Novelle (Bandello, 1853, I)/Parte I/Novella XXIII
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Sì come chiaramente è noto, la terra nostra di Castelnuovo è posta non molto lontano da le radici de l’Apennino, a la foce ove Schirmia scarca le sue per l’ordinario limpidissime acque in Po. Quivi è l’aria tanto temperata quanto in altro luogo di Lombardia. Del che fanno fede amplissima i molti uomini vecchi che vi si truovano e la sanità che di continuo vi persevera, perciò che molto di rado suol avvenire che straordinarie infermità vi regnino. E, tra l’altre, non ci è memoria che in nessuno di quella patria mai si ritrovasse gotta, se forse altrove non sono andati ad abitare. Io mi ricordo, quando era fanciullo, che per miracolo vedeva messer Pietro Grasso, il qual, essendo nato di madre milanese a Milano ed in Milano nodrito, ne la sua vecchiezza venne a fare il rimanente de la sua vita a Castelnuovo, così mal concio de la gotta, che non poteva andare nè aiutarsi de le mani, ma se ne stava sempre a sedere; e conveniva che dai servidori in qua ed in là fosse portato, perciò che aveva i piedi gonfi, stravolti e da le gomme nodose resi assiderati ed attratti, e le mani in modo guaste ed i nodi de le dita di sorte aggroppati e fatti gonfi, che parevano carchi di nespole. Da l’altra parte poi, tra i molti vecchi che ci erano, i quali o arrivavano ai cento anni o gli passavano, io vedeva ogni giorno Giacomo de la famiglia dei Secondi, che, per quello che egli ed altri affermavano, passava cento quindici anni, e nondimeno era la sua vecchiezza sì forte e prospera, che per tutto caminava assai dritto de la persona e con la sua vista ancora chiara ed acuta. Ora io, che mi dilettava di fuggir il disagio più che io poteva ed imitare le grui e le cicogne, soleva, come più in destro mi veniva, nel tempo de la state andare o in Valtellina a goder que’ freschi di Caspano e dei Bagni del Masino, o vero mi riduceva a Castelnuovo ne le case di mio padre, ove di luglio le notti sì fresche erano che io, che altrove a quei tempi non poteva lenzuolo sopra di me sofferire, quivi tutta la notte dormiva con una buona coperta a dosso, ed il giorno in una saletta terrena senza sentir caldo quel noioso tempo trapassava, avendo sempre compagnia d’amici nostri e di parenti. Avvenne che messer Gian Guglielmo Grasso, uomo costumatissimo e molto letterato e che de la lingua volgare si diletta, mi diede un giorno desinare in casa sua, presso la chiesa dei Servi, ove si trovarono altri di compagnia. Passato il desinare, s’entrò a dire de la guerra civile che ai tempi degli avoli nostri fu tra i dertonesi e loro, per cagione de l’acque del ruscello che fa il molino di Gualdonasce, e da questo ragionamento si travarcò a ragionar de la fondazione de la patria nostra, essendoci chi voleva che l’origine sua da’ goti venisse, ed altri affermano che da’ longobardi fosse stata fondata. Io alora dissi quanto me n’occorreva. Onde si conchiuse che gli ostrogoti insieme con una banda di soldati romani che nel principio del regno di Teodorico sotto di lui militarono prima che egli a Roma levasse l’armi, furono quelli che Castelnuovo fondarono. Dopo questo, cominciandosi ad investigare quali fossero le famiglie discese dai romani e quali quelle che vennero dagli ostrogoti, e dicendone chi una e chi un’altra, messer Bonifazio Grasso, fratello di messer Gian Guglielmo, interrompendo il parlare, narrò una novella accaduta nel principio de la edificazione de la detta nostra patria, la quale fa generalmente da tutti commendata per l’astuzia che usò una fanciulla in uccellar la sua nutrice a ciò che non si scoprisse il suo amore. Io, ritornato a casa, essa novella scrissi e posi appresso l’altre già da me scritte. E a questi dì, rivolgendo le reliquie dei miei libri e scritti che da la preda che fecero i soldati spagnuoli ne la mia libraria mi sono rimasi, mi venne tra l’altre cose a le mani questa novella, la quale, volendo io secondo che le truovo ridurre in un colpo insieme, m’è parso di donarvi questa sotto la tutela del vostro