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Nell'ingranaggio II

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NELL’INGRANAGGIO


I.

La lettera della signora Pianosi era garbatissima; Gilda Mauri la rilesse con piacere ad alta voce, per farla ben comprendere a zia Caterina, che l’ascoltava tutta raccolta, le braccia abbandonate sul suo lavoro, gli occhiali inforcati sul naso, come se avesse dovuto leggere lei, perchè con gli occhiali le pareva di capir meglio anche quando leggevano gli altri.

— Che brava signora! — esclamò mentre Gilda ripiegava la lettera: si vede che la contessa Vimercati ti ha raccomandata come va, che Dio la ricompensi! — E ora tocca a te, Gilda, a farti onore. Bisogna che tu badi bene a non farti vedere spensierata e leggera come sei tante volte, i signori, figliuola...

A questo punto la ragazza fece un piccolo atto d’impazienza e troncò le parole della vecchia, dicendole allegramente: [p. 6 modifica]

— Vado a preparare la mia valigia. Quando credi di desinare chiamami.

La vecchia la guardò tristamente finchè scomparve dietro l’uscio, poi si chinò sul suo lavoro brontolando da sè contro la insubordinatezza delle ragazze d’oggi giorno.

Gilda intanto, appena fu nella sua camera, chiuse l’uscio e si affacciò alla finestra che dava sul bastione. Aspirò con un senso di piacere acuto l’aria impregnata dell’olezzo degli alberi fioriti e si spinse con la testa in avanti per abbracciare un più largo orizzonte.

I suoi grandi occhi scuri si fissarono nel punto più lontano, con una espressione intensa di desiderio.

— Finalmente! — mormorò, allontanandosi dalla faccia i capelli che il vento le andava arruffando: — anche il mio orizzonte si allarga un poco! L’avvenire mi viene incontro: uscirò da questa odiosa miseria!

La cameretta pulita, dalle tendine bianche, col lettuccio di ferro, quantunque non avesse alcuna nota di eleganza, pure non giustificava la imprecazione della fanciulla.

La vecchia zia odiava i fronzoli e non permetteva a sua nipote alcuna spesa superflua.

Era questa la causa principale dei loro disaccordi.

Quando andavano fuori insieme, Gilda rimaneva sempre indietro, attirata dalle belle esposizioni dei negozi, tormentata dal desiderio acuto di possedere qualcuno di quegli oggetti eleganti.

E la vecchia si meravigliava che una persona istruita potesse perdersi in quelle sciocchezze. [p. 7 modifica]

— Allora — diceva ingenuamente — che serve studiare? E che diavolo v’insegnano quei professoroni, se non riescono neanche a levarvi questi grilli dal capo?

Appena finiti gli studii e ottenuta la patente di maestra, Gilda s’era messa in cerca di un posto.

E ora finalmente, in capo a sei mesi, l’aveva trovato, grazie alle buone raccomandazioni della contessa Vimercati.

Era una condizione invidiabile quella che le veniva offerta in casa della signora Pianosi, una bella dama forestiera, celebrata per il suo spirito e la sua cultura, che aveva sposato uno dei più ricchi banchieri di Milano.

Lei sarebbe stata trattata come una persona della famiglia, più cinquanta lire il mese e la sola cura di una bambinetta di sei anni che doveva avviare lentamente allo studio; molto lentamente, poiché la signora Pianosi non voleva che la bimba fosse tormentata troppo presto dalle aridità dell’insegnamento.

Certo, Gilda aveva sognato altro. Si sentiva chiamata agli studii superiori, alle ricerche ardite che il suo professore di scienze naturali le aveva lasciato intravedere; ma poiché la sua vecchia zia non poteva mandarla all’Accademia, nè al Liceo, le pareva sempre meglio andare a vivere in una casa di signori, piuttosto che star là a languire, in quella vita nojosa, cavandosi gli occhi sopra un ricamo che le fruttava ottanta centesimi il giorno. E poi, era l’ignoto quella casa, era l’avvenire, forse difficile, forse avventuroso, come se lo era finto tante volte nelle sue divagazioni durante le lunghe e tediose ore di lavoro. [p. 8 modifica]

La valigia, attorno alla quale si era messa di buona voglia, fu presto all’ordine, chè la roba non era molta. Più lunga assai fu la scelta dei libri. Quanti ne doveva portare?

Si trattava di andare in campagna, sul lago Maggiore, in una bellissima villa, dove la famiglia del Banchiere rimaneva tutta l’estate. Avrebbe avuto il tempo di leggere, di studiare? — Pensò ch’era meglio non sperar troppo. Perciò fece un pacco dei libri meno necessari, non che delle molte lettere di amiche, e li chiuse in un ripostiglio a muro, del quale contava portare seco la chiave.

