Novelle (Bandello, 1853, II)/Parte I/Novella LII

Novella LII - Bellissima vendetta che fece uno schiavo della morte del suo Soldano contra un malvagio figliuolo di quello
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NOVELLA LII
Bellissima vendetta che fece uno schiavo de la morte del suo soldano contra un malvagio figliuolo di quello.


Scrive nel suo Itinerario Lodovico Vartomanno romano, ed io anco navicando per quelle contrade intesi dire, come in Etiopia è una città nomata Ormo, la quale è un’isola lungi da terraferma circa dodeci miglia, ove è una bellissima pescagione di perle preciosissime. Di questa città era soldano, al tempo che Lodovico per quel paese passò, uno che era de la setta maomettana, il quale aveva undici figliuoli maschi. Dei quali il minor d’età era riputato mezzo matto; ma il maggior di tutti era di sottilissimo ingegno, astuto e sopra modo malizioso, molto più inchinato al male che al bene. Aveva altresì questo soldano dui schiavi comprati, i quali erano del reame del prete Gianni che è prencipe così famoso e ricco. Questi per aver sempre fedelmente servito il soldano e verso lui dimostrato una fedele ed amorevol servitù, erano da lui fatti ricchissimi ed amati quasi a paro dei figliuoli, ed appo il popolo per la buona natura loro in grandissimo credito si trovavano, cercando compiacer a tutti e non dar nocumento a persona. Era il soldano vecchio, ma d’una vecchiezza robusta e molto vivace, e pareva che ancora devesse viver un’età. Il che considerando il suo figliuol maggiore che era ambizioso e appetiva di farsi signore, non potendo aspettar il natural corso de la morte del padre, con l’aiuta d’alcuni suoi scelerati come egli era, prese il padre, la madre e tutti i fratelli, eccetto il minore il quale niente stimava, e a tutti cacciò gli occhi del capo senza punto aver di loro pietà; nè contento di così crudel sceleratezza come fatta aveva, fece i fratelli accecati condurre in quella camera dove il padre e la madre miseramente piangevano la lor cecità. Quivi fece egli accender un gran fuoco, di maniera che i poveri parenti e i fratelli suoi a cui gli occhi aveva cavati, tutti crudelissimamente ardendo fece morire. La matina, publicatosi sì nefando e scelerato parricidio appo gli uomini de la contrada, fu fatto un gran tumulto; ma essendo lo sceleratissimo parricida impatronitosi de la fortezza, fu senza contrasto creato soldano. Il minimo fratello inteso il fatto, non come pazzo e scemonnito ma come saggio se ne fuggì dentro il tempio che appo coloro è in grandissima riverenza, e sempre fu conservato libero da ogni violenza; e quivi come vendicatore de la sceleratezza nei parenti [p. 141 modifica]e fratelli commessa se ne stava, gridando tuttavia ad alta voce: – O dèi buoni, non vedete voi come il mio fratello è divenuto un pessimo demonio? Egli ha morto il padre e la madre e tutti i fratelli e senza pietà alcuna arsi, e voi sopportate che regni? – Così stava gridando il misero giovinetto, ma nessuno a vendicar tanto enorme peccato si moveva, ed egli del tempio uscir non ardiva, perchè subito il crudel fratello l’averebbe fatto ammazzare. Quivi adunque dai sacerdoti nodrito se ne stava, piangendo la sua infelice fortuna. Ora, passati circa quindeci giorni dopo il commesso parricidio ed ogni tumulto essendo cessato, il crudel soldano, parendogli esser mezzo confermato nel dominio, deliberò levarsi dinanzi gli occhi coloro dei quali poteva ragionevolmente temere. Onde mandò a domandar il più vecchio dei dui schiavi che tanto dal padre erano amati, che Maometto si chiamava. Arrivato Maometto a la presenza del signore, gli disse: – Che mi comandi, signor mio? – Alora disse il crudel tiranno: – Non vedi ch’io son soldano di questo regno? – Il veggio, – rispose Maometto, – ma