Naja Tripudians/XXVII
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XXVII.
Immobili, attonite come due bambole, le due fanciulle sedevano sul divano assistendo ad uno spettacolo che non comprendevano, udendo delle parole che non intendevano.
Ma era questo il mondo? Era questa la vita?... E allora Wild-Forest? Che cos’era? Era lo stesso mondo? Popolato della stessa gente?... Nelle sbigottite iridi cerule fluttuavano i dubbi, la stupefazione.
Alla loro destra, traverso i battenti aperti della stanza attigua, scorgevano, disteso su un mucchio di cuscini, l’ambiguo Dafne Howard, senza colletto, la gola bianca scoperta come una donna scollacciata.
La vecchia cameriera si affaccendava intorno a lui, intenta, grave, come la sacerdotessa di qualche misterioso rito. In terra, accanto alla forma supina, era accesa una lampadetta ad olio; ed ora la donna china sopra il lumicino, faceva riscaldare qualche cosa sulla punta di un lungo e sottile istrumento di metallo. Ogni tanto toccava leggermente la sostanza scaldata.... D’un tratto la tolse dallo specillo, la fece girare e rigirare rapidamente entro le dita per formare una piccola pillola.
Ora avvicinava al giovane la lampadetta, e gli poneva tra le labbra il bocchino di una lunga pipa.
Allora Dafne Howard aspirò, lentamente, lungamente, cogli occhi socchiusi....
Gli sguardi attoniti di Myosotis incontrarono quelli di Neversol, che sdraiato sui cuscini in terra davanti a lei, la guardava.
— Perchè fuma in quel modo? — chiese. Una profonda inspiegabile nausea le saliva alla gola, un senso di repulsione, di orrore fisico profondo e indefinibile.
— Fuma dell’oppio, — spiegò Neversol. — Adesso dormirà. E sognerà.
— Dell’oppio? Perchè? È ammalato?
— Siamo tutti ammalati, piccola Myosotis, tutti ammalati, — disse Neversol, fissandole in viso gli occhi torbidi e profondi. — Ammalati della vita; ammalati di dolore, ammalati di piacere. Acquattate dentro di noi ci stanno delle belve che rugghiano e ululano, e ci rodono i visceri, ci dilaniano i nervi, ci succhiano le vene. E bisogna farle tacere e dormire.
— Che cosa dite? Di che belve parlate? — mormorò Myosotis.
— Le conoscerete, le conoscerete un giorno le belve della bramosia, della smania, della passione, della disperazione. Le conoscerete un giorno anche voi, o celeste-occhiuta Myosotis!...
A questo punto, Myosotis udì accanto a lei una risata di Leslie. Totò, che aveva attraversato la sala ed era venuto a gettarsi sul divano accanto alla fanciulletta, senza dubbio le raccontava qualche cosa di divertente che la faceva ridere del suo riso infantile e trillante; e a quel dolce suono Myosotis si riconfortò un poco.
Ma Neversol le parlava.
— Piccola Myosotis, la felicità umana è limitata, mentre i nostri desideri sono infiniti. Le possibilità di godimento sono fuori d’ogni proporzione colla nostra sete di piacere. Allora gli intellettuali, i raffinati, hanno voluto cercare fuori della vita, fuori della realtà, il filtro che plachi l’ardore d’inestinguibili desideri.... E l’hanno trovato nel bianco succo del papavero....
Tacque un istante, indi riprese:
— Il fumatore d’oppio, il morfinomane, il mangiatore di coca e di haschish tiene nelle mani la coppa di tutte le ebbrezze, tiene nelle mani la chiave del chiuso cancello che limita la gioia agli umani. Egli, quando vuole, s’avvia rapsodico e sonnambulesco per le mistiche lande del sogno, per paesaggi sterminati e favolosi.... fuori del tempo e dello spazio. Egli ha spezzato ogni ceppo. Il vero non lo trattiene; la realtà non lo intralcia; tutto a lui è possibile: la frenesia di fantastici amori, il parossismo di non sognate estasi.... Egli è rimosso da ogni miseria umana, liberato da ogni vincolo umano. Egli ha vinto Dio e la natura!...
