Novelle (Bandello, 1853, I)/Parte I/Novella XVIII
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Se le donne, di qual grado od età si siano, quando sono dagli uomini richieste di cosa meno che onesta, sapessero quanto importi nel sesso feminile e di quanta lode sia degno questo titolo d’onestà, e quanto le renda agli uomini amabilissime e più che care, elle nel vero non sarebbero così pieghevoli e facili a darsi loro in preda, come assai sovente si vede che fanno. Ponno pur le donne, e per udita e per lezione e spesso anco per i casi che a la giornata occorreno, sapere che infinite ne sono state, per aver troppo leggermente creduto, ingannate, e che generalmente gli uomini tante ne appetiscono quante ne vedono, e mai, o ben di rado, d’una sola si contentano; e nondimeno tutto il dì elle danno di capo ne la rete, e correno a la manifesta rovina loro, come la farfalla tratta da la vaghezza del lume corre volando a la certa sua morte. Nè credo io che altro di questo sia cagione, se non che molte per poco cervello s’abbagliano, ed altre assai, persuadendosi o con beltà o con altri modi poter legar gli uomini e tenergli sempre soggetti, di gran lunga ingannate si ritruovano. Non fece già così la sempre da essere commendata e riverita gentilissima vostra cittadina Gualdrada, la quale assai più stimò d’aver questo titolo d’onestà che la grazia ed il favore d’Ottone III, imperadore romano. Il che come avvenisse, essendo il valoroso giovine e provido capitano, il signor Marco Antonio Colonna, dopo la rotta data al signor Bartolomeo Liviano a la torre di San Vincenzo, alloggiato nel venerabil convento di Santa Maria Novella, narrò a la presenza sua frate Sebastiano Buontempo, maestro in sacra teologia e priore del detto convento. Essendomi paruta l’istoria degna d’eterna memoria, l’ho descritta, come vederete, e al nome vostro dedicata. E come poteva io meglio collocarla, che un generoso atto d’una magnanima vergine ad un’altra vergine non meno onesta e magnanima, qual voi sète, donare? Attendete pur e perseverate, seguendo il camino che principiato avete, chè ogni giorno più s’accrescerà in voi il desio de la vertù e de le buone lettere, le quali, usandole in bene, come già fate, saranno cagione di rendervi ai futuri secoli immortale. State sana.
Voi dicevate, valoroso signore, che gran cosa vi pare, che una fanciulla, essendo da un innamorato ed ozioso giovine tentata e con frequenti ambasciate tutto il dì molestata, possa resistere, ed io vi risposi che veramente non direi che non fosse cosa di qualche difficultà, ma bene v’affermo che, sia chi si voglia, o uomo o donna, che non farà se non tanto quanto vuole pur che la persona si deliberi. E perciò che promisi narrarvi a questo proposito una bella istorietta, in questa nobilissima città ad una nostra gentildonna avvenuta, ora che occupato in cose de la guerra non sète, brevemente ve la narrerò. Devete dunque sapere che Ottone III imperadore, ritornando da Roma ove da Gregorio V, sommo pontefice, fu con solennissima pompa di corona imperiale consacrato, si fermò in questa città, essendo alora tutta la Toscana ubidiente a l’imperadore, il quale il governo di quella commise a Ugone marchese Brandeburgense, suo cugino, che era uomo di singular giustizia e di molta stima appo tutti i popoli. Qui ritrovandosi nel giorno di San Giovanni Battista, che è il padrone tutelare di Firenze, ed essendo ne la chiesa di esso santo a messa, ove era concorsa tutta la città, vide una bellissima figliuola da marito, il cui padre era messer Bellincione Berti dei Ravegnani. Aveva essa fanciulla il nome d’esser la più bella, vaga e leggiadra giovanetta, non solamente di Firenze ma di tutta Toscana, e ovunque ella andava traeva a sè gli occhi di quanti v’erano. Come l’imperadore la vide, meravigliosamente si dilettò de la vista di lei, la quale tanto gli piacque, che mentre ch’egli