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sibile di minestra; poi, invece di portarlo alla bocca come facciamo tutti — il che gli sarebbe stato impossibile senza impiastricciarsi il naso — appoggiava delicatamente le labbra sul mucchio della minestra, e alzava il cucchiaio, girandolo rapidamente, eseguendo insomma una curiosa manovra, in virtù della quale, a me pareva, non che egli mangiasse, ma empisse di malta e ghiaia una buca profonda e stretta, con la preoccupazione di far molto presto e di non imbrattarne gli orli.

A manovra compita, prima di prepararsi una seconda cucchiaiata, egli alzava la testa e spingeva lo sguardo scrutatore fino in fondo alla strada, che va diritta da piazza del Duomo a piazza Fontana.

Niente! Un sospiro di sollievo, e un’altra cucchiaiata colma come la precedente.

Qualche volta, la donna cercava di risparmiargli pena, tenendo lei gli occhi fissi al punto donde doveva spuntare il tram di ritorno.

— Mangia! non c’è niente!

Ma lui, non si fidava. Un grave timore vegliava su quel formidabile appetito di lavoratore digiuno: il timore di essere colto in flagrante ritardo di mezzo minuto....

Ad ogni cucchiaiata, lo sguardo scrutatore andava, sicuro e pronto, come una palla di fucile, laggiù in fondo alla strada; e involontariamente, inconsciamente forse, la manovra dell’ingozzamento si affrettava sempre più, affannosa come un supplizio.

L’uomo aveva il viso rosso, il collo rosso; di tratto in tratto, per un gesto automatico si asciugava il sudore col rovescio della mano; di tratto in tratto, come i suoi cavalli