Dal fondo della sala l’uomo dai capelli rossi si era alzato e veniva verso di loro con un calice di liquore iridescente in mano. Myosotis lo guardò con un senso di pietoso disgusto.
Era veramente assai brutto; aveva le orecchie sporgenti, e traverso i capelli radi e rossi si disegnava tutta la forma del cranio; sotto i baffi rossi una larga bocca dalle labbra tumide s’apriva nel riso come una caverna.
Porse il bicchiere a Myosotis.
— A voi, biondina; bevete un sorso del mio calice e conoscerete i miei pensieri.
— Grazie.... — balbettò Myosotis, — ma davvero.... non ho sete....
L’uomo diede in una grossa risata aprendo l’antro oscuro della sua bocca.
— Non ha sete! Oh guarda guarda!... non ha sete! Ma io sì che ho sete! — esclamò, chinandosi vivamente verso di lei.
Neversol, senza alzarsi, allungò di scatto il pugno chiuso e lo colpì in pieno stomaco.
— Rèservè! — osservò laconicamente.
L’altro aveva indietreggiato rovesciando parte della bevanda opalina sul tappeto.
— All right, — disse con una smorfia. Indi lanciò uno sguardo anche su Leslie, verso la quale si chinava Totò col braccio allungato dietro di lei sullo schienale del divano.
— All right, — ripetè; e tornò al suo posto in fondo alla sala accanto a Lady Randolph.
Questa aveva preso in grembo il gatto e con un dito ne sollevava la palpebre e ne esaminava le pupille.
— Ecco! — disse d’improvviso.
E come il gatto subitamente faceva l’atto di saltarle alla faccia, ella lo gettò per terra spingendolo lontano da sè.
Ora la bestia sotto l’influenza dell’ipnotico era in preda ad allucinazioni: fissava un punto della sala cogli occhi fosforescenti e il pelo irto; indi di scatto si lanciava addosso a una imaginaria preda. Rincorreva, balzando in qua e in là, una turba di topi invisibili; poi d’improvviso sostava immobile, impietrito!... D’un tratto, come se qualcuno lo afferrasse per la coda, si volgeva frenetico d’ira, scoprendo i denti in un ghigno selvaggio; roteava su sè stesso come una trottola.... poi irrigidito, teso, silenzioso, fissando un angolo colle saettanti pupille verdi, si avanzava lento, subdolo, strisciando sulla pancia, come una pantera che insegua nella jungla un nemico.
Lady Randolph sdraiata all’indietro tra i cuscini, con un braccio nudo poggiato sulla spalla dell’uomo rosso, seguiva ogni mossa della bestia impazzita con grandi scrosci di risa.
D’un tratto il terrore — come un’altra belva demente — balzò addosso a Myosotis e le conficcò le roventi zanne nel cuore. Era un terrore pazzo, cieco, frenetico, quale ella non aveva provato nè sognato mai; era come un lupo in furore che le mordesse e le squarciasse i nervi.
E accanto a lei trillò nuovamente la risata argentina di Leslie, di Leslie che si divertiva, di Leslie che non aveva paura.
Allora Myosotis ebbe il senso che tutto sprofondasse in lei e attorno a lei; le parve che la terra s’inabissasse sotto ai suoi piedi e ch’ella piombasse nel vuoto, affondasse nelle tenebre di un baratro beante e senza fondo....
Totò si era alzato e si era avvicinato a Lady Randolph. Ora le parlava a voce sommessa ed ella rispondeva non senza concitazione.
Frattanto Neversol, senza alzarsi, spinse il suo cuscino più vicino a Myosotis.
— Vi ricordate ciò che dice Amleto a Ofelia?... «T’is a fair thought to lie between a maid’s legs».
E sdraiandosi all’indietro le appoggiò il capo in grembo.
Myosotis sussultò e volle alzarsi.