E l’album? e il giornaletto? Erano due grossi libri pesanti, che ella aveva sempre tenuti in conto di amici intimi, dai quali non credeva potersi separar mai.

Ora nella valigia la impicciavano, e nella borsa non volevano entrare.

Sfogliò lentamente le pagine dell’album.

Quanti cari nomi di amiche! E quante immagini di fanciulle bionde, brune, pallide o rosee, gaie o malinconiche, alle quali ella aveva dato tanta parte del suo cuore giovine e inoperoso e smanioso di darsi! Le amava ancora quasi conio stesso ardore, perchè nessun altro sentimento più potente e più naturale era venuto a cancellare quelle parvenze d’amore; ma, vagamente, sentiva che le sfuggivano.

Si fermò a una pagina, e lesse, meravigliandosi della impreveduta voglia di ridere che l’assaliva di frase in frase:

«Musica... poesia... amore!

«Non sono musicista.... non sono poeta.... sono amante! — Le menti sveglie e rigogliose, i [p. 9 modifica]cuori ardenti e ben fatti, le anime generose e delicate mi rubano affetto! A te dunque questo mio affetto che serbo per le creature a cui sorride un raggio divino di amore!

«Non sono musicista.... non sono poeta.... sono amante!

«Che cosa desidero?...

«Amore!

«Amelia Carderelli
«(Margherita!



— Pare impossibile! — mormorò tristamente, chiudendo l’album. — Povera Margherita! Mi fa quasi ridere!

Si ricordò che leggendo questo squarcio perla prima volta aveva baciata la pagina.

Diventò seria. Un altro pensiero le balenò: saranno così mutabili tutti gli amori?... anche quelli altri?...

Lei non poteva rispondere: non sapeva.

Desiderava però ardentemente di sapere, di avere un’esperienza, foss’anche dolorosa.

Riprese l’album e lo depose nel ripostiglio insieme ai vecchi libri di scuola, come un morto nella tomba.

Rimaneva il giornaletto.

Lo prese con una certa titubanza.

Doveva forse disilludersi anche di quello?...

Sentiva che l’aprirlo con quella disposizione d’animo poteva essere pericoloso per la poesia delle sue memorie, ma non resistette alla curiosità di una impressione nuova.

Aprì a caso e lesse:

«Com’è fredda la vita della direttrice e della sottodirettrice!...» [p. 10 modifica]

S’interruppe, dando un’alzata di spalle.

— Questo si sa! — mormorò.

Voltò delle altre pagine.

Lesse:

3 aprile 1879.

«Ieri è stata per tutti i versi una bella giornata. Siamo andate a passeggio e ho avuto delle impressioni curiose, che mi hanno divertita.

«Io mi sento attirata, affascinata dal bello dovunque si trovi: lo amo, lo adoro da per tutto: nell’arte, nell’industria, nella natura. Amo il bello nella novità della moda, in quei rasi, in quella seta dai colori ardenti e sfumati; lo amo nelle belle felpe moderne color oliva, cupo, chiaro, o incerto tra l’azzurro del cielo e il verde del mare. Amo il bello nelle trine, nelle blonde, nei cappellini, e perfino nelle lastre grandiose delle vetrine. Se fossi ricca, vorrei comprare tutto quello che seduce il mio sguardo, per avere il gusto di possedere tante belle cose, per poter stringere nelle mie mani quei gingilli graziosi, adorabili.

«Ma il mio amore per il bello non si limita alle vetrine. Ogni volta che vedo un bel viso, due occhi grandi, espressivi, mi lascio sfuggire una esclamazione di meraviglia e di piacere. Io non bado se quel viso appartiene ad una signora elegante, 0 ad un giovine, o ad una ragazza del popolo.

«Mi ricordo un giorno d’inverno di quest’anno, si passava con la schiera dal dazio... non so più di che porta. La strada era sporca, fangosa, il cielo pesante, la passeggiata nojosa; non ci era stato proprio nulla che mi avesse distratta, divertita. [p. 11 modifica]

«Improvvisamente vedo una giovine signora, alta, snella, tutta ravvolta in una pelliccia senza maniche, ch’ella teneva stretta con una bella manina inguantata. Un cappello nero a larghe tese, incorniciava il suo viso soavemente bello, dolcissimo. Mi fece una impressione singolare. Mi ricordò una gita fatta con le compagne del primo collegio in cui sono stata, tanti anni fa, a Sestri, durante la stagione dei bagni. Venivamo per una via stretta, serrata da monti, camminando su sassi duri, taglienti, che facevano male ai piedi e agli stivalini. Avevamo caldo, eravamo stanche e si cominciava a perdere l’allegria. Io mi sentivo soffocare. Quando, un soffio fresco, profumate, ci fece alzare il capo e uscire dal labbro una esclamazione di gioja.

