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glio d’ogni soggetto?) l’Ariosto, dico, che poteva dotare l’Italia della satira propriamente detta, si contentò di arricchirnela di quella sola parte che ha confinante l’epistola; e, tolta qualcuna di quelle classiche pennellate che sfuggivano quasi dirò inavvertite a quel suo maestro pennello, rafaellesco ad un tempo e buonarrotiano, rimase desiderabile anche dopo di lui chi risuscitasse alla lingua volgare l’Orazio e il Giovenale della latina. Superiore a molti altri, ma non ottimo neppur esso, il Menzini battè a sangue i difetti del tempo e della nazione; ma chi, oltre che le frasi odorano pressochè sempre di soverchia fiorentineria, sa trovarmi in tutte quelle dodici satire una pittura, una sentenza, un carattere, che sia passato nella posterità, o intrinsecato nei modi proverbiali del nostro discorso? Salvator Rosa, che pur ebbe annotatore il Salvini, oltre alla indecente libertà di molte sue descrizioni, e di molti suoi frizzi, pecca di lingua non punto elegante, di verseggiatura tutt’altro che squisita, e di spaventosa diffusione nel trattamento de’ suoi soggetti. Del Sergardi non parlo, che, noto principalmente per l’aurea latinità, fattosi traduttore di sè medesimo, rimase a gran pezza lontano da quella primitiva bellezza; e dal vedere com’egli abbia sempre tenuto la mira a quel suo Filodemo, ci sentiamo tentati a chiamare i suoi sermoni libelli e ritmici diffamamenti. E qui volentieri ci riconduciamo a Venezia, che vide nascere chi, da volere a non volere, è pur tuttavia il