nome, portando ferma openione che, come disse messer Bonifazio, il giovine del qual si parla in essa novella fosse quello che diede origine a la nostra famiglia. Non è adunque da meravigliarsi se la maggior parte degli uomini del nostro legnaggio così sovente e così volentieri si lasciano ne l’amor de le donne irretire, poi che il capo del ceppo nostro fu sì amoroso e a le passioni d’amore soggetto. E nel vero questa amorosa passione è tanto piacevole, tanto dolce, tanto dilettevole e tanto per l’ordinario radicata negli animi degli uomini gentili, che non val forza, non sapere, non santità, nè qual altro ingegno sia al mondo per potersene guardare. Di più poi, se per sorte s’appiglia in rozzo core e di basso sangue, è tanto il valore e poter suo, che quel core innalza, purga e trasforma in altre qualità e lo rende nobilissimo, come già più e più volte per prova s’è veduto. Resterà adunque questa novella eternamente sotto il nostro nome, se tanto gli scritti miei dureranno, i quali io pure scrissi a ciò che perpetuamente durassero. Vi dirò ciò che ora mi sovviene. Devete sapere che nel martirologio ecclesiastico si legge che del mese d’aprile a Nemausio in Francia, che ora Nimis si appella, fu martirizzato per la fede san Bandello goto. Il che mi fa credere questo nome Bandello esser stato antico appo la nazione dei goti. State sano.
Come, per mio parere, saggiamente s’è conchiuso, i romani e i goti furono i primi che questa nostra patria edificarono, la quale dopoi fu ampliata da’ longobardi nel tempo che Luitprando re longobardo fece il corpo di santo Agostino condur per mare da l’isola di Sardegna a Genova, e da Genova a Pavia. De la edificazione santo Cassiodoro ne fa testimonio, e de l’ampliazione, oltra gli antichissimi scritti che io ho veduto in mano d’Enrico Bandello che il tutto minutamente narrano, si vedeno ancóra le vestigie de le fosse vecchie e d’alcuni ponti. Mi mostrò anco esso Enrico il privilegio autentico d’Ottone, primo di questo nome imperadore, ove egli, essendo a Pavia, prese per moglie Aluida, che era nel primo matrimonio stata consorte di Lotario re d’Italia. In esso privilegio si vede come Ottone a la famiglia Bandella sovra le sei bande de l’insegna loro donò l’aquila, ed oltra a questo gli fece signori di questa terra di Sale e di Caselle, la qual signoria pacificamente mantennero fin che furono le guerre civili tra i Vesconti e quelli de la Torre. E per esser una madonna Agnese Bandella maritata in messer Bernardo da la Torre, seguitarono alora i Bandelli la parte dei Turriani, ed essendo essi Turriani da’ Vesconti cacciati del dominio de la Lombardia, furono anco i Bandelli privati de la signoria de le lor terre, nè mai quella ricuperarono. Non è ancor molto che frate Girolamo Beladuccio de l’ordine minore, maestro in sacra teologia, essendo io in san Francesco, mi condusse nel giardino del monastero e poi a la sua camera. Quivi, avendo egli le chiavi degli archivii del convento, mi fece veder un instrumento scritto in carta pecora, fatto quell’anno a punto che san Francesco fu canonizzato, nel quale si contiene come sette gentiluomini Bandelli, là dentro nominatamente espressi, domini e condomini di Castelnuovo, Sale e Caselle, de la piena autorità e possanza loro donarono a frate Ruffino, stato compagno di san Francesco, tutto il terreno ove oggidì è posta la chiesa e il convento d’essi frati minori, e di più li donarono otto mila libbre d’imperiali per edificar il monastero. Piacquemi molto aver vedute queste antichità, e di già ne ho parlato con Enrico Bandello e mostratogli il modo che deve tenere a ricuperar il detto instrumento. Questo tanto ve ne ho voluto dire per i parlamenti che stati sono tra voi de l’antichità di questa terra e de le famiglie di quella, con animo di narrarvi un’amorosa novella che in questa nostra patria avvenne nel tempo che s’edificava, parendomi che questa ora del giorno debbia esser dispensata in ragionamenti piacevoli e non in disputazioni. La novella io già vidi in un antichissimo libro scritto a mano ove erano molte cose de le