a cui poca levatura bisognava, cominciò a riscaldarsi sul fatto e dir con voce collerica che voleva alora alora sua moglie e diede del «ghiotto» per la testa e del «becco» a Gian Maria, il quale subito mentendolo per le canne de la gola, alzò il pugno e gli diede sul muso un gran punzone, con quelle sue mani callose dal continovo martellare che averebbero schiacciate le noci sovra un letto. Il Boientis essendo con la toga lunga indosso e non si potendo troppo ben aiutare, fu stranamente da l’armaruolo carmignato senza pettini, il quale datogli di molte pugna e convolto nel fango, fu cagione che molti al romore traessero, i quali con gran fatica tutto rabbuffato glielo levarono di mano. Nè per questo cessava il buon medico di bravare e dire che voleva la moglie, minacciandolo di cavargli il cor del corpo. Quelli che al romore erano corsi, udendo di che cosa era nata la questione ne cominciarono senza fine a ridere, e ser capocchio Boientis narrava a tutti la favola dicendo: – Questo becco cornuto non mi vuol rendere mia moglie, ed io la voglio mal grado ch’egli n’abbia. Tu me la darai, beccone che sei. Sì farai al vangelo di san Marco d’oro. Credi tu ch’io voglia sopportare che un par tuo goda la mia donna? Io la voglio, intendemi bene, e ti farò costar caro ciò che fatto m’hai. – Pensate se queste pappolate davano da rider a la brigata, non s’accorgendo egli che faceva come coloro che sputano contra il cielo e lo sputo gli cade in faccia: egli appellava Gian Maria «becco» e non s’avvedeva che questo era suo proprio nome. Andò così mal concio il medico a casa, ed assettatosi a la meglio che puotè, si presentò a monsignor lo vescovo e propose la sua querela. Il vescovo ordinò che il vicario facesse ciò che di ragione era da fare. Il che il vicario fece diligentissimamente, e citate le parti e datole conveniente termine a provar le lor ragioni, poi che il processo fu autenticamente finito, col conseglio d’alcuni dottori che aveva chiamati, pronunziò sedendo pro tribunali, ed a Gian Maria comandò che restituisse la Domenica al Boientis, ma che si ritenesse i venti ducati per le spese che fatte le aveva; e così come egli tolse la Domenica gravida del Boientis medesimamente che il Boientis la ripigliasse gravida di lui, a ciò che la cosa andasse di pari. Il nato figliuolo fu giudicato al Boientis; o maschio o femina che nascesse, a Gian Maria; e che tra i dui rivali si facesse pace: il che si fece. Il Boientis tutto allegro de la vittoria si vestì di scarlatto e si mise una cuffia nuova in capo a ciò che il cimiero non si vedesse, e con gran festa a casa si menò la moglie ed il figliuolo, la quale indi a pochi mesi partorì un altro maschio che a Gian Maria fu dato. Nè per questo è men cara al medico la moglie, anzi per bella e buona se la tiene, credendosi aver beffato la madre di lei e Gian Maria. Ed a chiunque gliene parla narra tutta l’istoria così allegramente, come se avesse trovato un ricco tesoro; e non s’accorge, il povero uomo e stroppiato del cervello, che egli è restato con la vergogna e beffe e col danno dei venti ducati.
Io credo certissimamente che se mille volte il dì si ragionasse degli strabocchevoli casi che per l’irregolato amore occorreno e degli errori che gli uomini accecati da la pungente passione de l’ira commettono, che tutto il dì alcuna cosa nuova ci sarebbe da raccontare. Onde questi giorni essendo ne la contrada di Brera, nel giardino amenissimo e bello del nostro dottore messer Girolamo Archinto, una buona compagnia di gentili spiriti, e dopo alcuni ragionamenti di cose di lettere essendosi entrato a ragionar dei casi amorosi, il signor Cesare Triulzo, giovine di buone lettere e d’ottimi costumi ornato, la cui conversazione quanto più è frequentata vie più diletta e più si desidera, lasciando sempre più desiderio di sè ne l’ultimo che nel principio non promette, narrò al proposito di cui si parlava una istorietta piena di compassione e di pietà. E perchè mi parve degna di memoria e da porre innanzi agli occhi a coloro che si fanno lecito tutto quello che loro a l’appetito viene, non considerando se bene o male gliene può avvenire, io la scrissi per metterla insieme con l’altre mie novelle, come ho fatto, sotto il vostro nome, sapendo io quanto sempre sin da fanciullo amato m’avete e fattomi tutti quei piaceri che sono stati possibili. Voi in questa novella vederete quanti danni vengono dal non sapersi governare e non voler talora porre il fieno a la turbulenta, fervida e precipitosa ira quando ci assale. Non nego già che la vendetta negli animi fieri non sia cosa dolce e di grandissima sodisfazione, quando regolatamente si fa; ma dico che io mai non vorrei cavarmi un occhio per cacciarne dui di testa al mio nemico, piacendomi molto più il generoso animo di Giulio Cesare, perpetuo dittatore, che fu il primo che partorì l’imperio romano; il quale mai cosa veruna non si smenticava se non l’ingiurie e molto facile era a perdonarle. E veramente se per vendicar la morte del fratello, figliuolo o amico, il morto si potesse ritornare in vita o una ricevuta ingiuria fare che fatta non fosse, io direi che senza rispetto veruno l’uomo devesse vendicarsi. Ma non seguendo nessuna di queste cose, mi par che prima che si venga a giunger male a male, l’uomo deverebbe molto ben discorrere il fine che ne può seguire; e tanto più che essendo cristiani e volendo esser degni di sì glorioso nome, debbiamo esser imitatori di Cristo che il perdonar ai nemici ci comanda. Ma io non voglio più oltra dire, perciò che a scrivervi non mi mossi per predicare ma per mandarvi questa istoria. State sano.
Egli in effetto è gran cosa che ordinariamente il più dei nostri ragionamenti si veggiano cascare a parlar dei casi amorosi, e massimamente quando il nostro vertuoso messer Gian Battista Schiaffenato ci è di compagnia, che sempre ha alcuna bella rima amorosa o epigramma o elegia de le sue dotte composizioni da recitare. E perchè s’è detto che un innamorato mai non deverebbe adirarsi, dico che l’adirarsi in ogni cosa sta male, quando il furor de l’ira adombra il lume de la ragione, perchè il più de le volte l’uomo che da l’ira è vinto fa strabocchevoli errori che poi così di leggero non si ponno emendare, come in una mia istoria che raccontarvi intendo, apertamente vedrete. Si vuole l’uomo adirare ne le cose mal fatte, ma con temperamento, non lasciando trascorrer la còlera fuor dei debiti termini. Se mi dirà alcuno che sia cosa più facile a dire che a fare, io lo confesso; ma ben gli ricordo che la vertù consiste circa le cose difficili, e dove ne l’operare è maggior difficultà quivi è la gloria maggiore. Ora venendo a la narrazione de la mia novella, devete sapere che, non sono molti anni, ne la famiglia dei Trinci, al tempo che Braccio Montone e Sforza Attendulo capi de la milizia italiana fiorivano, furono tre fratelli, chiamati il primo Niccolò, Cesare il secondo e l’ultimo Corrado. Tenevano costoro il dominio di Foligno, di Nocera, di Trevio e di molte altre terre nel ducato di Spoleto, e quelle con fratevole amore governavano, non si curando altrimenti dividere il nobil e ricco stato. Avvenne che andando assai sovente Niccolò da la città di Foligno a quella di