stette in chiesa sempre le tenne gli occhi fissamente nel bel viso, e tra sè ora questa parte di lei ora quell’altra contemplando e tutte sommamente lodandole, a poco a poco non se ne accorgendo, dal piacer della vista ingannato, assai più che a la gravità di tanta maiestà non conveniva, de le infinite bellezze di quella s’accese. A lui quanto più lui la mirava pareva più bella ogni ora, e tanto più che sempre scorgeva in lei qualche parte di bello, che prima veduta non aveva. Poi che i divini uffici con grandissima noia de l’imperadore furono finiti, chè averebbe voluto che tutto il giorno fossero durati, partì la fanciulla con le sue compagne, ed altresì l’imperadore al palazzo si ridusse, ed essendo poste le tavole si pose a mensa, ma nulla o poco mangiò, avendo tanto il pensiero a le bellezze de la veduta fanciulla rivolto, che ad altro attender non poteva. Onde sentendosi di tal sorte di lei infiammato, che il voler non ammorzare, ma scemar le fiamme, gli pareva impossibile, si ritrovò molto di mala voglia, nè sapeva che farsi. Commise ad un suo fidato cameriero che spiasse di cui ella fosse figliuola, avendogli dati i contrasegni de le vestimenta ed il luogo ove in chiesa stava. Andò il diligente cameriero, e tanto investigò, che egli intese il nome del padre de la fanciulla e a l’imperadore il rapportò. Egli, informatosi de le condizioni del gentiluomo, intese quello esser molto nobile, ma povero, ed uomo di poca levatura. Il perchè dopo molti e molti pensieri, non volendo a modo alcuno usar la forza, deliberò col mezzo del padre ottener l’intento suo. Se lo fece adunque un giorno chiamare in palazzo, e tutti di camera cacciati, volle che quello, ancor che assai il ricusasse di fare, appo sè si mettesse a sedere. Dopo che egli fu assiso, così l’imperadore, sospirando, a dire cominciò: – Io credo, messer Bellincione, che voi senza dubio sappiate come naturalmente tutti gli uomini sono inclinatissimi ad amare, sia questo o vertù o vizio; questa inclinazione è una infermità che a nessuno perdona e a tutti nuoce, perciò che non è core, pure che d’uomo sia, che o tardi o per tempo a le volte non senta gli stimoli de l’amore. Se guardarete le istorie divine, trovarete Sansone il fortissimo, David il santissimo e Solomone il più savio di tutti esser stati meravigliosamente ad amore soggetti. Se leggerete le romane, le greche e l’altre istorie, quanti ne trovarete voi che senza fine hanno amato? Cesare, che primo ci partorì l’imperio romano, a cui tutto il mondo cesse, fu di Cleopatra servo, la quale poco mancò che non facesse per amore Marco Antonio impazzire. Che fece Massinissa? Come in Puglia si diportò Annibale? Vi potrei dir di molti altri eccellentissimi uomini, duci, regi e imperatori, i quali a le fiamme amorose apersero il petto e l’amoroso vessillo seguitarono. Ma io porto ferma openione che il tutto a voi sia così chiaro come a me. Il perchè persuadendomi voi esser uomo che ne la vostra gioventù abbiate amato, non mi vergognerò discoprirvi le mie passioni e farvi noto il mio supremo disire, e poi quella aita chiedervi che al mio male qualche conforto apporti. E quando io non avessi questa credenza in voi, io mi ritrovarei di modo sconsegliato, che nel vero non saperei che più farmi. Ma voglio e giovami credere che appo voi troverò perdono, compassione ed aita. Saperete adunque, per non tenervi più a bada, che io assai più che me stesso amo vostra figliuola. Sommi sforzato quanto mi è stato possibile di levarmi di petto questa passione, e il tutto è stato indarno. Onde a tal ridutto mi veggio, che senza l’amor de la figliuola vostra al mio vivere è giunto il fine. Averei potuto far de le cose che potete imaginarvi per averla, ma io bramo che il tutto si faccia segretamente. E per questo a voi sono ricorso, il quale so che volendo potete pienamente sodisfarmi. Il che facendo, sarà la grandezza vostra e