«La marina coi suoi fremiti dolci, colla sua brezza sottile, col suo odore acuto, ci stava davanti; era il cielo aperto dinanzi a noi...

«A tutto questo pensai vedendo quella signora...»

Qui la lettura fu ancora sospesa; ma ella sorrideva alla visione di quel quadro, e chinava la testina immersa in un sentimento pieno di tenerezza.

Il libro s’era chiuso. Lo riaperse a caso e lesse ancora:

28 gennaio 1880.

«Mi sento tanto triste stasera che non posso a meno di confidare al mio giornaletto la malinconia del mio cuore. Presentimenti foschi, neri, mi turbano. Non ballo più in ricreazione; non voglio nè recitare, nè ballare in carnevale. [p. 12 modifica]

«Mi sono chiusa in me stessa. Penso a Eva, alla mia amica, che non mi scrive....

«Forse è in collera, forse non mi vuol più bene!

«È puerile essere gelose nell’amicizia. Sarà! Allora io sono sciocca e puerile.

«Mio Dio! Che colpa ho se in questo affetto, se in questa amicizia ho posto tutta l’anima mia? È proprio vero, sono gelosa; non voglio che lei abbia altre amiche. E questo è impossibile, e io ne soffro tanto. La lettera che le ho scritto non è risentita, ma è addolorata, profondamente addolorata. L’ho pregata di confortarmi: lo farà?... Sono passati due giorni e il conforto non viene ancora!»

_ Quant’ero mai grulla! — esclamo Gilda, chiudendo stizzosamente il suo giornaletto. E fu condannato anch’esso ai sonni eterni nel ripostiglio.

La villa dei signori Pianosi, dove le fu assegnata una bella camera con le finestre che guardavano il lago come tuttala facciata dell’elegante edificio, parve a Gilda un vero paradiso.

La signora Edvige Pianosi non poteva essere più amabile. La piccola Lea era docile e buona. Il Banchiere, un gentiluomo all’inglese, serio e freddo, quantunque gentilissimo, la intimidiva un poco; perciò era più allegra e si sentiva più libera nei giorni in cui gli affari della sua banca l’obbligavano a fare una corsa a Milano.

In quei giorni le donne rimaste sole si stringevano in una più dolce intimità. Edvige cantava [p. 13 modifica]benissimo con una voce morbida, appassionata, e non faceva mistero di avere «calcato le scene» — era la sua frase — prima di sposare il Banchiere.

La sera ricevevano molte persone. Il sabato sera specialmente gl’invitati venivano fin da Milano e ripartivano la domenica. Alloggiavano al grande albergo del Lago, a un chilometro dalla villa.

Qualche sera, quando il Banchiere poteva accompagnarle, andavano anche loro alla riva, e si fermavano nelle sale dell’albergo, che insieme alla terrazza e al giardino erano aperte alla conversazione.

Gilda si divertiva. Respirava a pieni polmoni quella vita elegante, divagata, oziosa. E diventava più bella, più donna.

Dopo un mese pareva quasi cresciuta di alcuni centimetri.

Una mattina verso la metà del secondo mese, il Banchiere che si era fermato tutta una settimana a Milano, avendola veduta in giardino con Lea, le andò incontro, le sbarrò il passo gravemente e le disse netto in viso:

— Signorina, lei mi diventa troppo bella.

Poi tirò via diritto come se non avesse avuto altro a dirle.

Ella rimase un po’ sconcertata da quella strana maniera di fare dei complimenti.

Ma non fiatò con nessuno.

A tavola egli la guardò due o tre volte con quei suoi occhi grigi e freddi, che le penetravano il cervello, come due sottilissime punte d’acciajo.

Erano di quelle occhiate che spogliano una donna, e a lei facevano un’impressione penosa, mista di soggezione e inquietudine. [p. 14 modifica]

Egli forse se ne accorse, poichè non la guardò più e si diè a raccontare delle persone che aveva incontrato a Milano, con osservazioni burlesche e una intonazione comica, che in lui riesciva divertentissima.

Gilda rise, e l’impressione spiacevole fu cancellata.