— Vi prego, vi prego, — balbettò in un singhiozzo, tentando di sospingere dalle sue ginocchia quel capo bruno; ma Neversol, stendendo le braccia, afferrò le due mani della fanciulla e se le strinse contro alle tempia.
— «È un dolce pensiero,» ripetè, — «giacere tra le ginocchia di una fanciulla».
Leslie si era voltata e il sorriso le si agghiacciò sulle labbra.
— Cosa fate a mia sorella! — esclamò. — Perchè la tenete così?
E con ambo le piccole mani e colle unghie tentò liberare dalla stretta di Neversol le mani di Myosotis.
Neversol rise e abbandonò la stretta; poi diede una tiratina di capelli a Leslie.
— Se tu farai come il gatto, — disse, mostrandole la mano graffiata dalle unghie aguzze di lei, — ti daremo lo stesso rimedio che a lui.
Poi, rivolto a Myosotis: — Vi ho fatto male? — chiese, prendendole una mano e guardando il cerchio rosso che la sua stretta aveva lasciato sul delicato polso. — Povera manina!
E alzandola alle sue labbra, la baciò.
Myosotis piangeva e non rispose.
Neversol si chinò verso di lei:
— Siete stanca, — disse. — Non vorrete già stare ad aspettare l’arrivo del.... personaggio? Non è vero? Ebbene, andate a dire a Milady che vi volete cambiare la veste; e poi salite nella vostra camera.
— Sì! sì! — esclamò Myosotis guardandolo con occhi lagrimosi. — Vieni, Leslie....
E le due fanciulle si alzarono.
Ma ecco che dal fondo della sala Totò tornava verso di loro. Era pallido e barcollava un poco. Teneva in mano una scatoletta d’oro piena di una fine polvere bianca. Ne aveva preso tra le dita un pizzico e lo fiutava.
Si fermò davanti a loro porgendo la scatola d’oro aperta. — Fiutate un pizzico di questa polvere, — disse ridendo e guardando l’una e l’altra delle due sorelle con gli occhi velati e socchiusi.
— Che cos’è? — chiese Leslie con aria un poco spaurita.
— È ambrosia! — disse Totò, — è la nivea polve della coca che dischiude le porte del paradiso.
— No! no! non la toccate, — disse Neversol respingendo il braccio di Totò. — E voi, — rivolto a Myosotis, — andate a dire a Lady Randolph che salite in camera vostra. Suvvia!
Myosotis, mansueta e tremante, traversò la grande sala, scansando terrorizzata il gatto che faceva ancora balzi e capriole, e si avvicinò a Milady.
L’istinto della sincerità non le permise di mentire. — Signora, — disse timidamente — mia sorella ed io siamo stanche dal viaggio. Se permettete, ci vorremmo ritirare....
— Ma che, ma che! — interruppe Lady Randolph colla sua voce metallica. — Non se ne parla. Sapete pure che aspettiamo delle visite illustri. Andate piuttosto a vestirvi come si conviene.
Myosotis chinò il capo.
— Andrò.... — disse, con un sospiro.
Milady la fissò in viso aggrottando severamente le ciglia; indi, senza più badarle, si volse a parlare coll’uomo rosso. Myosotis rimase lì, ritta, incerta un momento.... poi si volse, umiliata, e si allontanò.
— Vieni, Leslie, — disse, passando accanto alla sorellina; e quella subito si alzò per seguirla.
Ma Totò s’interpose. — Ah, no! disse posando una mano ferma sul braccio della ragazzina. — Questa sta qui.
Myosotis guardò incerta da Leslie a Totò, da Totò a Neversol; il quale disse:
— Salite, salite, — e nella sua voce vi era una acuta nota d’impazienza. — La piccina vi raggiungerà tra qualche istante.
— Già, — fece Totò.
Quel monosillabo suonò ambiguo all’orecchio di Myosotis. Guardò perplessa la sorellina, e questa con lo sguardo le fece comprendere che l’avrebbe subito seguita.
Lenta, trasognata, Myosotis lasciò la sala.
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