antichità de la nostra terra, ed il libro era de l’eccellente dottor di leggi che tutti conosciuto abbiamo, messer Gasparo Grasso. Dico adunque che nel principio de l’edificazione de la terra nostra, essendo stati i circonvicini campi distribuiti ai soldati veterani che dei romani ed ostrogoti vi si trovarono, fu tra gli altri di nazion gota un Velamiro, uomo molto stimato e de la persona prode; il quale, avendo lungamente sotto Teodorico militato e sempre portatosi bene, meritò che ne la divisione agraria fosse preferito agli altri, di modo che si trovava molto ricco. Venendo costui a morte, lasciò di tutti i suoi beni erede un suo unico figliuolo che Bandelchil era nomato, dal quale la famiglia dei Bandelli ebbe il suo principio. Era Bandelchil giovine ne la nazione sua nobilissimo, e perchè il padre oltra le possessioni gli aveva lasciato molti danari e spoglie grandissime che per tutta Italia aveva guadagnato, spendeva egli largamente ed a’ goti poveri nei loro bisogni molto spesso provedeva. Il perchè generalmente era amato e riverito e quasi capo de la nazion sua. Avvenne che, veggendo egli un giorno una giovane di quindici in sedeci anni, la quale era oltra misura bella, di lei sì fieramente s’innamorò e tanto agli occhi suoi piacque, che non sapeva da tal vista levarsi; e non se ne accorgendo, a poco a poco sì fattamente vinto dal piacer di mirarla si sentì da le bellezze di quella preso, che ad altro non poteva nè sapeva rivolger l’animo. Erano tutti in chiesa quando ei la vide. Partita che fu la bella fanciulla, rimase Bandelchil pieno di varii pensieri, non avendo mai più per innanzi provato questa dolce passione d’amore. Se n’andò a casa ed entrato in camera, tutto solo cominciò a pensare a le bellezze de la veduta fanciulla, le quali stimava più tosto divine che umane; e sì sovrapreso da infinito piacere si sentiva pensando a quelle, che ogn’altro pensiero gli era di mente uscito. Passava di gran pezza l’ora del desinare, quando veggendo quei di casa che il padron di camera non usciva, non sapevano che farsi. Pur uno di loro, entrato dentro, gli fece intendere l’ora del desinare esser passata e le vivande guastarsi. Se n’uscì Bandelchil e, data l’acqua a le mani, si mise a tavola. Ma che? Egli era sì profondato nei suoi pensieri amorosi che niente o ben poco mangiò. Era suo costume star allegramente, e quando desinava o cenava di varie cose ragionare. Alora egli parola non disse già mai, ma, presi dui o tre bocconi, da mensa si levò e rientrò in camera, tuttavia avendo negli occhi de la mente la veduta fanciulla. Restarono i suoi de la casa pieni d’ammirazione veggendo questo insolito modo di vivere; di modo che, non sapendo che altro imaginarsi, pensarono che egli fosse de la persona mal disposto. Non vi fu perciò chi ardisse domandarlo che cosa avesse o se si sentiva male. Egli tutto quel giorno non uscì di camera ed a la cena fece come al desinar fatto aveva. La notte poi, non potendo per via alcuna dormire, ma sempre con la mente e con i pensieri essendo fitto in contemplar la sua bella fanciulla, diceva tra sè: – Onde mi vien questo che io sia tanto immerso in pensare a la beltà de la giovane che stamane vidi in chiesa, che a cosa altra che sia non possa piegar la mente? Io non so chi la giovane si sia, se è nobile o no, se è gota o romana. Ma che dico io, sciocco ch’io sono? Debbo io dubitar già mai che ella non sia nobilissima? Ella certissimamente non può esser se non nata di nobilissimi parenti. E come averebbe Iddio posto tanta bellezza e tante meravigliose doti in persona vile? E quantunque ella si ritrovasse nata di parenti ignobili, se Dio l’ha fatta nobile e dotata di tante vertù, chi sarà oso chiamarla ignobile? Se è romana scesa di sangue romano, questo le basta a renderla nobilissima. Se è di stirpe gotica, ella non può esser se non figliuola di soldato, e la milizia nobilita chiunque segue l’arme e quelle lodevolmente essercita. Sì che io non debbo temere di ricever onta se costei amo. – Questo tanto discorreva tra sè l’appassionato ed amoroso giovine, perciò che