di lei. – Messer Bellincione, udito l’imperadore, si reputò d’aver trovata la sua ventura quando sì gran prencipe era di sua figliuola innamorato. E senza troppo pensarvi su, così gli rispose: – Serenissimo signor mio, state di buona voglia, chè mia figliuola sarà sempre al comando vostro. Io anderò a parlar seco e farò di modo che in breve vi recherò buone novelle. – Restò per questa sì larga promessa l’imperadore senza fine lieto, e Bellincione, andato a casa, domandò in camera la figliuola e le disse: – Gualdrada, – chè tale era il nome de la fanciulla, – io ti reco una buona novella, perciò che hai da sapere che l’imperadore è de le tue bellezze innamorato, come di bocca sua m’ha detto, e faratti, se tu seco sarai piacevole, una gran donna. Tu vedi che noi, ben che siamo gentiluomini, siamo poveri; Dio ci ha mandata la ventura nostra, sappiamola pigliare. – Non sofferse l’altiera e onestissima giovanetta che il disonesto padre più innanzi parlasse, ma da giusto sdegno accesa: – Dunque, – disse, – volete voi farmi prima bagascia che maritata? Chè se avessi marito e voi mi parlassi di questo, non vi vorrei udire, e udirovvi essendo vergine? Tolga Iddio che mai uomo del mondo, se non colui che mi sposerà, divenga mio signore. Andate, e più non mi parlate di questo. – Rimase il padre tutto confuso e non ardì farle più motto. Con questa risposta molto di mala voglia se ne ritornò a l’imperadore, il quale, udendo la saggia e onestissima risposta di Gualdrada, dolente oltra modo, stette buona pezza che pareva più tosto una statua di marmo che uomo vivo. Poi tra sè rivolgendo la magnanima deliberazione de la castissima vergine e quella senza fine commendata, disse al padre di lei: – Io ho deliberato, vincendo me stesso e le mie fiere passioni soggiogando, fare che il mondo conosca che, se so vincere gli altri, che anco so vincer me stesso. L’amore che ho portato e porterò sempre a vostra figliuola farà di questo certissima fede. – E alora chiamato a sè il fido suo cameriero, che Guido aveva nome, così gli disse: – Guido, vogliamo darti moglie, tale qual noi per il nostro figliuolo eleggeremmo. Tu sposarai la figliuola di messer Bellincione che qui vedi, e noi per dote sua ti daremo il Casentino e molte altre nostre castella che sono in Val d’Arno. – Mandò poi a chiamar tutti i suoi baroni e gentiluomini di corte, e messer Bellincione andò e condusse la bella ed onesta Gualdrada, e l’imperadore, a la presenza di tutti manifestato il suo amore e la prudente e savia risposta de la vergine, si cavò un anello di dito di grandissimo prezzo e a Guido il diede, con il quale egli alora sposò la bella Gualdrada. Fu fatto quel giorno medesimo il privilegio de la dote che Ottone aveva promessa, e sempre egli si chiamò cavaliero di Gualdrada, e come fu da Guido sposata, l’imperadore la basciò in fronte e la raccomandò a Dio, e più non la volle vedere. Da Guido e da Gualdrada vennero due illustrissime famiglie, una dei conti Guidi e l’altra dei conti da Puppio, che tennero gran tempo la signoria che l’imperadore in Val d’Arno e in Casentino aveva data loro. Furono poi al tempo di Filippo Vesconte duca di Milano da questa nostra Republica discacciati, ed alcuni di loro si ridussero in Romagna, e da costoro sono discesi i conti da Bagno, ch’oggidì possedono in quello di Cesena molte castella.
Quanto s’ingannino, magnanimo signor mio, quei mariti che, sprezzato l’amore de le sposate lor mogli, a l’altrui maritate attendono, ancor che tutto il dì si veggia per i molti accidenti che accadeno, nondimeno da una novella, che già molti dì sono che scrissi stando a Roma ed ora al nome vostro consacro, potrete facilmente comprendere. Nè minor errore stimar si deve che commettino quelle donne, le quali, accorgendosi che i mariti per risparmiar quel di casa attendono a logorare quel di fuori, con ogni ingegno a porgli il cimiero di cervo in