Nanà/Parte prima/VII
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VI.
Tre mesi dopo, una sera di dicembre, il conte Muffat passeggiava nel transito dei Panorama.
La sera non era punto fredda: un acquazzone aveva costretto molta gente a rifagiarsi in’quel passaggio, ed eran là accalcati, sfilando lentamente e malagevolmente nell’angusto spazio lisciato dalle botteghe. Sotto i cristalli fatti bianchi dai riflessi, ardeva una vivissima illuminazione, scorrevan torrenti di luce, sfolgoravano lanterne purpurse, globi lattei, frasparenti, azzurri, ribalte di gas, oroligi e veritagli mostruosi foggiati di mille fiammelle; e le scréziatò tinte delle vetrine, Porò dèi gioiellieri, i cristalli dei pasticciéri, le stoffe di seta dhiaré delle crestaie, brillavano dietro le terse vetrine alla Ince sfavillante dei becchi di gas, accresciuta dai riflettori, inontre nella variopinta e confusa molteplicità delle insegne, ti enorme guanto di porpora, pareva da lontano uria mano rei spiccata dal braccio 6 chiusa in un polsino giallo
Il conte Muffat era risalito Ietitamiento find al doulevard.
Giotto uno sguardo sul marciapiede, poi rifece la via a lenti Dassi rasente le botteghe.
L’umidità, l’aria densa e riscaldata; mettevano una nebbia Itimiriosa nello stretto amdito. Sul selciato, bagnato dallo sgocciolo degli ombrelli, écheggiava continuamente un rimbombo di passi, senza nesstin rumore di voci. I passéggieri, rasentanidolo ad ogni giro, lo squadravano muti, la faccia illividifa dal chiurote del pas. Allora, per isfuggire è quegli sguardi, il conte gi fermò davanti ad tha vetrina da cartolaio e si diè a contemplare con profonda attenzione dei Pnumante delle palle di vetro in cui ondeggiavano dei paesaggi e dei fiori.
Non vedeva nulla, pensava a Nana. Per quale scopo gli aveva essa detta un’altra menzogna? In quella mattina gli aveva scritto che non si disturbasse a venire, col pretesto che Gigino era indisposto ed ella passerebbe la notte dalla Lerat a vegliarlo?... Ma lui, sospettoso, s’era tuttavia recato da lei, ed aveva saputo dal portinaio che la signora, proprio in quel rthomento, usciva per andar al suo teatro. Ciò lo sorprendeva, poichè Nana non aveva parte nella nuova commedia.
Perchè dunque mentiva, e che diamine andava a fare al teatro delle Varietà, in quella sera? >
Urtato da un passeggiero, il conte, senza averne coscienza, abbandonò la vetrina del cartolaio e si trovò davanti ad una bottega di chincaglieria, guardando, colla sua aria assoria,.
un’esposizione di porta zigari e di taccuini, i quali recavano tutti ad un angolo la stessa rondinella azzurra. Per certo Nana era mutata.
Nei primi tempi, dopo il ritorno dalla campagna, ella lo faceva diventar pazzo, quando lo baciava tutt’ intorno sul viso, sulle basette, con dei vezzi incantevoli, giurandogli ch’ egli era il suo diletto, il solo carino che amasse. Egli non aveva più paura di Giorgio, trattenuto da’ sua madre alle Fondette.
Rimaneva il grosso Steiner, di cui Muffat sperava di pren dere il posto, ma sul.quale non ardiva provocare spiegazioni.
Sapeva che era di nuovo in imbarazzi finanziari straordinari, prossimo alla rovina, e che s’aggrappava agli azionisti delle saline delle Zande, per carpir loro un ultimo versamento di fondi. Quando incontrava il banchiere da Nana, questa gli spiegava con far assennato, che non poteva scacciarlo come un cane, dopo quanto aveva speso per lei. D’altronde, da tre mesi, il conte viveva in mezzo ad una tale ebbrezza dei sensi, che all’infuori del bisogno di possedere quella donna, non sentiva nessun’altra impressione ben definita..
Nel tardo risveglio dei suoi appetitì carnali, egli aveva una ghiottoneria da fanciullo, che non lasciava luogo nè alla vanità nò alla gelosia. Una sola sensazione chiara poteva colpirlo: Nana si faceva meno carina; non gli dava più baci sulla barba. Ciò lo impensieriva; da uomo che ignorava gli istinti muliebri, si veniva domandando che cosa ella potesse rimproverargli. Eppure credeva di soddisfarla in ogni suo desiderio. E tornava sempre a quella lettera del mattino, a quella complicazione di bugie, dette nello sccpo sì semplice di passare la serata al suo teatro. Sotto "una nuova spinta della folla, egli aveva attraversato l’andito, ed ora si lambiccava il cervello, ritto davanti ad un vestibolo da restaurant, gli occhi fissi sopra delle allodole spennacchiate ed un gran salmone allungato nella vetrina.
Finalmente parve strapparsi a quello spettacolo.
Si scosse, alzò gli occhi, vide che eran quasi le nove.
Nana stava probabilmente per uscire, egli esigerebbe da lei la verità. E camminò innanzi, ricordando le lunghe ore che aveva passato colà quand’ella recitava, ed egli veniva a prenderla alla porta del teatro. Tutte le botteghe gli erano note, ne ritrovava gli odori nell’aria tepida e satura di gas, forti odori di cuoio di Russia, profami di vaniglia che salivano dai sotterranei d’un fabbricatore di cioccolate, acuti aliti di muschio esalati dalle porte aperte dei profumieri. Perciò non ardiva più fermarsi davanti ai pallidi visi delle venditrici che, dietro il loro banco, lo guardavano placidamente come si guarda una persona conosciuta.
Per un momento, sembrò intento ad osservare le finestrine tonde al disopra dei magazzeni, come se Ie scorgesse per la prima volta, nell’ingombro delle insegne. Poi, di nuovo, risalì fino al Boulevard e ristette un minuto.
La pioggia non cadeva più che come un fino pulvischio, di cui la fredda impressione sulle mani lo calmò.
Pensò alla moglie, che si trovava allora presso Macon, in un castello, ove dall’autanno in poi la sua amica, la signora di Chezelles, giaceva ammalata. Le carrozze, sui trottatoi, scorrevano in: mezzo ad un fiume di fango, Ja campagna doveva essere orribile con quel tempaccio. Ma, ben tosto, affer-.
rato da subitanea inquietudine, tornò nell’afa del passaggio, "camminando a gran passi tra la folla; gli era venuto in mente che se Nana diffidava di lui, scapperebhe per la galleria Montmartre. Da quel momento il conte fe’ la guardia all’ascio stesso del teatro; non gli piaceva aspettare in quell’andito dove temeva d’essere riconosciuto. Vi era all’angolo della.galleria delle Varietà e della galleria San Marco, un cantuccio sospetto con botteghe buie, una calzoleria senza avventori, un magazzeno di mobili polveroso, un gabinetto di lettura affumicato, sonnolento, le cui lampade incappucciate, pareva dormissero in una luce verdastra; e colà, frammezzo alla robaccia che ingomBra di solito l’entrata degli artisti, frammezzo alle comparse cenciose ed al maschinista avvinazzato, s’aggiravano molti uomini ben vestiti e pazienti. Davanti al teatro, nna sola lampada di cristallo smerigliato illuminava la porta.
Muffat ebbe per un momento l’idea di interrogare la Bron, poi gli venne il timore che Nana, avvertita, potrebbe sfuggirgli dal Boulevard.
Riprese dunque la sua passeggiata, deciso ad aspettare che lo si mettesse fuori per chiudere le cancellate, come già gli era capitato due altre volte; l’idea di rincasare e di dormir solo gli serrava il cuore d’ambascia. Ogni volta che delle ragazze a testa scoperta, degli uomini sudici, uscivano dal teatro e lo squadravano, egli tornava a piantarsi davanti al
gabinetto di lettura, dove, tra due avvisi incollati sul vetro,
rivedeva sempre lo stesso spettacolo, un vecchierello, seduto solitario e stecchito, davanti all’immensa tavola, nella macchia verde della lampada, ed intento a leggere un giornale verde, con delle mani verdi.
Ma verso Je dieci, un altro signore, un bell’uomo, alto, biondo, ben inguantato, venne lui pure a passeggiare davanti al teatro, Allora tutti due, ad ogni giro, si sogguarda vano vicendevolmente con un occhiata obliqua, con aria dif fidente.
Il conte si spingeva fino all’angolo della galleria ornata da alto specchio, e e scorgendosi colà, l’aspetto dignitoso, il volto grave, risentiva una Impressione di vergogna commista a paura.
Suonaro no le dieci, Muffat pensò d’un subito, che gli sarebbe agevole di accertarsi se:Nana era sì 0 no rel camerino.