appo i goti era approvata consuetudine che nessun nobile si devesse non solamente non maritare con donna ignobile, ma era riputato biasimo grande a chi, nato di stirpe nobile, carnalmente si mischiasse con donna di basso legnaggio. Ora, stette tutta la notte il tormentato giovine in lunghi e varii pensieri, e quanto più pensava, tanto più sentiva accendersi de l’amore de la veduta fanciulla. Onde, venuto il nuovo giorno, bramoso egli di sapere chi fosse il padre di quella, ebbe la fortuna in questo favorevole, perchè, andando per la terra a diporto, vide la sua innamorata ad una finestra ne la contrada di Tavernelle, la quale, o a caso o come si fosse, a pena fu veduta che si ritirò dentro. Egli, conosciuta la giovane e spiato di cui la casa fosse, intese il padrone di quella esser goto e chiamarsi Clisterdo e la fanciulla Aloinda. Piacque assai al giovine aver ritrovato quella esser nobile ed il padre suo uomo di gran stima, il quale alora a Ravenna appo Teodorico si ritrovava. Cominciò adunque a passar molto spesso per la contrada, e quando o in porta o a le finestre la vedeva, le mostrava con gli occhi come per lei miseramente ardeva, e molto tempo perseverò di questa guisa. Tuttavia, che che se ne fosse cagione, egli mai non le fece motto nè con messi o ambasciate, nè con lettere mai se le scoperse che per lei ardesse. Ella medesimamente, nulla de l’amor di lui mostrandosi accorgere, sembiante nessuno faceva che di quello le calesse. Di che l’acceso amante viveva in pessima contentezza. Non ardiva a la fanciulla scoprirsi per tema che ella non si sdegnasse e più poi non si lasciasse vedere, chè pure la vista di lei era al giovine di grandissima contentezza, e prima averebbe voluto morire che mai in cosa alcuna, quantunque minima, offenderla. In questo stato ritrovandosi, e più di giorno in giorno ardentemente la sua Aloinda amando, poi che molti pensieri ebbe fatto, deliberò ad un suo fidato amico tutto il suo amore far palese e a lui chieder conseglio ed aita in questa impresa. Era l’amico suo, chiamato Teialac, giovine nobile, ma sin da fanciullo sempre stato cagionevole de la persona. Il che gli aveva causato che non s’era dato a l’armi, ma solamente attendeva a le lettere, e più a le greche che a le latine, perciò che tutta la nazione dei goti dava più opera agli studi greci che agli altri. Ed in questa nostra patria perseverano ancora molti vocaboli greci e sono in uso così agli uomini come a le donne, di modo che sono divenuti volgari e italiani. Essendo adunque un giorno Bandelchil insieme con Teialac, gli narrò tutta l’istoria del suo amore, pregandolo che in tanta pena come si trovava gli donasse qualche conforto, perchè conosceva non poter più mantenersi in tanti tormenti, avendone perduto il cibo e il sonno. Teialac, udita la proposta del suo amico e quello diligentemente essaminato, in questa guisa gli rispose: – Io non posso se non meravigliarmi di te, che essendo quello che sei e veggendoti nei lacci amorosi irretito, mai non abbi cercato o vero di sviluppartene in tutto o, non volendo o non potendo levarti fuor de la pania amorosa, non cerchi tutti quei rimedii che aver si ponno. Tu m’affermi esser più d’un anno che in così penace vita vivi, e nondimeno mai non hai cercato di far Aloinda del tuo amor consapevole. E che vuoi tu che ella indovini il tuo volere se tu nè messo nè ambasciata le mandi, e ti richieggia ed inviti? Egli tocca a te a servirla, onorarla, seguitarla e farle conoscere l’amor che tu le porti. Chi sa che conoscendo ella e sapendo esser da te amata, che non si pieghi ad amarti, e che non si tenga da molto più veggendo che un tuo pari tanto la stimi? Vogliono naturalmente le donne esser onorate, vogliono esser stimate, vogliono esser riverite e quasi che non dissi adorate. Ed ancora che amino e che desiderino una cosa, fingeranno non desiderarla, e vorranno esser pregate, e che sforzate faccino ciò che di grado farebbero. Pertanto io giudico che tu le faccia saper con lettere o con fidato messo il tuo amore. Se ella mostrerà aver a caro d’esser da te