Nella nebbia/Un desinare
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UN DESINARE.
Le strade erano piene di gente d’ogni risma: gente allegra — preoccupata — nervosa.... I bambini passavano cinguettando, con quella loro aria di beatitudine e d’inquietudine vaga, gli occhi pieni di sogni e di speranze.
Ci si pigiava davanti alle grandi vetrine e alle piccole mostre, per entrare nelle botteghe, per arrivare ai banchi, disputando, contrattando, scegliendo il meglio possibile, ciascuno nel limite delle proprie forze.... finanziarie — limite sempre ristretto relativamente ai desideri.
Come di ragione, i migliori affari erano riservati ai venditori di cose mangereccie — dal macellaio al pasticciere — ed ai venditori di giocattoli; poichè, Natale è, come si sa, una festa di famiglia, nella quale si fanno gli onori al ventre e ai figliuoli.
Il tempo essendo discreto, la passeggiata era piacevolissima per l’osservatore. Sul corso si potevano incontrare le signore eleganti, a piedi, tutte chiuse nelle loro pelliccie o nei grandi mantelli, ringiovanite dal piacere di comperare, di spendere, di preparare i doni gentili, le sorprese, il piacere degli altri che è il grande piacere femminile.
In via Santa Margherita si potevano vedere i gastronomi più raffinati, ma non egualmente ricchi, fermi davanti alle vetrine del Testa e del Rainoldi, studiando l’esposizione sapiente, fantasticando su i nomi e le forme di certi manicaretti, aspirando gli effluvi eccitanti ogniqualvolta un ghiottone più fortunato, sicuro di potersi pagare tutti i capricci, entrava in una di quelle botteghe, o ne usciva, gli occhi lucidi, il viso contento.
Non è poco interessante, per chi studia le passioni umane, lo spettacolo di un vero ghiottone nel momento in cui si prepara le sue voluttà. Ho visto una volta un famoso musicista dall’ampia circonferenza, scegliere certi salumi, aspirare l’effluvio di certi formaggi e di certe salse esotiche; e mi ritorna ancora nella memoria l’espressione singolare della sua fisonomia, di solito arguta. Bisognava vedere che importanza, che minuziosa attenzione, che serietà!
La mondana più raffinata non mette maggior passione nè studio, nella scelta delle stoffe, dei fiori, dei gioielli incaricati di far risaltare la bellezza del suo corpo.
⁂
La folla più densa, mista e screziata, la trovai al Verziere, ai mercati di piazza Santo Stefano, dove, in uno spazio relativamente piccolo, erano esposti i pollami in quantità strabocchevole, le selvaggine, il pesce, le verdure primaticcie, gli agrumi.
I rivenditori gridavano la loro merce, invitavano i passanti a comprare, insistendo, bisticciandosi, lanciando epiteti.
E sempre aumentava il frastuono. Pareva che la ressa non dovesse cessar mai. Frotte di compratori andavano via carichi; a vederli si sarebbe detto che botteghe e mercati fossero vuoti finalmente; invece, erano sempre pieni, e nuovi compratori arrivavano, più pressati, più insistenti.
I gridatori, esausti, non avevano più voce, e gridavano disperatamente con la voce strozzata.
Sulle cantonate, un uomo ritto in piedi, con la sua merce in spalla, gesticolando, dimenandosi, lanciava sempre, a regolari intervalli, il medesimo grido:
— L’unico regalo per fanciulli, signori!... l’unico regalo! Costa due soldi!...
E agli occhi ammirati dei fanciulli appariva un orologio minuscolo, le cui lancette si movevano.
Altri uomini misteriosi offrivano altri prodigi a un buon mercato veramente straordinario: il topo meccanico, il fattorino, la portatrice di pane....
Il sole tramontava, lontano, dietro alle nuvole dense; il freddo diveniva più acuto.
Tornavo a casa, la testa intronata dal rumore, sbalordito per le mille immagini diverse, entrate nel mio cervello, traverso ai miei occhi.