Salì i tre scalini del teatro, attraversò il piccolo atrio, im piastricciato di giallo e scivolò nel cortile da una porta che non era mai chiusa a chiave. A quell’ora, la corte, umida e stretta come il fondo d’un pozzo, coi cessi impestati, la fontana, il fornello e le piante di cui la custode l’ingombrava, era inondata da una nebbia fuligginosa: ma le due mauraglie che sorgevano da ambi i lati, forate da innumerevoli fine stre, sfolgoravano; c’era a terreno il magazzeno degli accessorii, la stazione dei pompieri, a sinistra l’’amministrazione, a destra ed in alto i camerini degli artisti. Quelle finestre, Jungo-quel pozzo, sembravano bocche di fornace scavate nelle tenebre i
Il conte, avendo subito scorto un lume nel camerino di Nana al primo piano, restò consolato e felice, gli occhi per aria, nel denso fango e nello schifoso lezzo di quel cortile di vecchia bicocca parigina.
Grossi goccioloni piovevano da una grondaia rotta; un raggio di gas, filtrando dalla finestra della Bron, ingialliva un lembo di selciato coperto di musco, il piede di un muro, corroso dalle fetide umidità d’un acquaio, tutt’un angolo lurido, ingombro di vecchie secchie e di ciottole fesse, dove una magra fusaggine verdeggiava in una pentola.
Si udì un improvviso scricchiolar di spagnolette, il conte fuggì.
Di certo Nana stava per scendere. Tornò davanti al gabinetto di lettura, ove nell’ombra diradata solo da un riverbero di lumicino da notte, il vecchierello non s’era mosso, il profilo rotto dal giornale. Qui, Muffat ricominciò a camminare.
Ora egli spingeva la sua passeggiata un po’ più in là, attraversava la galleria grande, giungendo fino alla galleria Feydean, -gelida e deserta, immersa in una lugubre oscurità, e ritornava indietro, passava davanti al teatro, svoltava l’angolo della galleria S. Marco, arrischiandosi fino alla galleria Montmartre, “dove-una macchina che segava dello zuccaro, in un fondaco di coloniali, fermò la sua attenzione. Ma, al terzo giro, il tiimore- che Nana gli avesse a fuggir dietro le spalle vinse ogni rispetto umano. Si piantò, con l’altro signore, davanti al teatro stesso, scambiandosi a vicenda un’occhiata umilmente fraterna ancor accesa però di un intimo sospetto di rivalità possibile. Alcuni macchinisti che uscivano per fumare la pipa, fra un atto e l’altro, li urtarono, senza che essi avessero il coraggio di lagnarsi. Tre ragazzaccie scarmigliate, in veste sudicie, apparvero sulla soglia, mordendo delle mele, sputandone i torsi: ed essi chinarono il capo, rimasero immoti, affrontando le occhiate impudenti di quelle laide creature, la trivialità delle loro parole; rimasero inzaccherati, insudiciati da quelle donnaccie cui parve buffo gettarsi su di loro, spingendosi a vicenda.
Proprio in quel momento, Nana scendeva i tre scalini. Nel veder Muffat si fe’ bianca, bianca.
— AR! siete voi, balbettò.
Le comparse che sogghignavano, ebbero paura, ravvisandola e rimasero immobili, tutte in fila, col far serio di fantesche sorprese dalla padrona nell’atto di far qualche malanno. Il signore alto e biondo s’era fatto in disparte triste insieme e rassicurato.
— Ebbene! datemi braccio, riprese Nana con impazienza.
Se ne andarono piano, piano.
Il conte che aveva preparato molte domande, non trovava nulla da dire. Fu lei, che con rapida voce, contò tutta una
storia: alle otto era ancora dalla zia; poi, vedendo Gigino
star molto meglio, aveva avuto l’idea di recarsi un momento
«al teatro.
— Qualche affare importante? chiese Ini.
— Sì, una nuova produzione, rispose lei, dopo un momento di esitanza. Si voleva sentire il mio parere.
Egli capì che mentiva, Ma la tepida sensazione del suo braccio, fortemente appoggiato sul suo, lo lasciava senza forza;
non aveva più nè collera, nè rancore per la lunga attesa”;
l’unico suo pensiero era di tenersela lì, ora che la era in
sua mano.
L’indomani, procurerebbe di sapere ciò che era venutaTa fare nel suo camerino. Nana, sempre perplessa, visibilmente in preda alla cura interna di una persona che cerca riaversi e prendere un partito, si fermò, svoltando l’angolo della.
galleria delle Varietà, davanti la vetrina di una bottega di
ventagli. Inserisci il testo da non formattare — Tò! mormorò, è graziosa quella guarnizione di madredreperla con quelle piume.
Poi, in tono indifferente:
— Mi accompagni dunque a casa?
© — Ma senza dubbio, disse lui sorpreso, poichè il tuo bambino sta meglio.
Allora rimpianse la storiella inventata. Forse Gigino era
preso da una nuova crisi; e parlò di ritornare alle Babi gnolles.
’Ma siccome si offriva di accompagnarla, così non insistette.
Per un momento provò, il sordo furore d’una donna che si sente presa al laccio, e che de ve mostrarsi mansueta. Infine si rassegnò, e risolvette di gaadagnar tempo; purchè arrivasse a sbarazzarsi del conte verso la mezzanotte, tutto andrebbe a seconda del suo desiderio.
— È vero, sei scapolo questa sera, mormorò lei. Tua moglie non torna che domattina, non è vero?
— Sì, rispose Muffat, alquanto impacciato nel sentirla parlare famigliarmente della contessa.
+ Ma essa insistette, chiedendo l’ora della corsa, volendo sa-’
pere se si recherebbe alla stazione ad aspettarla. E rallentava ancora il passo, come se le botteghe le destassero il più grande interesse.
— Guarda! disse fermandosi di nuovo davanti un gioielliere, che braccialetto originale!;
Adorava quel passaggio dei Panorama. Era una passione
che le rimaneva della sua giovinezza per l’orpello dell’articolo parigino, i gioielli falsi, lo zingo dorato e il cartone simulante il cuoio. Quando passava, non sapeva spicciarsi dalle vetrine, come al tempo in cui trasc inava per via le sue ciabatte da monella, fermandosi estatica davanti le confetture d’un pasticciere, ascoltando i suoni dell’organetto in una bottega vicina, invaghita sopratutto del gusto chiassoso, dei gingilli a buon mercato, degli utensili da lavoro contenuti in guscie di noce, delle gierle da cenciaiuolo per gli stuzzicadenti, delle colonne Vendòme e degli obelischi portanti dei termometri.
Ma, in quella sera, era troppo SOssopra, guardava senza ve ZoLa — Nana. 13. dere, la era seccata alla fine di non essere libera; e nella sua sorda rivolta, cresceva in lei la smania furiosa di fare una corbelleria.
Il bel guadagno, invero, d’aver degli uomini per bene!
Aveva divorato il principe e Steiner per dei capricci puerili, — senza sapere dove il denaro se ne andava. Il suo appartamento del Boulevard Haussman non era nemmeno interamente
mobigliato: solo, il salotto in raso rosso, stonava, troppo a dorno e troppo zeppo. E tuttavia i creditori la tormentavano più di una volta, quando non aveva un soldo; il che le cagionava una continua sorpresa, poichè ella si citava come un modello di economia.
Da un mese, quel ladro di Steiner trovava a mala pena un migliaio di franchi, i giorni in cui ella minacciava di metterlo alla porta, se non glieli avesse portati.
In quanto a Maffat, era un idiota, ignorava quanto si doveva dare, ed essa non poteva fargli carico della sua spi lorceria.:
Ah! come avrebbe piantato tutta questa gente, se non si
fosse ripetuta, venti volte al giorno, delle massime di buona condotta! Conveniva esser ragionevole, Zoè lo diceva ogni mattina; ella stessa aveva sempre presente un ricordo religioso, la visione regale di Charmont, incessantemente evocata ed ingigantita.
Ed era perciò che, malgrado un fremito di collera repressa, ella si faceva sottomessa al braccio del conte, andando da una vetrina all’altra, in mezzo ai passeggieri, ormai più diradati.
AI di fuori, il lastrico 8’ asciugava, un vento fresco che
infilava la galleria, spazzava via l’aria calda di sotto all’invetriata, sgomentava le.lampade colorate, le ribalte a gas, il gigantesco ventaglio ardente, come un fuoco d’artificio. Alla porta d’un restaurant, un cameriere spegneva i globi, mentre nelle botteghe vuote e fiammeggianti, le padrone al banco, immobili, sembravano essersi addormentate ad occhi aperti.
“— Oh! che amore! riprese Nana all’ultima vetrina, tornando “EGRISHTO qualche passo per intenerirsi alla vista d’una
’ levriera in porcellana, con una zampa levata, davanti ad un nido nascosto fra le rose,
Lasciarono finalmente il passaggio, ed essa non volle carrozza. Il tempo era buonissimo, diceva lei; d’altronde nulla li affrettava, sarebbe delizioso rincasare a piedi.
Poi, arrivata davanti al Caffè Inglese, ebbe una voglia, parlò di mangiare delle ostriche, raccontando che non aveva pigliato nulla dal mattino, causa la malattia di Gigino.