che mi comandi che a tuo servizio da me far si possa? Eccomi prontissimo per ubidirti. – Il soldano alora, in segno di grandissima domestichezza presolo per la mano, cominciò a fargli molti vezzi e dopo gli disse: – Vedi, Maometto, se tu farai ciò che io ti comanderò, tu sarai appo me in quello stesso credito che tu eri appresso mio padre. Va ed ammazza il tuo compagno, ed io subito ti farò signore di sette castella di questo mio regno. – A questo fiero comandamento Maometto in questo modo rispose: – Signor mio, io sono stato trenta anni continovi suo amorevol compagno, e sempre siamo vivuti insieme come fratelli. A me non darebbe mai il core di commetter sì fatta sceleraggine, e porto ferma openione che volendolo ferire che il ferro di mano mi caderebbe. – Sentendo questa non sperata risposta disse il soldano: – Ora sia con Dio. Lascia stare, chè in altre cose poi ti adoprerò. – Passati tre giorni dopo questo, il soldano celatamente fece a sè chiamare Caim, che era l’altro schiavo compagno di Maometto, e gli disse: – Caim, io mi sento molto offeso da quel ribaldo di Maometto e ho deliberato che non viva. E perchè in questo non ci è nessuno che meglio di te servir mi possa, non si guardando egli dai fatti tuoi, io vo’ che tu come prima potrai l’ammazzi; e come l’averai ucciso, vieni a trovarmi, ed io ti prometto donarti sette castella e farti il mio più favorito ch’io abbia. – Caim non pensando più avanti, con lieto viso disse: – Sia fatto, signor mio, ciò che tu comandi. Lascia la cura a me ed io senza fallo ti leverò di fastidio. – [p. 142 modifica]Si partì Caim, ed andato a la sua stanza s’armò sotto panni, e s’inviò verso la casa di Maometto per metter ad essecuzione il comandamento de l’empio padrone. Ma perchè di rado una sì fatta sceleraggine mal si può celare, egli era tutto in viso cambiato. Onde come Maometto lo vide, subito s’imaginò il fatto com’era, e con fiero e turbato volto gli disse: – Ahi traditore scelerato, tu vieni per ammazzarmi, io lo so; ma la non ti anderà fatta come tu pensi. – Si scusava Caim e negava non esser venuto a così fatto effetto. Ma l’altro che vedeva il segno del mutato volto: – Come puoi negarlo? – gli disse, – non veggio io apertamente nel tuo viso la sceleratezza che vieni per fare? Or via, tu sarai pur quello che da me sarai senza pietà alcuna ammazzato. – Era Maometto molto più gagliardo di Caim e uomo di grandissimo core. Onde Caim dubitando di lui, ai piedi di quello gettò la spada che a lato aveva, e lagrimando confessò come per comandamento del nuovo soldano era venuto per ammazzarlo, e che per questo con quella stessa spada, che egli voleva ammazzarlo, che a lui desse ne’ fianchi, perchè meritava ogni male. Maometto alora così gli parlò: – A nessuno deve essere dubio che tu non sia un pessimo traditore, perciò che essendo stato più di trenta anni meco in un medesimo albergo e da me non essendo mai stato offeso, anzi avendo ricevuti mille piaceri, m’abbi ad instanzia d’altri voluto uccidere. Ma io non voglio usar teco quel castigo che meriti e che altri forse teco usarebbe. Adunque poi che io ti perdono, saperai che questi giorni passati questo crudelissimo parricida mi comandò che io ti uccidessi, promettendomi premii grandissimi a fine che il suo voler mandassi ad essecuzione; il che io apertamente gli negai. Ora se tu farai per mio conseglio, tu anderai a trovar il tiranno e gli dirai come son da te stato morto e che ti voglia dar il premio che t’ha promesso. – Andò Caim a trovar il soldano, il quale come lo vide, subito gli disse se aveva morto l’amico, come imposto gli aveva. – Il tutto s’è essequito, – rispose Caim, – perchè io l’ho ucciso. – Il soldano alora mostrando di voler festeggiare Caim, gli gettò al collo il braccio sinestro e con la destra