Notizie della vita e degli scritti di Luigi Pezzoli/IX. Della satira italiana
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IX. DELLA SATIRA ITALIANA.
La satira italiana, come da tutti si sa, non è stata mai tale che desse alla nostra poesia quella fama e quella quasi dirò insuperabile eccellenza, che in presso che tutto il resto i meno invidi o meno ignari anche de’ forestieri ci accordano fra le nazioni moderne. Molte ragioni potrebbero addursi di ciò; ma non essendo qui luogo a dettare un trattato, o a comporre una critica storia della poesia, ci limiteremo a conchiudere: ch’ove non fosse sorto il Parini, porteremmo invidia per questo conto agli stranieri, ed era questo l’alloro, come il Parini stesso scriveva in proposito della tragedia all’Alfieri, che unico mancava al glorioso crine dell’Italia. Ma la satira del Parini tutta aggirandosi sopra un’insistente ironia, che assume varietà e si lascia trattare a dilungo attese le inesauribili grazie di uno stile e di una poesia a cui non altro seppe apporre la critica salvo la soverchia elezione, questa guisa di satira, dico, usurpa i diritti della didattica, e nessuno, ch’io sappia, ha voluto chiamare i tre immortali poemetti o satire o sermoni propriamente. La satira italiana, prendendo le mosse dal serventese attribuito a Sordello, e dalle divote filastroccole di fra Giacopone, quando pure vogliansi disconoscere i mirabili tratti di vera e potente satira sparsi nella divina Commedia, fonte primaria e abbondante d’ogni poesia, si venne distendendo nel progresso dei tempi al Vinciguerra, al Soldani, all’Adimari, al Paterno, e a più altri, fino all’Ariosto, che, come in ogni altro genere di scritture da esso tentato, in questo ancora tiene seggio distinto. Ma ne’ sovrannotati, con molta e spesse volte feroce biliosità, l’arte si trova assai scarsa, e le invenzioni molto meschine. Le inversioni, i costrutti e le frasi troppo strettamente latine fanno irto e spiacevole lo stile del Vinciguerra, e la sprezzatura del verso è troppo palese: e sì tutto il candore e la nobile indignazione di una bella anima traspira da’ suoi capitoli. All’Adimari e al Paterno, il primo de’ quali prevalente per forbitezza di lingua, il secondo per ricchezza di fantasia, tolgono grido di eccellenti satirici la prolissità inenarrabile, e le fastidiosissime ripetizioni. Non è persona gentile che legga il Soldani senza farsi rossa più volte per la scurrilità invereconda delle allusioni, e cui non affatichi e sconforti nella lettura la straordinaria ambiguità delle frasi, e il lambiccato di molti concetti. L’Ariosto che ben poteva (e che non poteva quel mago sovrano, il cui ingegno, quasi fosse il libro di Malagigi, in qualunque parte si aprisse, mostrava il vero ed il meglio d’ogni soggetto?) l’Ariosto, dico, che poteva dotare l’Italia della satira propriamente detta, si contentò di arricchirnela di quella sola parte che ha confinante l’epistola; e, tolta qualcuna di quelle classiche pennellate che sfuggivano quasi dirò inavvertite a quel suo maestro pennello, rafaellesco ad un tempo e buonarrotiano, rimase desiderabile anche dopo di lui chi risuscitasse alla lingua volgare l’Orazio e il Giovenale della latina. Superiore a molti altri, ma non ottimo neppur esso, il Menzini battè a sangue i difetti del tempo e della nazione; ma chi, oltre che le frasi odorano pressochè sempre di soverchia fiorentineria, sa trovarmi in tutte quelle dodici satire una pittura, una sentenza, un carattere, che sia passato nella posterità, o intrinsecato nei modi proverbiali del nostro discorso? Salvator Rosa, che pur ebbe annotatore il Salvini, oltre alla indecente libertà di molte sue descrizioni, e di molti suoi frizzi, pecca di lingua non punto elegante, di verseggiatura tutt’altro che squisita, e di spaventosa diffusione nel trattamento de’ suoi soggetti. Del Sergardi non parlo, che, noto principalmente per l’aurea latinità, fattosi traduttore di sè medesimo, rimase a gran pezza lontano da quella primitiva bellezza; e dal vedere com’egli abbia sempre tenuto la mira a quel suo Filodemo, ci sentiamo tentati a chiamare i suoi sermoni libelli e ritmici diffamamenti. E qui volentieri ci riconduciamo a Venezia, che vide nascere chi, da volere a non volere, è pur tuttavia il principale scrittore che in questo genere possa vantare l’Italia. Appassionato veneratore del Chiabrera, non so non sentire la inferiorità somma de’ suoi sermoni, paragonati a quelli del Veneziano. Ma di questo ancora può dirsi che toccasse la meta a cui forse era condotto dalla felicità del suo ingegno? Che cosa è la satira tra le mani del Gozzi? Sa ella altro, pressochè sempre, fuorchè far carezze e ghignare? Tolga Iddio che io desideri imitatori al Caccia ed al Dotti, e a quel trapassato di fresco, di cui trovo detto, da cui seppe descriverlo sì egregiamente, ch’altri certo non potrà meglio, essere state tutte mortali le sue ferite, e le sue forme del dire sentir troppo della turpe palestra ne’ cui esercizii furono apprese; tolga Iddio, lo ripeto, che io mai ciò desideri; ma se la satira deve essere necessario supplemento alle leggi per tutti que’ casi ch’esse non possono antivedere, o per tutte quelle persone cui non giungono a gastigare, sarà mai da dirsi che, qual fu trattata dal Gozzi, adempisse al suo uffizio? Lo adempie, con sotto gli occhi l’aspetto di un tempo e di un popolo, nei quali, è pur forza di confessarlo, se non le ferocie, le schifosità degli ultimi tempi del romano impero vennero ricopiate? Ridicola esagerazione fu quella del Byron, che arrivato, tutt’altro che con animo e veste di penitente, e adagiatosi più anni nella nostra città, ebbe indi a chiamarla Sodoma dell’Oceano; egli, che, quand’anche ciò fosse, di questa Sodoma non era certamente l’Abramo, e veniva da luoghi in cui respiravasi ben altro che l’innocenza e la semplicità delle valli di Mambre: ma nè manco è tollerabile la troppo condiscendente bontà, onde il sermonatore veneziano, tolti i passeggi notturni lungo il listone, le villeggiature del Brenta, e qualche crocchio di falsi letteratelli, altri campi non sa trovare e altre persone, fra cui penetrare guidato dalla invisibil Camena, a menarvi rigidamente la sferza,
Che impiaga e fa morir, più che non punge.
Buon garbo oraziano, mi si va susurrando; pusillanimità, invece, io ripeto, imparata ai servigi delle dame onnipotenti, o nelle segreterie de’ magnati e de’ così detti Riformatori.