Muffat non ardì contrariarla. Egli non si mostrava ancora in pubblico con lei, chiese uno stanzino riservato, e s’avviò lesto lungo i corritoi. Essa lo seguiva disinvolta, da donna pratica della casa, e stavano per entrare in un gabinetto di cui un cameriere teneva la porta aperta, quando, da una sala vicina, ove rumoreggiava una tempesta di risa e di grida, un uomo uscì repentinamente. Era Daghuenet.
— Tol Nana! gridò egli.
Il conte era Scomparso frettolosamente nel gabinetto, di cui la porta rimase socchiusa. Ma nel mentre il suo dorso rotondo scompariva, Daghuenet ammicò, aggiungendo in tono di canzonatura:
— Caspita! come ci vai! Li pigli alle Tulleries, ora!
Nana sorrise, col dito sulle labbra per pregarlo di tacere, Lo vedeva animatissimo, felice però d’incontrarlo lì, conservandogli un resto di tenerezza, malgrado la porcheria di non riconoscerla, quand’era con un signore della buona società.
’— Come te la passi? domandò lei amichevolmente.
— Metto senno. Davvero, penso a pigliar Moglie. Ella si strinse nelle spalle con aria di compassione. Ma lui, scherzando, continuava; diceva che non era una vita tollerabile quella di guadagnare alla Borsa tutt’al più quanto bastava per dare dei fiori alle signore, per rimanere almeno un gio vane come si deve.
Le sue trecentomila lire gli erano durate diciotto mesi. Yo leva essere pratico, sposerebbe una grossa dote e finirebbe prefetto, come suo padre. Nana durava a sorridere, incredula; additò la sala con un cenno del capo.
— Con chi sei là dentro?
— 0h, con un’intera brigata, diss’egli, scordando i suoi progetti sotto una follata d’ebbrezza. Figurati che Lea racconta il suo viaggio in Egitto: gli è d’un buffo! C’è una storia di bagno...
E raccontò la storia. Nana s’indugiava con compiacenza; avevano finito per addossarsi, l’uno davanti all’altro nel corritoio. Dei becchi di gas ardevano sotto il basso soffitto, un odore vago di cucina dormiva fra le pieghe degli addobbi.
Tratto, tratto, per intendersi, allorchè lo strépito della sala.
raddoppiava, erano costretti ad avvicinare i loro volti. Tatti.
— i venti secondi un cameriere, carico di piatti, trovando il passo impedito nell’andito, li spostava; ma essi, senz’interrompersi, si stringevano contro il muro, ciarlando placidi, come in casa loro; in mezzo al vociare degli avventori e allo scompiglio del servizio.
— Guarda un po’, mormorò il giovane accennaAndole collo sguardo la porta del gabinetto in cui Muffat era scomparso.
Guardarono entrambi. La porta aveva lievi fremiti, un soffio sembrava agitarla. Alla fine, con estrema lentezza, si chiuse, senza il menomo rumore; essi scambiarono una risata silenziosa. Il conte doveva avere una faccia assai buffa, solo, là dentro.
«— A proposito! domandò lei, hai letto l’articolo di Fauchery sul mio conto?
— Sì, Za Mosca d’oro, rispose Daghuenet; io non te ne parlava, temendo di darti dispiacere.
— Dispiacere, perchè? E lunghissimo, quel suo articolo.
Era lusingata Che il Figaro si occupasse della sua persona.
Senza gli schiarimenti del suo parrucchiere, Francesco, che le aveva portato il giornale, essa non avrebbe capito che sì trattava di lei.
Daghuenet l’esaminava con un’occhiata di sbieco, ghignando della sua aria fanfarona. Infine, poichè la era con-.
tenta lei, tutti dovevano esserlo.
— Scusate! gridò un cameriere, separandoli, portando a due: mani una bomba gelata.
Nana aveva fatto un passo verso il salottino, in cui Muffat:
aspettava.
— Addio dunque, riprese Daghuenet. Va a ritrovare il tuo cornuto. Di nuovo ella si fermò.
— Perchè lo chiami cornuto?
— Perchè lo è, perbacco!
Essa ritornò ad addossarsi al muro, profondamente interessata.
— Ah! disse semplicemente.
— Come! tu non lo sapevi? Sua moglie fa all’amore con Fauchery, cara mia.. la cosa deve aver cofhinciato in campagna... Or ora, Fauchery m’’ ha lasciato, mentre io veniva qui, e sospetto che abbia un ritrovo in casa sua, per questa sera. Hannb inventato un viaggio, io credo.
— Nana rimase muta sotto il colpo dell’emozione.
— Lo sospettava! disse alla fine battendo sulle sue coscie.
L’avevo indovinato, al solo vederla, quella volta, sullo stradone... Se è mai possibile! una donna onesta ingannare suo marito, e con quel figuro di Fauchery! Gliene insegnerà di belle, colui.
— Oh! mormorò Daghuenet malignamente; non è il suo primo passo. La ne sa forse quanto lui.
“Allora, essa ebbe un’esclamazione di sdegno.
— Davvero!... Ve’ che gente! è una cosa schifosa!
— . Scusate! gridò un cameriere carico di bottiglie, separandoli.
Daghuenet la ricondusse, la trattenne un istante per la mano. Aveva preso la sua voce cristallina, una voce dalle note d’armonica che era causa di tutto ìl suo successo presso quelle signore.
— Addio, carina... Sai, ti amo sempre.
Ella si svincolò; e sorridente, la voce coperta da una salva di grida e-di evviva, che faceva tremar la porta della sala:
— Babbeo, disse, l’è finita... Ma non monta. Vieni su, uno di questi giorni. Faremo quattro ciarle.
Poi, ritornando molto seria, e col tono di una borghese stomacata:
— Ah! gli è cornuto... Ebbene! caro mio, gli è un brutto affare lo, questo m’ha sempre disgustata, un becco.
Quando entrò nel salottino finalmente, vide Muffat, seduto.
su di uno stretto divano, che si rassegnava, il viso bianco, lo mani nervose. Ei non le fece alcun rimprovero. Lei, tutta.
sossopra, era divisa fra la compassione e lo sprezzo. Quel povero uomo che una donnaccia tradiva così indegnamente?
Aveva voglia di gettarglisi al collo per consolarlo.
Ma dopo tutto, era giusto, era un cretino colle donne; ciò gli servirebbe di lezione. Tuttavia, la pietà la vinse. Non lo piantò, dopo mangiate le ostriche, come se l’era prefisso. Rimasero appena un quarto d’ora al Caffè Inglese, e rientrarono insieme al boulevard Haussmann.
Erano le undici; prima di mezzanotte, essa avrebbe ben trovato un mezzo benigno di congedarlo i
Per prudenza, nell’anticamera, diede un ordine a Zoè:
— Tu starai a spiarlo, e gli raccomanderai di non far rumore, se l’altro è ancora con me i
— Ma dove lo metterò, signora?
— Tienlo in cucina. È la più sicura.
Muffat, in camera, si toglieva già il soprabito. Vi ardeva un gran fuoco. Era sempre la stessa camera col suo mobiglio di palissandro, le sue tappezzerie e i suoi sedili in damasco rabescato, a gran fiori azzurri su fondo grigio. Due volte, Nana aveva sognato di rinnovarla, la prima tutto in velluto “nero, la seconda in raso bianco, con nodi color rosa; ma non appena Steiner acconsentiva, essa esigeva la somma che sarebbe costato quel cambiamento, per sciuparla. Non aveva avuto che il capriccio di una pelle di tigre davanti al camino, e di una lampada di cristallo da appendersi al palco.
— Io non ho punto sonno, non vo a letto, disse ella, quando.
furono chiusi in camera.
Il conte le obbediva colla sommessione d’un uomo che non teme più d’esser veduto. La sua unica cura era di non indisporla.
— — Come ti piace, mormorò lui.
Però, si levò ancora gli stivaletti, prima di sedersi d’accanto al fuoco.
Uno dei piaceri di Nana era di spogliarsi in faccia alla specchiera del suo armadio, nella quale la si vedeva fino ai piedi;; lasciava cader giù perfino la camicia, poi, affatto ignuda, si abbandonava come in un obblio, guardandosi a lungo. Era
s
una passione del suo corpo, un’estasi pel raso della sua pelle e della linea flessuosa del suo busto che la teneva, seria éd attenta, assorta in un amore di sè medesima; spesso il parrucchiere la sorprendeva in quello stato, senza che essa voltasse la testa. Allora Muffat andava in collera, ed essa ne rimaneva meravigliata. Che cosa gli saltava? Non era già per gli altri, era per lei.
Quella sera, volendo vedersi meglio, accese le sei candele dei bracciuoli. Ma mentre lasciava scorrer giù la camicia, si arrestò, preoccupata da un stante; con una domanda a fior di labbro.
— Non hai letto l’articolo del Figaro?... Il giornale è lì
sul tavolino.
Il riso di Daghuenet gli tornava alla memoria, ed era tormentata da un dubbio. Se quel Fauchery l’avesse mai can zonata, si vendicherebbe.