La sera andarono all’albergo dove tutti i villeggianti dei dintorni si erano dati convegno.

La folla ingombrava le sale: parlavano forte, ridevano; qualcuno cantava; un organo girovago suonava sotto il portico e le ragazze dell’albergo ballavano. Gilda, con la piccola Lea stretta alla sua mano, era libera di muoversi come voleva, girando di sala in sala, passando da un gruppo all’altro. La conversazione si spandeva e si divideva in tante frazioni, senza etichetta, col piacevole abbandono della campagna.

La signora Pianosi, appena arrivata si trovava in mezzo a una cerchia di ammiratori, come nel suo salotto. Ella sedeva volentieri sotto la loggia del primo piano, da dove si scopriva tutta la distesa del bacino, con la sua acqua limpida, liscia come uno specchio, e il cielo azzurro, stellato; e là «teneva cattedra,» come solevano dire i maligni.

Il Banchiere giuocava al bigliardo con una diecina di amici, fra negozianti e possidenti, tutti uomini di affari e di cifre; i quali, di tratto in tratto, facevano delle esplorazioni lontane nel dominio spensierato dei giovani e delle donne.

Queste si aggruppavano nella sala grande intorno alla tavola su cui sparpagliavano allegramente i loro Canestrini e i loro lavoretti, mentre tutto lo spazio risuonava delle loro chiacchiere. [p. 15 modifica]

Un altro gruppo stabile si fermava intorno al pianoforte. E la maldicenza e la galanteria s’infiltravano da per tutto, scorrevano dolcemente, lentamente, serpeggiando fra quelle isole umane dalla vegetazione lussuriosa; come due fiumi profondi e ricchi, le cui acque bionde di tratto in tratto s’intersecano, s’allargano in laghi, o spariscono in vie sotterranee, donde poi ricompajono in forma di rumorose cascate o di invincibili correnti.

Lea, capricciosa e vivace in quella confusione che eccitava i suoi nervi, trascinava Gilda da un punto all’altro. E da per tutto, la elegante figura della giovine istitutrice, i begli occhi espressivi, la pelle bianca, i capelli fluenti, trovavano qualche ammiratore e commentatore. Molti le sburravano dei complimenti che le facevano piacere, per quel bisogne di carezze e di affetto che ella portava con sè da per tutto, e che la freddezza e la indifferenza offendevano. Quel tributo d’ammirazione e di simpatia ch’ella trovava sulla sua strada, la compensava fino a un certo punto della vita moralmente fredda, cui è condannata per necessità una istitutrice, nella sua posizione di straniera in seno alla famiglia che l’ha accolta.

La grande potenza d’amore ch’ella aveva portato con sè nascendo, trovava una dolce divagazione in quella specie di effluvio amoroso che sentiva alitarsi intorno. Era come un profumo penetrante che l’avvolgeva, senza avvamparle il sangue, preservandola dalla crittogama dell’invidia, che tanto facilmente s’attacca alle creature appassionate, se il destino le ha messe nella classe dei subalterni. [p. 16 modifica]

Lei invece si sentiva affatto libera da questo male, anche vicino alla signora Edvige, trionfante nel suo salotto, quantunque essa non sempre le risparmiasse certe piccole umiliazioni.

Il suo cuore era pieno di bontà e di tenerezza per tutti. Man mano che la sua femminilità si andava sviluppando al contatto del mondo, le veniva un presentimento di pena generale che attutiva l’ardente desiderio di vivere, di slanciarsi nel dramma della vita, che era stato il suo tormento fin dall’adolescenza; e la rendeva più dolce e indulgente, che non siano di solito le giovanette, nel giudicare gli altri.

Sul conto della sua signora ne sapeva abbastanza perchè non le paresse una donna invidiabile, malgrado il lusso e l’adulazione che la circondavano.

Una sera aveva sentito un lembo di dialogo fra due signori i quali un momento prima si erano mostrati molto premurosi intorno a Edvige. Uno ringraziava il compagno di averlo presentato, e l’altro, con una certa meraviglia: «Ti piace dunque tanto?» A cui il primo di rimando: «Oh! certo; è una di quelle donne ch’è sempre utile di conoscere perchè lusingano la nostra vanità senza legarci a nulla: si può dirne male senza rimorso, e può sempre capitare un giorno in cui un uomo di mondo si compiace di poter dire in una società: l’ho conosciuta anch’io: eravamo amici.»