amata, non mancherà il modo di dar compimento a l’impresa, perchè, ove le parti sono d’accordo, di rado avviene che il tutto non si acconci, non si adatti e non si venga al desiderato fine. Se ella non vorrà udir le tue ambasciate o ritrosa a’ tuoi desiderii si scoprirà, noi pensaremo ad altri rimedii. Tentiamo prima questo e poi al resto si provederà. – Udito il conseglio Bandelchil che ’l suo amico gli dava e parendogli al proposito, cominciò con lui a discorrere qual mezzo si deveva pigliare, o mandarle una donna a parlare o scriverle. Onde, ben masticata la cosa, elessero per più sicuro ed assai meglior modo lo scriverle. E pensato il mezzo con cui le farebbero dar la lettera, l’amante una ne scrisse ne la quale acconciamente il fervente suo amore le faceva manifesto, supplicandola che di lui, il quale fedelissimo servo le era, degnasse aver compassione. Aveva l’amante un paggio, il quale era di più tempo assai che in viso non dimostrava ed era picciolo della persona. Egli era poi tanto avveduto e scaltrito e sì pronto ed audace a le preposte e risposte, e con sì fermo viso negava una manifesta verità, che averebbe fatta la salsa a Satanasso. Costui instrusse a pieno Bandelchil di quanto voleva che facesse e diedeli l’amorosa lettera. Soleva l’amante andar ogni dì ne la terra a diporto ora a piede ed ora a cavallo e passar di continuo dinanzi la casa de la sua innamorata, che per non esser in una contrada publica, non poteva dar di sè sospetto. Cavalcando adunque un giorno di brigata con alcuni altri, lo scaltrito paggio, caminando lungo il muro de la casa di Aloinda, come fu suso una finestra che a le volte del vino rendeva luce ed aveva le crati del ferro sovra il sentiero de la strada, si lasciò cader un paio di speroni che in mano aveva, e lasciando senza dir altro cavalcare il padrone e la sua compagnia, andò a l’uscio de la casa, e quello trovato aperto, entrò dentro; e mostrandosi in apparenza tutto sbigottito, a caso vide la fanciulla, che in un lato de l’entrata facendo suoi lavori sedeva, e le disse: – Madonna, per Dio, non v’incresca farmi aprir la vostra volta del vino, perchè seguendo mio padrone, che passa ora per la contrada, gli speroni che io portava in mano mi sono caduti per la finestra di fuori dentro la vostra cantina, e se io non li porterò a casa il padrone mi darà di molte busse. – Arrivò in quello la madre di Aloinda, la quale, udendo ciò che il paggio chiedeva, disse: – Figliuola, va e mena teco costui e fa che trovi gli speroni. – Entrarono tutti dui ne la cantina, ove, veggendo il paggio che nessuno li seguiva, fattosi da principio narrò brevemente l’amore a la giovane del suo padrone e le diede la lettera. Ella senza rispondere prese la lettera ed il paggio gli speroni, e se ne vennero di sopra. Quivi il paggio, ringraziata la donna, al padrone se ne ritornò. Aloinda, presa la comodità, lesse quanto l’amante le scriveva, ed in sì forte punto le entrarono l’amorose parole nel core, che tutta d’amore s’accese. Il perchè altro non desiderava che veder l’amante e seco ritrovarsi. Onde, come poteva imaginarsi che egli per la contrada passasse, se in destro le veniva, andava a le finestre e tutta ridente e con buonissimo viso se gli scopriva. Di che accortosi l’amante e veggendo che la sua lettera aveva fatto frutto, andava pensando come potesse aver comodità d’esser con lei, ed altro tanto ne pensava la fanciulla. Avvenne che una parente de la madre d’Aloinda si maritò; e sapendo la fanciulla che la madre anderebbe a le nozze cercava far intender questo a l’amante. Onde gli scrisse ciò che devesse fare, ma non sapeva come mandargli la lettera. Mentre era in questo pensiero, essendo a la finestra vide il paggio che tutto solo per la strada veniva. E subito discesa, nel passar che faceva il paggio dinanzi la porta, non essendo da persona veduta, gli porse la lettera e tantosto tornò di sopra. Bandelchil, letta la lettera, si ritrovò il più contento uomo del mondo, e non capeva ne la pelle aspettando il giorno de le nozze. Andò la madre al convito e lasciò Aloinda con