— Si pretende che si tratti di me, là dentro, riprese lei, ostentando un’aria d’indifferenza. Eh! carino, olio ne dici tu?
E, lasciando cadere la camicia, aspettando che Maffat avesse finito la sua lettura, ella rimase nuda.
’Muffat leggeva lentamente. La cronaca di Fauchery, intitolata Za Mosca d’oro, era la storia d’una ragazza, nata da quattro o cinque generazioni di beoni, col sangue guasto da una lunga’ eredità di miseria e di bagordi, che in lei si trasformava in un sconquassamento nervoso del suo sesso femmineo.
Ella era sbocciata in un sobborgo, snl lastrico di Parigi:
e, alta, bella, di carni stupende, come una pianta sorta in pien letamaio, faceva le vendette dei cenciosi e dei derelitti, di cui era il prodotto. Con lei, il putridume che si lasciava fermentare nella plebe, risaliva e ammorbava l’aristocrazia.
Essa diventava una forza della natura, un fermento di distruzione, inconscia ella stessa della sua potenza, corrompendo è disorganizzando Parigi tra le sue coscie di neve, corrompendolo, come ogni mese, le donne, in un dato periodo, corrompono il latte, facendolo inacidire, ed era alla fine dell’articolo che trovavasi il paragone della mosca, una mosca color di sole, involatasi dal mondezzaio, una mosca che succhiava la morte sulle carogne lasciate giacenti lungo le vie, e che, ronzando folleggiante, gettando un falgor di gemme, avvelenava gli uomini col.solo posarsi su di essi, nei palazzi, ove ella entrava dalle finestre.
Muffat alzò il capo, cogli occhi fissi, guardando il fuoco.
— E così? chiese Nana, Ma egli non rispose. Parve voler rileggere la cronaca. Una sensazione di freddo gli scorreva dal cranio sulle spalle.
«Quella cronaca era buttata giù alla peggio con delle capriole di frasi, una esa gerazione di parole impreviste, e dei confronti barocchi. Tuttavia, ei restava colpito da quella lettura, la quale, bruscamente, ridestava in lui tutto quello che non amava punto a rimestarvi da qualche mese.
Allora alzò gli occhi su Nana. Ella era assorta nella sua ammirazione di sè stessa; ripiegava il collo, guardando attentamente un piccolo neo bruno che aveva al disopra del fianco destro; e io toccava colla punta del dito, facendolo sporgere, ripiegandosi maggiormente, trovandolo senza dubbio, leggiadramente bizzarro a quel posto. Poi osservò altre parti del suo corpo compiacendosi, ripresa dalle sue viziose curiosità di fanciulla. Le era sempre una sorpresa il vedersi;.
aveva l’aria stupita e adescata d’una giovinetta che scopre la sua pubertà. Lentamente aperte le braccia per disviluppare ij suo torso di Venere paffuta, piegò la vita, esaminandosi di dorso e di faccia, contemplando il profilo del suo seno e le sfiamate rotondità delle sue coscie. E finì col prender diletto a quel gioco curioso di dondolarsi a destra e a sinistra, colle imocchia allargate, dimenando il busto sulle reni, col fremito continuo d’un’almea che balla la danza del ventre.
Muffat la contemplava. Essa gli faceva paura. Il giornale 1i era caduto di mano. In quel minuto di visione chiara, netta, egli si disprezzava. Era proprio così; intre mesi, essa aveva corrotto la sua vita, si sentiva già guasto fino-al midollo, da laidezze che non avrebbe pur sospettate. Tatto stava per imputridire in lui, ormai. Ebbe coscienza, per un istante, degli accidenti del male, vide lo sfacelo cagionato da questo fermento, lui avvelenato, la sua famiglia distrutta, una parte della società che crollava, e affonderebbe. E, non potendo distorne gli occhi, la guardava fisso, pro curava di riempirsi del disgusto della sua nudità. Nana non
sì moveva più. Un braccio dietro la nuca, una mano presa nell’altra, arrovesciava indietro la testa, allargando i gomiti.
Ei vedeva in iscorcio le sue palpebre socchiuse, la bocca semiaperta, il suo viso innondato da un sorriso amoroso; e, di dietro, il volume dei biondi capelli sciolti che le copriva il dorso d’un vello da leonessa.
Così ripiegata, col fianco teso, ella mostrava le reni solide, il seno duro di una guerriera dai muscoli forti, sotto la granatura, morbida come raso, della pelle. Una linea fina, appena ondulata dalla spalla e dall’anca, scendeva da uno de’ suoi gomiti al piede. Muffat seguiva collo sguardo quel profilo così fiessuoso, quelle faghe di carni bionde soffuse di luce dorata, quelle rotondità in cui la fiamma delle candele metteva dei riflessi di seta. Pensava al suo antico orrore per la donna, al mostro della sacra scrittura, lubrico, dal puzzo di belva. Nana era tutta villosa: una lanugine falva faceva del suo corpo un velluto: mentre nella sua groppa e nelle sue coscie da cavalla, nelle rigonfiatare carnose solcate da pieghe profonde che davano al sesso il velo provocante della loro ombra, c’era qualche cosa della bestia.
Era la bestia dorata, inconscia come una forza, di cui l’odor solo ammorbava il mondo.
Maffat guardava sempre, invaso, sopraffatto, al punto che avendo chiuse le palpebre, per non più vedere, la belva ricomparve in fondo alle tenebre, ingigantita, terribile, esagerando il suo atteggiamento. Ormai, ella sarebbe là, davanti ai suoi occhi, nella sua carne, per sempre.
Ma Nana si raggomitolava sopra sè stessa. Un fremito di tenerezza sembrava esser passato nelle sue membra. Cogli occhi inumiditi, ella sì faceva piccina come per sentirsi maggiormente. Poi, sciolse le mani, le lasciò scivolare lungo il corpo fino alle poppe, ch’ella compresse con una stretta nervosa. E, rimpettita, fondendosi in una carezza di tutto il suo corpo, ella si stropicciò le guancie a destra e a sinistra contro le spalle, vezzeggiandosi. La sua bocca da ghiotta, soffiava su di lei il desiderio. Essa allungò le labbra, si baciò a lungo presso l’ascella, ridendo all’altra Nana, che anch’essa biaciavasi nello specchio.
Allora Muffat ebbe un sospiro cupo e prolungato. Quel piacere solitario lo inaspriva. Bruscamente, tutto in lui fu travolto, come da un turbine. Afferrò Nana attraverso il corpo, in uno slancio di brutalità, e la gettò sul tappeto.
— Lasciami, gridò lei, mi fa male!
Egli aveva coscienza della sua disfatta, la sapeva stupida, laida e bugiarda, e la voleva quantunque appestata.
— Oh! la è stupida! diss’ella furente, quand’egli le permise di rialzarsi.
Però, ella si calmò. Adesso, ei se ne andrebbe. Dopo aver messa una camicia da notte guarnita di trine, venne a sedersi per terra, davanti al fuoco.
Era il suo posto favorito.
Siccome ella lo interrogava di nuovo intorno alla cronaca di Fauchery, Muffat rispose vagamente, desideroso di evitare una scena.
D’altronde, essa dichiarò che si infischiava di Fauchery; poi, cadde in un lungo silenzio, riflettendo al modo di mandar via il conte. Avrebbe voluto farlo in modo cortese, poiché era, dopo tutto, bonaria, e le dava noia il far pena ad altrui; tanto più che costui era cornuto, idea che aveva finito coll’intenerirla.
— Allora, diss’ella finalmente, gli è domattina che aspetti tua moglie?
Muffat s’era sdraiato sul seggiolone, l’aria assopita, le membra stanche. Disse di sì, con un cenno.
Nana lo riguardava, seria, con una sorda preoccupazione.
Seduta sopra una delle coscie, nel leggiero viluppo delle sue trine, teneva fra mano uno de’ suoi piedi nudi, e, macchinalmente, lo volgeva e lo rivolgeva.
— È molto tempo che sei ammogliato? domandò lei.
— Diciannove anni, rispose il conte.
— Ah!... E tua moglie, è dessa amabile? Vivete bene insieme?
Egli si tacque. Poi, con fare impacciato:
— Sai che ti ho pregata di non mai parlarmi di queste cose. — To! e perchè mo? gridò lei, di subito stizzita. Non la mangierò già, tua moglie, sta certo, per parlare di lei... Caro mio, tutte le donne si valgono...
Ma s’interruppe, temendo di dirne troppo. Solamente prese un’aria di superiorità, perchè essa si credeva buonissima.
Quel poveraccio, bisognava risparmiarlo. D’altronde, le era venuta un’idea gaia; sorrideva esaminandolo. Essa riprese:
— Di’ un po’, non t’ho contato la storia che Fauchery fa correre sul conto tuo... Quello è una vipera! Non gli tengo rancore, poichè il suo articolo è passabile: ma ad ogni modo è una vera vipera.