Nelle ore lunghe della giornata, mentre Lea giocava, Sabina la cameriera, una donna sui quarant’anni, entrava qualche volta nella sua camera per scambiare due parole, che diventavano una [p. 17 modifica] lunga chiacchierata, piena di confidenze e rivelazioni quasi sempre sul conto della padrona.

Sabina raccontava ch’ella era stata a servizio della vecchia signora Pianosi, che aveva conosciuto il Banchiere fin da ragazzo, e che se rimaneva ancora in casa sua dopo l’intrusione di quella zingara, era soltanto per lui, per non abbandonarlo, interamente senza difesa, nelle mani di una donna simile.

Gilda trovava molto strano che la Sabina pretendesse essere la protettrice di un uomo serio, forte e intelligente, come Giovanni Pianosi: ma non faceva alcuna osservazione per non offender a e non entrare in diverbi. Si limitava a pregarla dolcemente di tacere, o di parlar d’altro, perchè ella non poteva sentire quei discorsi contro la sua signora: anche se quella era la verità, ella aveva il diritto di non volerla ascoltare.

Inutile. Sabina non le dava rètta.

— Alla vostra età — diceva — si hanno di queste idee romantiche! — E andava via. Ma poi ritornava e ricominciava da capo. Voleva parlare e parlava: con tanta maggiore eloquenza, che al solito piacere di malmenare la sua padrona S univa ora quello di far dispiacere a quella giovinetta povera e bella, venuta a occupare nella famiglia un posto più elevato del suo.

— Ma se non è neppure sua moglie! — si lasciò sfuggire un giorno.

Gilda sgranò gli occhioni.

Questa le aveva tutta l’aria di una calunnia; se fosse stata cosa vera, la vecchia non avrebbe aspettato tanto a dirla.

— Ebbene! — ribattè Sabina: — mettete mo[p. 18 modifica] glie posticcia! se questo vi pare meglio. O non è posticcia una moglie che si può mandar via quando si vuole? Non è posticcio un matrimonio che da un giorno all’altro si può distare?

Gilda capi finalmente che il matrimonio dei signori Pianosi, celebrato in Russia, dove il Banchiere aveva seguita la cantante, era rimasto sotto la legge del divorzio.

Questo, naturalmente, le fece un certo senso. Ma essendo istruita e avendo letto la storia, nonchè molti romanzi, credè poter assicurare la cameriera che il matrimonio divorziabile era ugualmente valido.

Quel giorno ella fu molto allegra. Penso che la sua allegrezza inconsciente, quell’impeto di vivacità, che le saliva al cuore e le dava dei sussulti di gioja, derivasse dall’essersi tolto ogni più lieve dubbio sulle maldicenze della cameriera. Se era tanto sciocca da voler far passare per nullo un matrimonio legittimo, soltanto perchè lo avevano contratto in un paese dove si ammetteva il divorzio, era chiaro che pure le altre storie dovevano essere false: niente più che invenzioni assurde e maligne.

Questa soddisfazione intima e generosa l’abbandonò allorchè, entrando nel salottino della signora Edvige per dirle che era servita, la trovò seduta sui ginocchi di suo marito, in un atteggiamento mollemente affettuoso.

Era quella una maniera di contenersi? lasciarsi sorprendere così da una ragazza con un uomo.... che poteva anche diventarle estraneo da un giorno all’altro! Non le usava proprio nessun riguardo, come se fosse stata una vecchia serva! [p. 19 modifica]

L’offesa le parve tanto pungente che volentieri avrebbe dato sfogo al suo risentimento.

Si fece forza e andò a tavola.

Ma quando dovette sedersi fra Lea e la signora Pianosi, di fronte a Giovanni che la guardava aggrottato, fu colpita improvvisamente dal pensiero ch’egli poteva sospettarla di spionaggio o almeno d’indiscrezione, e i suoi occhi si empirono di lagrime, le sue guance impallidirono.

— Si sente male? — domandò il padron di casa chinandosi verso di lei.

Questa domanda, e più il modo con cui fu fatta, la rianimò e le rese la sua presenza di spirito.

— Non è nulla — rispose cercando di sorridere: — sarà perchè sono stata un poco troppo in giardino: il sole mi ha fatto girare il capo.

Era vero quanto al giardino; ma dal sole la riparava il cappello di paglia. Ella stessa si maravigliò di quella scusa fallace, trovata così rapidamente e detta con tanta franchezza.

Egli non insistette di più; ma la fanciulla s’accorse poi che i suoi sguardi si posavano molte volte sopra di lei con interesse e curiosità, e il pranzo fu piuttosto silenzioso, nonostante la gajezza di Lea e la spigliata loquacità della signora Edvige.