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nell’ingranaggio 317

Edvige, forse abbastanza tranquillo da poter pensare agli affari, meditare una combinazione finanziaria; certo tanto preoccupato dei nuovi pensieri della nuova ambizione, delle lotte e dei trionfi in cui si assorbiva la sua attività, che poteva sopportare la presenza di sua moglie senza collera e senza disgusto; e aveva potuto passare accanto a lei, povera Gilda, sentire il fremito di tutto il suo corpo, dubitare della verità, e non curarsi di approfondire quel mistero! Forse gli era parso più prudente di passare oltre. Si sarebbe trovato in un bell’impiccio, se ella gli avesse fatto una scena di disperazione in pubblico, mentre lui andava tranquillamente a Roma con la famiglia! Non le aveva scritto che si sarebbero riveduti ancora, se ella gli perdonava, e che poteva contare sempre sulla sua inalterabile amicizia e sull’affetto suo?...

Certo gli perdonava.

Cosa non gli avrebbe perdonato lei? Ma dove era andato l’amore assoluto, l’amore grande, che nulla doveva interrompere?

Sprofondato nell’urto delle cose, era condannato a decadere a discendere sempre più.

Questo era il chiodo che le stava confitto nel cervello, cagionandole tanto dolore.

Giovanni stesso, nella sua larga coscienza maschile, nella sua forte coscienza di uomo attivo, combattente per altri ideali, non poteva difendersi da quel sentimento amaro: la sua lettera ne era piena. Si capiva bene ch’egli avrebbe voluto non averla conosciuta o non più vederla, piuttosto che affrontarne i rimproveri o subire un perdono troppo generoso.