E, ridendo più forte, lasciando andare il suo piede, si strascinò e venne ad appoggiare il suo seno contro i ginocchi del conte.
— Immaginati...! egli giura che quando hai preso moglie...
eri ancora... Eh! lo eri ancora?... Di’ è vero?
Essa lo incalzava collo sguardo, aveva rialzate le mani fino alle spalle di lui, e lo scoteva per strappargli questa confessione.
— Senza dubbio, rispose egli finalmente, in tono grave.
Allora, essa gli ricadde ai piedi, in una crisi di pazza ilarità, balbettando, dandogli dei lievi colpi.
— No! questa è impagabile! non ci sei che tu.. sei un fenomeno... Ma, poveraccio mio, tu devi essere stato d’una goffaggine...! Quando un uomo non sa, la è sempre così buffa!
Avrei voluto vedervi, per esempio!.. E la è andata bene?
Raccontami un po’. Oh! te ne prego, racconta.
Lo assediò di domande, chiedendogli ogni cosa, volendo i
dettagli. E rideva così di gusto, con scrosci repenti che la
facevano contorcersi tutta, la camicia scivolata e rimboccata, la pelle dorata dal fuoco ardente, che il conte a poco a poco, le narrò la sua prima notte di nozze. Non provava più alcun malessere..
Aveva finito col divertirsi anche lui, nello spiegare, secondo l’espressione conveniente di Nana, «in qual modo l’aveva perduta...»
Solamente, sceglieva le parole, per un residuo di vergogna.
La giovane, in vena, lo interrogava sulla contessa. La era fatta divinamente, ma un vero diacciolo, a quanto ei diceva. — Oh! sta tranquilla, mormorò vigliaccamente, non hai motivo d’esser gelosa.
Nana aveva smesso di ridere. Riprese il suo sula la schiena al fuoco, riunendo colle due mani congiunte le gi-0 nocchia sotto il mento. E, seria, seria, dichiarò:
— Mio caro, la è una grama faccenda aver l’aria goffa davanti a sua moglie, la prima sera.
— Perché? chiese il conte sorpreso.
— Perché di sì, rispose lei lentamente, in tono dottorale.
Faceva da professore, crollava il capo. Tuttavia degnò spiegarsi più chiaramente.
— Vedi, io, io lo so come vanno le cose... Ebbene! ragazzo mio, alle donne non garbano punto i citrulli. Non dicono nulla perchè, capisci, è questione di pudore... Ma sta sicuro che la pensano lunga... E tosto o tardi, quando non si ha saputo, esse si provvedono altrove... Eccoti, burlone!
Egli aveva l’aria di non capire. Allora precisò i fatti. Sì fece materna, gli dava questa lezione, da camerata, per bontà di cuore. Dacchè lo sapeva ingannato, quel segreto le dava pena, aveva una pazza voglia di discorrerne con luì.
— Dio mio! io parlo di cose che non mi riguardano... Dico così, perché io penso che ognuno dovrebbe esser felice... Noi sì discorre, n’è vero? Vediamo, tu mi devi rispondere schiettamente.
Ma s’interruppe per mutar positura. Si abbrustoliva.
— Fa un bel caldo, eh? Ho la schiena cotta... Aspetta, voglio cuocermi un pochino il ventre... Questo sì che fa bene per i dolori!
E, quando si fu rivoltata, col petto al fuoco, i piedi ripiegati sotto le coscie:
— Vediamo: tu non avvicini più tua moglie?
— No, te lo giuro, disse Muffat, temendo di una scena.
— E credi che la sia proprio un pezzo di legno?
Ei rispose affermativamente, abbassando il mento.
— Ed è perciò che mi ami?... Via, rispondi! non andrò in collera.
Egli ripeté lo stesso cenno.
— Benissimo! conchiuse lei. Me lo immaginava... Ah! poveraccio!... Tu conosci mia zia Lerat? Quando verrà, fatti contare la storia del frattivendolo che sta dicontro alla sua abitazione... Figurati che questo fruttivendolo.... Giuraddio?
come scotta cotesto fuoco! Bisogna che mi rigiri. Voglio cuocermi il lato sinistro ora.
Mentre presentava il fianco alla fiamma, le venne un’idea burlesca, e, felice di vedersi così paffuta e così rosea nel riflesso delle brage, motteggiò sè stessa bonariamente:
— Eh? sembro un’oca... Oh ecco appunto, un’oca allo spiedo... Giro, giro... In verità sto cuocendo nel mio sugo.
Tornava a ridere allegramente, allorchè si udì un sbattacchiar di porte, ed un rumore di voci. Muffat, sorpreso, l’interrogò con un’occhiata. Ella si rifece seria e parve inquieta.
Era sicuramente il gatto di Zoè, una maledetta bestiaccia che rompeva ogni cosa. Eran le dodici e mezzo.
Che cosa le saltava mai in mente di occuparsi della felicità del suo cornuto. Ora che l’altro era là, bisognava sbarazzarsene, e alla lesta.
— Che dicevi tu? chiese il conte con compiacenza, incantato di trovarla così amabile.
Ma, nel suo desiderio di mandarlo via, cambiando improvvisamente d’umore, essa fu brutale, non misurando più le parole.
— Ah! sì, il frattivendolo e sua moglie... Ebbene! mio caro, essi non si sono mai toccati, nemmeno, tanto così!...
Lei, capisci.. aveva molto trasporto in proposito. Lui, babbeo, non ha saputo... Sicchè, credendola di legno, si rivolse altrove, a delle donnaccie che lo hanno regalato d’ogni sorta d’orrori, mentre lei, dal canto suo, se la godeva a più non posso con dei giovanotti un po’ più esperti di quel citrullo di suo marito... E la succede sempre così, colpa il non intendersi. Lo so bene, io!
Muffat, impallidito, comprendendo finalmente le allusioni, volle farla tacere.
Ma essa era troppo bene avviata.
— No, non mi romper le tasche! Se voi altri non foste dei bestioni, sareste altrettanto amabili colle vostre donne, quanto lo siete presso di noi; e se le vostre mogli non fossero delle oche, si darebbero, per conservarvi, la stessa briga che noi prendiamo per avervi... Tutto questo, non è che delle smorfie... Ecco, bimbo mio, mettiti questo in tasca.
— Non istate a parlare delle donne oneste, diss’egli duramente. Voi non le conoscete.
D’un colpo Nana si rialzò sulle ginocchia.
— Non le conosco! Ma se non sono nemmanco pulite le tue donne oneste! No, non sono pulite! Ti sfido di trovarne una che osi mostrarsi, come io mi trovo là, in questo momento... Affè! mì fai ridere con le tue donne oneste! Non mi fare andar fuori dei gangheri, non costringermi a dirti delle cose, che rimpiangerei in seguito d’averti detto.
Il conte, per tutta risposta, masticò sordamente fra’ denti una ingiuria.
A sua volta Nana si fe’ bianca. Lo guardò fisso per alcuni secondi, senza parlare. Poi, colla sua voce chiara:
— Che faresti, se tua moglie t'ingannasse?
Egli ebbe un gesto minaccioso.
— Ebbene! e se t’ingannassi io?
— Oh! tu, mormorò lui, stringendosi nelle spalle.
Di certo, Nana non era cattiva. Fin dalle prime parole, ella resisteva alla voglia di buttargli in faccia la sua posizione di becco. Avrebbe voluto parlargli in proposito, confidenzialmente, con calma. Ma alla fin fine, egli la Inaspriva, era tempo di finirla.
— Quand’è così, riprese, non so che diavolo tu faccia in casa mia... Mi fai stragger di noia da due ore... Va piuttosto a trovar tua moglie, che è occupata con Fauchery. Sì, per l’appunto, via Taitbout, all’angolo di via Provenza... Ti dò anche l’indirizzo, vedi. Poi, trionfante, vedendo Muffat rizzarsi vacillante, come un bue colpito dalla mazza del beccalo:
— Se le donne oneste si mettono a farci concorrenza, e ci rubano i nostri amanti!... In verità, si fanno onore, le donne oneste!
Ma non potè continuare. Con una mossa rapida e terribile, egli l’aveva gettata a terra, lunga, distesa; e, alzando il tacco, voleva schiacciarle la testa per farla tacere. Per un momento, essa ebbe una paura orrenda. Lui, acciecato, frenetico, s’era messo a camminare per la stanza. Allora, il silenzio strozzato che serbava, la lotta fierissima da cui era scosso, la commossero fino alle lagrime. Ella sentiva un rimpianto mortale di ciò che aveva fatto, e, raggomitolandosi davanti al fuoco per cuocersi il lato destro, si provò a consolarlo.
— Ti giuro, mio care, io credevo che tu lo sapessi. Altrimenti non avrei parlato, t’assicuro... Poi, non è forse vero.
Io non affermo nulla, io. M’han detto questo, la gente ne parla; ma che cosa prova tutto ciò?... Oh! va un po’là, hai ben torto di pigliartela tanto. Se fossi un uomo io, me ne infischierei bravamente delle donne! Le donne, vedi, in alto come in basso, le si valgono tutte; tutte buontempone e compagnia.