cacciato mano ad una daga, gliela ficcò nel petto e se lo fece cader morto ai piedi. Nè guari dopo stette l’ardito Maometto che benissimo armato andò ed entrò in camera del soldano. Subito che il soldano lo vide, in vista fuor di misura turbato gli disse: – Ahi can figliuolo di cane, tu sei vivo? tu vivi, traditore? – Io vivo, – rispose arditamente Maometto, – e vivo in dispregio dei casi tuoi, perchè con l’aiuto di Dio ho deliberato [p. 143 modifica]come meriti d’ammazzarti e far di te quello strazio che a la tua scelerata e trista vita si conviene, per fare in parte vendetta de la morte dei tuoi parenti e fratelli. – Il dir queste ingiuriose parole ed il cacciar mano a la spada fu tutto uno. E così diffendendosi il soldano quanto più poteva a la meglio che sapeva, si cominciò la mischia tra lor dui. Gli uomini del soldano ai quali la sceleratezza e crudeltà da lui commessa era in odio e desideravano che egli fosse morto, in soccorso di quello punto non si mossero, anzi andarono chi in qua chi in là, lasciando il crudel padrone ne le mani a Maometto, che sapevano esser de la persona molto prode ed animoso, di modo che dopo breve contesa lo scelerato soldano fu miseramente per le mani di Maometto tagliato a pezzi. Fatto questo, egli subito col favore del popolo occupò il real palazzo e dispose le guardie ove più gli parve conveniente. E perchè egli era carissimo a la moltitudine, fu da tutto il popolo salutato soldano. Accettò il dominio Maometto, e cominciò con grandissima giustizia ed umanità a governar lo stato e disporre il tutto prudentissimamente. Ed avendo circa un mese governato e il tutto ridotto ad ottimo termine, un giorno fatta sonar la trombetta, fece congregar tutto il popolo, così quello d’Ormo come anco i mercadanti e stranieri che vi si trovarono. Ed essendo tutti per comandamento suo congregati, egli in mezzo de la moltitudine ascese in alto e in questa forma a tutti parlò: – Sapete molto ben tutti voi che qui congregati sète, come io non sono di questa isola, ma fui comperato schiavo già molti anni passati dal padre di quel ribaldo tiranno, che io con l’aiuto di Dio ho ammazzato. Sapete anco il buon trattamento che il mio signor sempre mi fece, al quale io fedelissimamente sempre ho servito. Ora lo scelerato figliuolo, non figliuolo ma demonio incarnato, tratto da l’ambizione del dominare e non volendo attender il natural corso de la morte paterna, impaziente d’aspettare commise la nefanda e inaudita sceleratezza che a tutti è nota. E quantunque il debito mio volesse che io del mio caro padrone facessi vendetta, nondimeno io non ci pensava, disposto di lasciar far a Dio quello che più gli fosse piacciuto, non mi parendo esser bastante a cotanta impresa. Ma l’insaziabil tiranno, non contento di quanto commesso crudelmente aveva, cercò d’ammazzarmi. – E quivi narrata tutta l’istoria di lui e di Caim suo compagno, soggiunse: – A me parve che Dio mi mettesse in animo che io devesse liberarvi da le mani di così empio e scelerato signore. Il che essendomi successo, mi pare che il dominio si debbia [p. 144 modifica]render a colui al quale dirittamente appartiene. Onde vi prego che vogliate esser contenti che io restituisca il dominio al figliuolo del mio signore, del quale è di ragione, come del vero è solo erede del padre. Io ho di modo acconcie le cose che egli potrà leggermente il tutto governare. – A Maometto consentì ciascuno, e così lietamente fu levato del tempio il giovine ultimo figliuolo del soldan vecchio e creato soldano, con questo perciò che Maometto fosse governatore. Degno veramente è questo Maometto d’eterna memoria, a cui pochi pari si trovarebbero che essendo fatti signori cercassero d’imitarlo. Ma egli come uomo da bene fece molto più stima de la ragione che de l’util proprio.