Pensavo involontariamente ad una città che si prepara a sostenere un assedio e teme la carestia. L’enorme quantità di provviste non poteva avere altro scopo. Il pranzo di Natale, le cene, i regali.... Pretesti, grosse burle, per ingannare il nemico!....
Quale nemico?
Chi sa!...
Ma la gente che mi passava daccanto dissipava subito il mio sogno.
Gruppi di donne venivano parlando dei regali, dei piatti che preparavano, degli invitati....
Dei rivenditori tornavano a casa, avendo esaurita la merce, le mani vuote, il portamonete pieno; comunicandosi i buoni colpi fatti, sparlando dei compratori difficili abilmente canzonati.
Altri cantavano a squarciagola, avendo anticipato sulle libazioni della festa.
In mezzo alla calca qualche figura corretta di gentiluomo affrettava il passo, apriva nervosamente la porta vetrata di un gioielliere, di un pasticciere, di un fioraio, di un negoziante di mode, e spariva.
Si accendeva il gaz. Più in alto, sulle nostre teste si imbiancavano i globi fantastici della luce elettrica, come tante lune staccatesi dal cielo.
Una nuova allegrezza, una nuova sontuosità, si spandevano. La folla impediva il passaggio su i marciapiedi.
Il tram di Porta Vittoria stazionava nel solito angolo della piazza, impudente di grettezza, ai piedi del colosso di marmo, dalle innumerabili guglie — il colosso che pare più superbo, più fantastico e maraviglioso, dacchè la parte moderna della piazza, borghesemente pretenziosa, stona di più col carattere trascendentale della illuminazione.
Entrai nel carrozzone, ancora completamente vuoto, rassegnato ad aspettare.
Le redini erano legate, la frusta riposava; forse i cavalli stiacciavano un sonnellino.
Cercai con gli occhi il cocchiere. Era giù, presso ai cavalli, piantato sui suoi stivaloni, ampi, rigidi, come due cassette di legno.
Sotto al pastrano si disegnava un corpo di atleta, dalla nuca turgida, dalla testa forte; un po’ tozzo.
Una donna e un fanciullo erano arrivati presso di lui in quel momento, correndo, leggermente ansanti.
Il fanciullo si attaccò al pastrano paterno sghignazzando; allungò una manina ardita verso la pancia del cavallo.
La donna aveva tolto una calderina di latta di sotto allo scialetto, e la porgeva al marito.
— Speriamo sia calda! —
L’uomo non rispose subito tutto occupato a scoprire la calderina.
— Fuma!
Tutti e due sorrisero di compiacenza.
Il cocchiere cominciò a rimestare col cucchiaio una minestra di riso e verdura, densissima, calcata.
— Ho molta fame! — mormorò — non ho avuto tempo neppure di mangiare una mezza micca.
— Mangia presto, dunque; che non ti tocchi come l’altro giorno!
Egli scrollò il capo, e cominciò il suo desinare, in piedi, vicino ai suoi cavalli, in mezzo al rumore e al via vai della gente.
Aveva un modo singolare di empire il cucchiaio e di empirsi la bocca. Certamente doveva essere il risultato di una lunga abitudine e di uno studio particolare.
Con meravigliosa sveltezza faceva girare il cucchiaio nella calderina in modo da raccogliere la maggior quantità pos sibile di minestra; poi, invece di portarlo alla bocca come facciamo tutti — il che gli sarebbe stato impossibile senza impiastricciarsi il naso — appoggiava delicatamente le labbra sul mucchio della minestra, e alzava il cucchiaio, girandolo rapidamente, eseguendo insomma una curiosa manovra, in virtù della quale, a me pareva, non che egli mangiasse, ma empisse di malta e ghiaia una buca profonda e stretta, con la preoccupazione di far molto presto e di non imbrattarne gli orli.
A manovra compita, prima di prepararsi una seconda cucchiaiata, egli alzava la testa e spingeva lo sguardo scrutatore fino in fondo alla strada, che va diritta da piazza del Duomo a piazza Fontana.