Maltrattava le donne, per abnegazione, volendo rendergli il colpo meno crudele. Ma egli non l’ascoltava, non l’udiva, Ssambettando qua e là, aveva rimesso stivali e soprabito: per un momento ancora, corse e ricorse per la stanza. Poi, in un ultimo slancio, come se ritrovasse finalmente la porta, l’infilò e faggi. Nana rimase assai indispettita.
— Ebbene! buon viaggio! continuò ad alta voce, benchè sola. Anche costui è molto cortese, quando gli si parla!... Ed io che andava schermendomi!... Mi son arresa la prima, gli ho fatto un mondo di scuse, perdinci!... E d’altronde, perchè stava lì a stuzzicarmi?
Tuttavia, ella si rimaneva malcontenta, grattandosi le gambe — — @ due mani. Poi sì die’ pace.
— Ah! basta! Non è colpa mia se gli hanno messo le corna.
E, cotta da tutti i lati, calda come una quaglia, andò a cacciarsi in letto, suonando per avvertire Zoè d’introdurre quell’altro, che aspettava in cucina.
Al di fuori, Muffat camminò velocemente. Un nuovo acquazzone era appena caduto. Egli scivolava sul lubrico selciato.
Mentre guardava in aria, distratto, vide degli strappi di nubi, color di faliggine, che correvano davanti alla luna. A quell’ora, sul boulevard Haussmann, i passeggieri si facevano radi, Egli si avviò lungo i cantieri dell’Opera, cercando le tenebre, balbettando parole sconnesse. Quella donna mentiva. Essa aveva inventato una cosa simile per stupidaggine, per crudeltà. Egli avrebbe dovuto schiacciarle il capo quando la teneva sotto il suo tallone. Era troppo l’obbrobrio, final mente; mai più la rivedrebbe, non la toccherebbe più mai; o bisognerebbe che fosse ben vigliacco.
E respirava forte, con un senso di liberazione. Ah! quel mostro nudo, stupido, cuocendo come un’ oca, insozzando di bava tutto ciò ch’egli rispettava da quarant’anni!
La luna si era scoperta, uno strato di luce bianca piovve sulla via deserta. Ebbe paura e scoppiò in singhiozzi, repentinamente disperato, impazzito, come fosse caduto in un vuoto immenso.
— Mio Dio! balbettò, la è finita, non c’è più nulla.
Lungo i boulevards, delle persone in ritardo affrettavano il passo. Si studiò di calmarsi. Il racconto di quella creatura ricominciava sempre nella sua testa in fuoco, avrebbe voluto discutere i fatti. Era l’ indomani mattina che la contessa doveva ritornare dal castello della signora di Chezelles. Nulla, infatti, le avrebbe impedito di ritornare a Parigi la sera prima e di passare la notte in casa di quell’uomo. Gli si affacciavano ora alla mente certe circostanze del loro soggiorno alle Fondette. Una sera, aveva sorpreso Sabina sotto gli alberi, così commossa, che non sapeva rispondergli. L’uomo era là; perchè non sarebbe ella presso di lui, in quel momento?
Più ci pensava, più la cosa diventava possibile; finì col trovarla necessaria, naturale.
Mentre egli si metteva in maniche di camicia presso una donna di mal affare, sua moglie si svestiva nella camera di un amante; nulla di più semplice, nè di più logico.
E ragionando in tal modo, si sforzava di rimaner freddo, calmo. Era la sensazione di una caduta nel delirio della carne, che si allargava, invadeva, trasportava seco il mondo intero, intorno a lui.
Lubriche immagini lo perseguitavano. Nana nuda, evocò di repente Sabina nuda. A quella visione, che le ravvicinava in un vincolo d’ inverecondia sotto lo stesso soffio del desiderio, egli inciampò. Sul lastricato, una vettura poco mancò non lo schiacciasse.
Delle donne, uscendo da un caffè, lo rasentavano ridendo. Allora, ripreso dalle lagrime, malgrado i suoi sforzi, non volendo singhiozzare in faccia alla gente, si gettò in una via oscura e deserta, la via Rossini, dove, lungo le case silenziose, pianse come un fanciullo.
— Tutto è finito, diceva con voce rotta. Non c’è più nulla, non c’è più nulla!
Piangeva così dirottamente, che s’appoggiò col dorso ad una porta, il viso nelle mani molli di pianto. Un rumore di passi lo cacciò di là.
Provava una vergogna, una paura, che lo metteva in fuga dinanzi alla gente, col passo inquieto d’un vagabondo notturno.
Quando si scontrava con qualcuno sul marciapiede, pro curava di prendere un’andatura disinvolta, immaginandosi che si dovesse leggere la sua storia nell’ondeggiare delle sue spalle.
Aveva percorso la via Grange-Batèliere fino alla via del sobborgo Montmartre. La luce delle lampade lo colpì, tornò addietro. Durante un’ora, quasi, percorse così il quartiere, scegliendo i buchi più bui.
Aveva, senza dubbio, una meta a cui i suoi piedi si dirigevano da sè stessi, pazientemente, per una via incessantemente complicata da giri e risvolte.
Finalmente, all’angolo d’una via, alzò gli occhi; era giunto.
Era l’angolo della via Taitbout e della via di Provence. Nel doloroso rintronare del suo cervello, aveva impiegato un’ora per giungere in quel luogo, quando avrebbe potuto esservi in cinque minuti i
Rammentava esser salito una mattina, il mese scorso, da Fauchery, per ringraziarlo d’un articolo sopra un ballo dato alle Tuileries, in cui il giornalista l’aveva nominato..
L’appartamento trovavasi nell’ammezzato, con piccole fi nestre, quadrate, nascoste a mezzo, dietro l’insegna colossale d’una bottega. A sinistra, l’ultima finestra, era attraversata da una striscia di luce vivissima, un raggio di lampada che sfuggiva dalle cortine mal chiuse; e restò, cogli occhi fissi su quella striscia luminosa, assorto, aspettando qualche evento.
La luna era scomparsa in un cielo color d’inchiostro, da cui cadeva una brina gelata. Suonavano le due alla Trinità.
La via di Provence e la via Taitbout si prolungavano buie, colle chiazze vivide dei becchi di gas, che si sommergevano, a distanza, in un vapore giallastro.
Muffat non si moveva. Era quella la camera; ei se la ri- cordava, tappezzata di stoffa rossa, con un letto alla Luigi XIII in fondo. La lampada doveva essere a destra, sul camino.
Senza dubbio erano coricati, poichè non un’ombra passava, la “striscia di luce splendeva, immobile come un riflesso di lampada notturna.
E lui, cogli occhi sempre levati, combinava un piano: suonava, saliva malgrado i richiami del portinaio, sfondava gli usci a colpi di spalla, piombava su quei due in letto, senza dar loro il tempo di sciogliere le loro braccia. Un istante, l’idea che non aveva arme indosso, lo fermò; poi, decise che li strangolerebbe. Riprendeva il suo piano, lo perfezionava, aspettando sempre qualche cosa, un indizio, per esserne certo.
Se un’ombra di donna si fosse mostrata in quel momento, avrebbe suonato. Ma il pensiero, che forse s’ingannava, lo agghiacciò. Che direbbe egli mai? Dei dubbi Io riassalivano; sua moglie non poteva essere con quell’uomo; sarebbe mostruoso. Tuttavia, rimaneva, invaso a poco a poco da.un torpore che andava fondendosi in una mollezza, smarrito quasi da quella lunga attesa, che il fissar continuo del suo sguardo riempiva d’allucinazioni.
Venne un acquazzone. Due guardie urbane si avvicinavano, ed egli dovette Jasciare il canto della porta, in cui si era rifugiato. Allorchè quelle si furono perdute nella via di Provence, tornò, bagnato, tremante, scosso da brividi. La striscia luminosa sbarrava sempre la finestra. Questa volta, stava per andarsene, quando un’ombra passò. Fu così rapida ch’egli credette d’essersi ingannato. Ma, una dopo l’altra, altre macchie nere comparvero e sparirono, tatto un tramestio successe nella camera. Lui, inchiodato nuovamente sul marciapiede, provava una sensazione di bruciore allo stomaco, intollerabile, aspettando, ormai, per capirci qualche cosa.
Profili di braccia e di gambe che fuggivano; una mano enorme che trasportava qua e là una brocca d’acqua: non discerneva nulla, nettamente, però gli sembrava di ravvisare un’acconciatura da donna. E discuteva; si avrebbe detto la pettinatura di Sabina, solamente, la nuca sembrava troppo sviluppata.
Non sapeva, non capiva più nulla in quel momento. Soffriva talmente di stomaco, in quell’angoscia d’orrenda incertezza, ch’ei si rinserrava contro la porta, per calmarsi, rabbrividendo come un mendico. Poi, siccome, malgrado tutto, i suoi occhi non si staccavano da quella finestra, la sua collera svanì in una fantasia da moralista; si vedeva deputato, parlava ad una assemblea, tuonava contro la scostumatezza, presagiva delle catastrofi; e rifaceva l’articolo di Fauchery sulla mosca avvelenata, mettendo sè stesso in iscena, dichiarando che non v’era più società possibile, con questi costumi di Basso-Impero. Ciò gli fece bene. Ma le ombre erano scomparse. Senza dubbio sì erane ricoricati.