Il Bandello al molto magnifico signore il signor Pietro Margano


Ebbi non è molto lettere da Roma da mio padre, il quale mi scrive de la gratissima accoglienza che voi fatta gli avete con tante cortesi offerte, il giorno che egli era venuto a far riverenza a l’illustrissimo e reverendissimo signor Pompeo Colonna cardinale mio signor e padrone. Io aveva assai largamente, quando voi eravate in Milano con il nostro commun padrone l’eccellentissimo signor Prospero Colonna, conosciuto ed esperimentato la cortesia vostra ed insieme la liberalità e quanto sète magnanimo; il che mi v’aveva reso infinitamente ubligato. Ma ora ciò che fatto avete a mio padre, che fuoruscito di casa sua senza punto di colpa se ne dimora in Roma, m’è così entrato nel core, e tal nodo ha agli altri oblighi aggiunto che io confesso non esser possibile che uomo al mondo, per qual ricevuto beneficio che si sia, possa trovarsi più obligato di quello che io sono al mio magnanimo e nobilissimo Margano. E perchè, come altre volte in Milano vi dissi, in me forze non sono per sodisfar a cotanti e così estremi oblighi, non so io che altro fare se non che per fuggire l’abominevol vizio de la ingratitudine mi confessi debitore, ed ove il poter non è, mostri almeno l’animo esser pronto e grato. Il che con questa mia faccio. Ora se non fosse che da me la grandezza de l’animo vostro è [p. 145 modifica]conosciuta, io mi sforzarei con belle ed accomodate parole, quanto più mi fosse possibile di ringraziarvi. Ma io so che vie più stimate far piacer ed utile a qualunque persona si sia che da altri riceverne. Nondimeno a ciò che possiate vedere che io di voi sono ricordevole, v’ho scritta questa mia che con una de le mie novelle ho accompagnata, non m’essendo uscito di mente quanto volentieri, quando eravamo insieme, leggevate le cose mie. Questa novella ch’io vi mando non è molto che in una onorevol compagnia, ragionandosi de le beffe che fanno le donne ai lor mariti, fu narrata da Messer Scipione Pepolo, disceso da messer Giovanni Pepolo, dal quale il signor Bernabò Vesconte per molte migliaia di ducati comprò Bologna in quei tempi che la Chiesa romana risedeva in Avignone. Essa adunque novella al nome vostro scrivo e consacro come frutto nato da uno che è tutto vostro. State sano.


NOVELLA LIII
Beffa fatta da un contadino a la padrona e da lei al vecchio marito che era geloso con certi argomenti ridicoli.


Infiniti veramente son quei modi che le donne usando quando, non ben contente di quel di casa, che loro non pare a sufficienza, ricercan di fuora via proveder ai casi loro; infiniti, dico, sono i modi con che i mariti si trovano ingannati. E ben che ciò che io ora vi vo’ dire possa esser stato da voi inteso, nondimeno ove egli sia avvenuto non intendeste forse già mai. Il che intendo io ora di dirvi se m’ascoltarete, come ho fede in voi, portando ferma openione che il mio dire vi porgerà diletto. Devete adunque sapere che al tempo del glorioso duca di Milano il duca Filippo Vesconte, fu in Pavia una giovane de la famiglia de’ Fornari, che fu maritata in un messer Giovanni Botticella dottore che era d’età di cinquanta anni e più; il quale essendo molto savio per lettera, perchè era legista famoso e dottissimo, a me pare che per volgare si fosse mostrato molto pazzo, entrando in quella età nel farnetico di prender moglie e pigliarla giovane di meno di vent’anni. Ma se i savii talora non errassero, i pazzi si disperarebbero. Era la giovane, che Cornelia aveva nome, assai appariscente, con viso assai bello e ben fatto, se ben non era il più angelico del mondo; ma tanto era piacevole e baldanzosa e tanto ardita che più esser non poteva. Del che messer lo dottore in breve avvedutosi, tardi