una vecchia in casa, che non aveva se non un occhio. Quel giorno l’amante, secondo che ordinato gli era, entrò per l’orto in casa ed in una camera si mise sotto un letto. Aloinda, che a bada la sua nutrice in un’altra banda aveva tenuta, si mise ne l’ora disegnata a correr per casa ed andar su e giù. Ella era agile ed Amore le prestava l’ale, e la nutrice non le poteva tener dietro, di modo che la fanciulla entrò dove era l’amante e dentro si serrò. Il che sentendo la vecchia e sapendo la camera aver le ferrate a le finestre, pensò che essendo di state la giovane volesse dormire. I dui amanti s’abbracciarono e si basciarono ben mille volte. E volendo Bandelchil prender l’ultimo diletto d’amore, Aloinda gli disse: – Signor mio, da me più che la vita mia amato, se voi tanto m’amate quanto mi dite e scritto m’avete, voi farete di modo che possiamo lungamente esser insieme, che sarà se per moglie mi sposate. – L’amante, che oltra misura era di lei invaghito e bellissima la vedeva, senza porvi dilazione alora la sposò, e per buona pezza prese di lei amoroso piacere con infinita contentezza de le parti. Messo poi ordine a ciò che l’amante intendeva fare per celebrar le nozze, sentendo Aloinda la nutrice picchiar e gridare, disse a l’amante: – Io aprirò l’uscio e mi getterò al collo di questa mala vecchia e con una mano le turerò il buon occhio, e come mi spurgo, uscite destramente fuori e per la via ove entraste andatevene. – Aperse adunque l’uscio, e a la vecchia, che la sgridava, s’avventò al collo e mostrando farle vezzi le chiuse l’occhio con la mano, e spurgandosi disse a la nutrice che non voleva lasciarla se non si pacificava e le prometteva non dir nulla a la madre, e che là dentro s’era chiusa per dormire quietamente. In questo l’amante chetamente se n’uscì senza esser veduto da persona; e tuttavia Aloinda diceva a la vecchia: – Mamma mia dolce, io son pure la vostra cara figliuola, – e simili altre ciancie, di maniera che la buona vecchia si pacificò. Bandelchil poi, indi a pochi dì, la chiese al padre per moglie, e l’ebbe, e generarono molti figliuoli vivendo sempre in grandissima pace. E temperandosi poi i vocaboli barbari con l’italiana pronunzia, i descendenti da Bandelchil si chiamarono Bandelli, come oggidì ancora sono chiamati.
Mi ritrovò lo staffiero del nostro signor Sarra Colonna che io ancora era in Mantova, ma, come si dice, con gli speroni in piedi per andar a Gazuolo, e mi diede la lettera vostra, la quale, se mi fu gratissima, Dio per me ve lo dica, veggendo quanto amorevolmente a la mia avete risposto, ed oltra questo mandato ad essecuzione quanto io desiderava. Del che non vi posso più restare in obligo di quello che sono. Chè se ai meriti vostri verso me si potesse accrescer maggior vincolo di quello che annodato mi tiene e terrà perpetuamente, l’effetto che ora fatto avete il potrebbe e deverebbe fare. Ma più accrescervi non si può, nè più stringerlo di quello che è. Lo staffiero andò di lungo a Ferrara, ed io me ne venni qui a Gazuolo, ove sono stato alcuni dì e credo che non potrò partirmi così tosto. Ora, ragionandosi la settimana passata, a la presenza di madama Antonia Bauzia marchesa di Gonzaga, di molte cose, avvenne che parlandosi degli strabocchevoli accidenti che bene spesso a certi poco saggi innamorati si veggiono accadere, il gentilissimo messer Girolamo Negro, il quale il giorno avanti era venuto per certi affari che ha col vertuosissimo signor Lodovico Gonzaga, narrò una meravigliosa novella degna d’esser consacrata a la posterità. Il perchè subito la scrissi e deliberai meco che fosse vostra, sapendo quanto di simil lezione vi dilettate e quanto volentieri a Milano le mie novelle solevate leggere. Sarà adunque questa per testimonio a chi dopo noi verrà de l’osservanza mia verso voi e tutta l’illustrissima casa Colonna, essendo tutto il dì molti i favori e beneficii che dagli eroi Colonnesi ricevo, i quali da me d’altro che d’una prontissima volontà d’ubidire, armata d’una vera fede e di non troppo ben purgato inchiostro, non si ponno pagare. State sano.