Lui, guardava sempre, aspettava ancora.
Suonarono le tre, poi le quattro; non sapeva partirsene.
Quando veniva giù qualche acquazzone, si rincantucciava aneor più nell’angolo della porta, colle gambe inzaccherate.
Non passava più alcuno. A volte, i suoi occhi si chiudevano, arsi per così dire da quella striscia di luce, sulla quale si ostinavano, fissamente, con una testardaggine stolta. A due riprese ancora le ombre ricomparvero rapide, ripetendo li stessi atti, riportando in giro lo stesso profilo d’un vaso d’acqua gigantesco; e due volte tutto si rifece calmo, la lampada diffuse il suo chiarore discreto da lume da notte.
Quelle ombre aumentavano sicuramente. D’altronde, un’idea subitanea venne a tranquillizzarlo, ritardando il momento di agire; non aveva che ad aspettare sua moglie al suo uscire di là; saprebbe ben riconoscere Sabina. Nulla di più semplice, nessun scandalo, ed una certezza. Bastava rimaner lì.
Tutte le sensazioni confuse che l’avevano agitato, si risolvevano ormai in una sorda smania di sapere. Ma il tedio lo addormiva sotto quella porta: per distrarsi si mise a calcolare il tempo che gli toccherebbe d’aspettare. Sabina doveva trovarsi verso le nove alla stazione; gli rimanevano quasi quattr’ore e mezza. Era provvisto di pazienza, non si sarebbe mosso più, trovando un certo fascino nel sognare che quella sua attesa nel buio sarebbe eterna.
Ad un tratto, la striscia di luce sparì.
Quel fatto semplicissimo fu per lui una catastrofe inattesa, qualche cosa di sgradevole, d’inquietante. Evidentemente, avevano spento il lume, stavano per dormire. Era ragionevole a quell’ora! Ma egli se ne stizzì, poiché quella finestra buia, non gli destava più nessun interesse. La guardò ancora per un quarto d’ora, poi se ne stancò, lasciò la porta, e fece alcuni passi sul marciapiede. Passeggiò fino alle cinque, andando, venendo, levando gli occhi di tempo in tempo. La finestra rimase spenta; tratto, tratto, ei si domandava se non avesse sognato di veder vagolare delle ombre, su quei vetri.
Una stanchezza immensa l’opprimeva, una scempiaggine da ebete nella quale dimenticava ciò che stava aspettando in quell’angolo di via, inciampando nel selciato, risvegliandosi di soprassalto, col gelido brivido d’un uomo che non sa più dove si trovi.
Nulla più valeva la pena di pigliarsi dei crucci. Poiché coloro dormivano, conveniva lasciarli dormire. A che pro’ immischiarsi nelle loro faccende? Faceva buio pesto; nessuno mai saprebbe nulla di tutto ciò. E allora tutto in lui, perfino la curiosità, si estinse, travolto in un desiderio di finirla, di cercare da qualche parte un sollievo. Il freddo aumentava, la via gli diventava insopportabile; due volte si allontanò, tornò addietro, strascicando i piedi, per riallontanarsi maggiormente. La era finita, non ci era più nulla; ridiscese fino al boulevard e non ritornò altro.
Fa una corsa tetra per le vie. Camminava lentamente, sempre con lo stesso passo, rasentando i muri. I suoi talloni battevano sonori sul sasso, non vedeva altro che la sua ombra girare, ora ingrandita, ora impicciolita, ad ogni becco di gas; ciò lo cullava, l’occupava meccanicamente. Più tardi, non seppe giammai per dove fosse passato; gli sembrava di essersi trascinato per dell’ore, in giro, dentro di un circo.
Un unico ricordo, gli rimase, distinto. Senza potersi spiegare il come, ei si trovava col viso appoggiato al cancello del passaggio dei Panorama, tenendosi colle due mani alle sbarre; non le scoteva; no; procurava semplicemente di -vedere per entro quell’androne, preso da un’emozione da cui tutto il suo essere era turbato, e il cuore rigonfio.
Ma non poteva discernere cosa alcuna; un’onda di tenebre invadeva la galleria deserta, il vento che vi si ingolfava dalla via di S. Marco, gli soffiava in viso un’umidità di cantina. E vi si ostinava.
Poi, come se uscisse da un sogno, rimase stupito, chiese 4 sè stesso, che cosa cercasse a quell’ora, stretto contro a quel cancello, con un tal struggimento, che le sbarre erano penetrate nella faccia. Allora, aveva ripreso il suo cammino, disperato, il cuore pieno di una tristezza estrema, come tradito e solo omai in tutta quella tenebra.
L’alba finalmente comparve, quell’alba smorta delle notti d’inverno, così malinconica sul lastrico fangoso di Parigi.
Muffat era ritornato nelle vie ampie, in costruzione, che si stendevano lungo i cantieri del nuovo Opera.
Stemperato dalla pioggia, sfondato dai carri, il suolo argilloso si era trasformato in un lago di fango. Egli, senza guardare ove metteva i piedi, camminava sempre, scivolando, rimettendosi. Il risveglio di Parigi, gli stormi di spazzaturai, e i primi gruppi d’operai, gli cagionavano un nuovo sgomènto, mano mano che il giorno cresceva.
Lo si guardava con sorpresa, così malconcio, infangato, l’aria smarrita, il cappello inzuppato d’acqua. Per un pezzo, si rifugiò contro le palizzate, fra le impalcature dei fabbricati. Nel vuoto del suo essere, una sola idea restava, quella che egli era molto infelice. Allora, egli pensò a Dio.
Quest’idea subitanea d’un soccorso divino, d’una sovrumana consolazione, lo sorprese come una cosa inaspettata e singolare; essa risvegliava in lui l’immagine del signor Venot, la sua piccola faccia, i suoi denti guasti. Certo; il signor Venot, che egli metteva alla desolazione da più mesi, evitando di vederlo, sarebbe ben felice, se andasse a battere alla sua porta, per piangere fra le sue braccia.
In addietro, Dio gli teneva in serbo tutte le sue misericordie. Al minimo dispiacere, al più piccolo ostacolo che attraversasse la sua vita, egli entrava in una chiesa, s’inginocchiava, umiliava il suo nalla davanti la suprema potenza; e ne usciva fortificato della preghiera, pronto al distacco dei beni di questo mondo, coll’unico desiderio della sua eterna salvezza.
Ma, oggidì, egli non adempiva più le sue pratiche religiose che a scosse, ad intervalli, nelle ore in cui il terrore dell’inferno lo riprendeva; ogni sorta di mollezze l’avevano invaso; Nana turbava i suoi doveri.
E l’idea di Dio lo stupiva. Perchè non aveva egli pensato a Dio sull’istante, in quella crisi spaventosa, in cui crollava e si sprofondava la sua debole umanità?
Tuttavia, nel suo penoso cammino, cercò di una chiesa.
Non si ricordava più, l’ora mattutina gli scambiava le vie.
Poi mentre svoltava un angolo della via della Chaussée-d’Antin, vi scorse in fondo la Trinità, un campanile vago, perduto nella nebbia.
Le statue bianche, dominanti il giardino spogliato, sembravano mettere delle Veneri freddolose fra le foglie ingiallite d’un parco. Sotto il portico respirò un istante, affaticato dalla salita della vasta scalinata. Poi, entrò.
La chiesa era gelata, col suo calorifero spento dal di prima, le alte vòlte ripiene di una nebbia fina, che era filtrata dalle invetriate. Un’ombra stendevasi nelle navate, non c’era un’anima colà, si sentiva solamente, in fondo a quella notte losca, un rumor di ciabatte, qualche scaccino trascinando i piedi, nel malumore del risvegliarsi.
Lui, pertanto, dopo aver urtato in una sbandata di seggiole, smarrito, il cuor gonfio di lagrime, era caduto in ginocchio contro la balaustrata di una piccola cappella, presso una delle pile.
Aveva congiunto le mani, cercava delle preghiere, tutto il suo essere aspirava ad abbandonarsi in uno slancio. Ma le sue labbra sole balbettavano delle parole, sempre il suo spirito fuggiva, ritornava al di fuoti, si rimetteva in cammino lungo le vie, senza riposo, come sotto la sferza di un’implacabile necessità.
E ripeteva: «O mio Dio, venite in mio soccorso! O mio Dio, non abbondonate la vostra creatura che si rimette alla vostra giustizia! O mio Dio, io vi adoro, mi lascierete voi perire sotto i colpi dei vostri nemici?»
Nulla gli rispondeva, l’ombra ed il freddo gli cadevano sulle spalle, il rumore delle ciabatte, da lontano, continuava e gl’impediva di pregare.