Niente! Un sospiro di sollievo, e un’altra cucchiaiata colma come la precedente.
Qualche volta, la donna cercava di risparmiargli pena, tenendo lei gli occhi fissi al punto donde doveva spuntare il tram di ritorno.
— Mangia! non c’è niente!
Ma lui, non si fidava. Un grave timore vegliava su quel formidabile appetito di lavoratore digiuno: il timore di essere colto in flagrante ritardo di mezzo minuto....
Ad ogni cucchiaiata, lo sguardo scrutatore andava, sicuro e pronto, come una palla di fucile, laggiù in fondo alla strada; e involontariamente, inconsciamente forse, la manovra dell’ingozzamento si affrettava sempre più, affannosa come un supplizio.
L’uomo aveva il viso rosso, il collo rosso; di tratto in tratto, per un gesto automatico si asciugava il sudore col rovescio della mano; di tratto in tratto, come i suoi cavalli batteva un piede in terra, e la suola grossissima dello stivale produceva un rumore secco, forte, come lo zoccolo del cavallo.
La donna aveva dei piccoli scatti d’inquietudine repressa.
Con la testina alzata, gli occhioni spalancati, intenti, le manine attaccate ai lembi del pastrano, il fanciullo non parlava, non si moveva; guardava il padre mangiare.
Qualche volta l’uomo chinava gli occhi sul bimbo e tentava sorridergli con le labbra intorpidite, mentre la mano esperta empiva il cucchiaio senza bisogno di essere sorvegliata.
Allora, il visottolo grasso del piccino s’illuminava di gioia, e tutto il corpicciuolo si portava in su con uno slancio di tenerezza, invocando un abbraccio; ma improvvisamente ei si ricordava, girava cautamente gli occhi verso la madre come per interrogarla e tornava tranquillo.
Il tram intanto si era quasi empito. Il conduttore stava al suo posto sulla piattaforma posteriore.
Qualcuno brontolava per la lunga sosta.
— Sempre così su questa linea! — esclamava un omone con un paniere di arancie sulle ginocchia.
— O cocchiere! Sbrighiamoci!
Il cocchiere, la donna e il fanciullo scrollavano le spalle, gli occhi fissi al fondo della strada.
Tre o quattro cucchiaiate, più colme delle altre se è possibile, furono buttate giù alla svelta.
Ora mi pareva che la grande fame dell’uomo fosse ammansata, che si affrettasse più che altro per abitudine, per terminare la sua porzione e munirsi bene contro il freddo della serata. Inghiottiva con fatica, gonfiando il collo.
La moglie gli parlava fitto, e il bimbo si permetteva di cinguettare.
— È qui! — esclamò la donna improvvisamente.
Il cocchiere pronunciò alcune parole con voce strozzata.
— Prendimi in braccio, mamma! Prendimi in braccio!
Quando si trovò alzato al livello del petto paterno, il bimbo allungò le manine verso il fischietto e fece l’atto di soffiarvi dentro, con una grazia d amorino.
Ma il cocchiere non aveva tempo d’intenerirsi.
Finì di raspare il fondo della calderina, poi la consegnò alla donna, e salì al suo posto battendo forte le suole per sgranchirsi; mentre il bimbo guardava intento, gli occhioni pieni di ammirazione e di una vaga tristezza.
Al momento di allontanarsi l’uomo fu preso come da un rimorso: si voltò, allungò la mano e abbozzò una carezza sulla guancia del suo figliuolo; poi afferrò le redini, e i cavalli si mossero.
— Ciao!
— Ciao papà!
La donna e il bimbo restarono un momento, poi si voltarono e sparirono nella nebbia che veniva giù con la notte.
Il carrozzone cominciò a scivolare rapidamente sulle rotaie, e i vetri dei finestrini intonarono la solita solfa.
— L’unico divertimento per società! — gridava l’uomo dal topo meccanico.
— L’unico regalo per ragazzi! — rispondeva quello dagli orologi a cinque centesimi.
La folla passava ridendo.