Non sentiva più che quel rumore irritante, nella chiesa deserta, ove il colpo di scopa mattutino non era nemmeno stato dato, prima ancora del mattutino riscaldo delle prime messe.
Allora, aiutandosi coll’appoggio d’una sedia, si rialzò con uno scricchiolìo delle ginocchia. Dio non vi era ancora.
Perchè avrebb’egli pianto nelle braccia del signor Venot?
Quell’uomo non poteva nulla.
E, macchinalmente, ritornò da Nana.
Al di fuori, avendo sdrucciolato, sentì le lagrime venirgli
agli occhi, senza collera contro la sorte, semplicemente debole e malato. Alla fine, era troppo stanco, aveva preso su troppa pioggia, soffriva troppo pel freddo.
L’idea di rientrare nel suo tetro palazzo di via Miromesnil lo agghiacciava..
Da Nana, la porta era chiusa, dovette aspettare che comparisse il portinaio ad aprire. Salendo le scale, sorrideva, già penetrato dal calore molle di quella nicchia, dove stava per poter stendersi e dormire.
Allorché Zoè gli aperse, fe’ un atto di stupore e d’inquietudine. La signora, colta da un’atroce emicrania, non aveva chiuso occhio. Basta, poteva sempre vedere se la signora fosse ancor desta, E scivolò nella camera, mentr’egli cadeva su di un seggiolone nel salotto. Ma, quasi immediatamente, Nana comparve. Era balzata di letto, aveva appena avuto il tempo d’infilare una gonnella, a piedi nudi, i capelli sparsi, la ca micia sgualcita e lacera nel disordine di una notte d’amore.
— Come? sei ancor te? gridò lei tutta rossa.
Ell’accorreva, sotto la sferza della collera, per scacciarlo di là, ella stessa. Ma al vederlo così affranto, così sfinito, provò un ultimo senso di compassione.
— To! sei ben conciato, il mio poveraccio!- riprese più dolcemente. Che cos’è accaduto, dunque?... Eh? li hai spiati, ti sei fatto della bile?
Egli non rispondeva, aveva l’aria d’una bestia atterrata da un colpo di mazza. Nondimeno, ella capì che gli mancavano tuttavia le prove; e per farlo riavere alquanto:
— Lo vedi, m’ingannava. Tua moglie è onesta, parola d’onore!... Adesso, mio caro, bisogna ritornare a casa e coricarti. Ne hai bisogno.
Ei non sì mosse.
— Suvvia, vattene! Io non posso tenerti qui. Non avrai forse la pretesa di rimanere a quest’ora?
— Sì, corichiamoci, balbettò lui.
Ella frenò un gesto violento. La pazienza le scappava. Di ventava egli idiota?
— Suvvia, vattene, disse un’altra volta.
— No.
Allora scoppiò, inasprito, ributtata.
— Ma la è cosa stomachevole.... Comprendi un po’ finalmente; ne ho al di sopra degli occhi di te; va a trovar tua moglie che ti fa becco; sì, la ti fa becco.. son io che te lo dico, ora... Là! hai il tuo conto adesso? finirai tu per lasciarmi?
Gli occhi di Muffat si riempirono di lagrime. Giunse le masi mormorando:
— Corichiamoci.
Di subito Nana perdette la testa, strozzata ella stessa, da singhiozzi nervosi. Si abusava di lei, alla fine! Forse che la riguardavano tutte queste storie? Certo, ella aveva messo ogni cura, ogni riguardo possibile nell’istrairlo, per gentilezza. E gli si volevan far pagare i cocci? No, perdinci! no! Aveva buon cuore, ma non fin a quel punto.
— -Sacr....o! ne ho abbastanza! bestemmiava, battendo il pugno sui mobili. Ah! benone! io che mi riteneva, che voleva esser fedele... Ma, caro mio, domani, io sarei ricca, se dicessi una sola parola. Egli alzò il capo, sorpreso. Mai non aveva pensato e questa questione di denaro. Se ella mostrasse un desiderio, all’istanteegli la soddisferebbe. L’intera sua sostanza le apparteneva.
— No, è troppo tardi, replicò lei rabbiosamente. A me piacciono gli uomini che danno senza che si domandi... No, vedi, un milione per una sola volta, rifiuterei... È finita, ho altro pel capo... Vattene, o non rispondo più nulla. Commetterei un delitto.
E si avanzava verso di lui minacciosa. In quell’esacerbazione di una buona natura spinta agli estremi, convinta del suo diritto e della sua superiorità sulla gente onesta che la opprimeva, la porta si aprì repentinamente e Steiner si presentò. Fu il colmo. Ell’ebbe un’esclamazione terribile.
— Ah! bene! anche quest’altro, ora!
Steiner, stordito dallo scoppio della sua voce, si era fermato.
La presenza inaspettata di Muffat gli dava noia, poiché temeva una spiegazione, che da tre mesi si studiava di scansare. Si dondolava, impacciato, battendo le palpebre, evitando di guardare il conte; E sbuffava, col viso rosso e sconvolto d’un uomo che ha corso Parigi per recare una buona notizia, e si sente invece cadere in una catastrofe.
— Che cosa vuoi, tu? chiese aspramente Nana, dandogli del tu, infischiandosi del conte.
— Io.. io.. balbettò lui. Ho da consegnarvi ciò che sapete.
— Che cosa?
Egli esitava. Due giorni prima, Nana gli aveva dichiarato Che, se non le trovava mille franchi per pagare una cambiale, non lo riceverebbe altro. Da dye giorni batteva il terreno.
Finalmente, aveva completata la somma, il mattino stesso.
— Le mille lire, finì col dire, cavando di tasca una busta.
Nana l’aveva scordato.
— Le mille lire? gridò. Domando io forse l’elemosina? To! ecco cosa ne faccio delle tue mille lire!
E prendendo la busta, gliela scaraventò in faccia, Da ebreo prudente, egli la raccolse faticosamente, guardando la giovane inebetito. Muffat scambiò seco lui uno sguardo disperato, mentr’ella mettevasi i pugni sui fianchi per vociare più forte — Orsù! Avrete presto finito d’insultarmi!... Tu, mio caro, —
son contenta che tu sia pure venuto, perchè così, vedi, la ripulitura sta per essere completa... Andiama, hop! fuori!
Poi, siccome non si affrettavano punto, paralizzati:
— Eh? direte che faccio una corbelleria? Può darsi. Ma mi avete troppo ristucca!... Basta così! ne ho pien le tasche d’essere chic! Se creperò di fame, sarà che l’avrò voluto.
— Una, due, ricusate d’andarvene?... Ebbene! guardate!
Ho gente.
E con un gesto brusco, spalancò l’uscio della sua camera.
Allora, ì due uomini, in mezzo al letto scomposto, videro Fontan.
Questi che non si aspettava di essere messo in mostra a quel modo, aveva le gambe per aria, la camicia volante, avvoltolato come un caprone, colla sua pelle nera, in mezzo alle trine sgualcite. Non si turbò punto, del resto, abituato alle sorprese del palco-scenico. Dopo il primo sobbalzo di stupore trovò un visaccio, un gioco di fisonomia per cavarsela con onore; fece il coniglio, com’egli diceva, sporgendo la bocca, arricciando il naso, con un agitare di tutto intero il muso. La sua testa di Fauno triviale e ribaldo, spirava il vizio. Gli era Fontan che, da otto giorni, Nana andava a pigliare al teatro, vinta dalla pazza smania delle cortigiane per la grottesca bruttezza dei comici brillanti.
— Ecco! diss’ella additandolo, con un gesto da tragica. Muffat, che aveva sopportato tutto, si ribellò sotto quell’affronto ingiurioso.
— Puttana! balbettò.
Ma Nana, già in camera, rivenne, per aver l’ultima parola.
— Puttana? O chè! E tua moglie?
E, andandosene, sbattendosi dietro l’uscio, spinse rumorosamente il chiavistello.
I due, rimasti soli, sì guardarono silenziosi.
Zoè entrò: non li urtò punto, anzi parlò loro con molta, ragionevolezza. Da persona assennata, ella trovava la grulleria della signora un po’ spinta. Però la difendeva; la non durerebbe molto con quell’istrione, bisognava lasciar svampar quella pazzia là. I due uomini si ritirarono. Non avevano proferito una parola.
In istrada, commossi da una fraternità, sì diedero una stretta di mano, silenziosa; @, volgendosi le spalle, trascinandosi a passo lento, s allontanarono, ciascuno dalla sua parte.
Allorchè Muffat rientrò finalmente nel suo palazzo di via Miromesnil, sua moglie arrivava in quel punto. Entrambi s’incontrarono su pel vasto scalone, i cui muri tetri lasciavano cadere un brivido gelato. Alzarono gli occhi e si videro.
Il conte aveva ancora gli abiti inzaccherati, i pallore sconvolto d’un uomo che ritorna dal vizio.
La contessa, come affranta da una nottata in ferrovia, dormiva in piedi, mal ripettinata, e gli occhi pesti.
fine della parte prima.