Monete dei romani pontefici avanti il mille/Introduzione

Introduzione

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Presentazione Gregorio III

[p. 7 modifica]Correva il decimo anno dall’entrata de’ Longobardi in Italia, quando nel 578 passava all’altra vita Giustino II imperatore lasciando il trono a Tiberio Costantino. Pochi mesi prima era mancato in Roma papa Benedetto I, ed eragli dal clero e dal popolo eletto a successore nella cattedra di S. Pietro Pelagio II, che venne subito consecrato senza aspettare la conferma da Costantinopoli, come era invalso l’abuso1, e ciò stante le scorrerie di que’ barbari che liberamente percorrendo il ducato romano, ogni terra mandavano a sacco ed incendiavano, ed alla stessa capitate avevano messo l’assedio.

Misera era la condizione di questa penisola, che quasi senza trovar resistenza venivasi conquistando dai Longobardi, dei quali molti ancora idolatri e gli altri se cristiani appartenevano alla setta d’Ario, epperciò nemici del clero cattolico contro il quale usavano le maggiori sevizie. La popolazione romana, che così chiamavasi quella che l’Italia abitava all’epoca delle prime irruzioni de’ barbari, se voleva esser salva dove essi passavano doveva fuggire, che i ricchi uccidevano per impossessarsi del loro avere, e gli altri riducevano quasi allo stato de’ servi della gleba2; [p. 8 modifica]la parte poi che da quelli era ancor libera, e che chiamavasi Provincia d’Italia, apparteneva agl’imperatori di Bisanzio, gli ufficiali dei quali, che poco pensavano a difenderla, di ogni mezzo servivansi per cavarne danari il più che potessero.

In mezzo a queste calamità ed alla prostrazione generale degl’Italiani, le sole persone alle quali si potessero indirizzare per aiuto erano il papa ed i vescovi, ma siccome di questi molti trovavansi risiedere in città dai Longobardi tenute, oppure erano senza residenza per esserne state le loro sedi distrutte, al sommo pontefice come a comun padre tutti si rivolgevano, affinchè come capo del cattolicismo a pro di essi impiegasse la sua influenza sia presso gl’imperatori a Costantinopoli, che presso l’esarca a Ravenna, dai quali soli potevasi sperar difesa.

Pochissimo si ottenne da Costantinopoli, chè quella corte effeminata a mala pena poteva le sue provincie d’oriente conservare dalle irruzioni di altri barbari, che continuamente le attaccavano, epperciò si contentò l’imperatore d’indirizzarsi con messi al re dei Franchi, già riconosciuti come Leti e Federati dell’impero romano, affine di ottenere che rivolgessero le loro armi contro gl’invasori di questa parte d’Italia.

Venutivi i Franchi furono in principio battuti, ma tornati di nuovo, finirono per costringere i Longobardi a loro cedere i due principali passaggi che da essi mettevano in Italia, cioè le valli di Susa e d’Aosta, oltre la minore di Mati, ora detta di Lanzo.

Dopo le continue preghiere ed istanze a Costantinopoli a pro di questa provincia, i papi coi proventi del patrimonio della chiesa romana, che immensi erano sopratutto in Sicilia, a questo popolo, che tra la peste e la carestia solite compagne di tali guerre ogni giorno in più misero stato trovavasi, soccorrevano, ecclesiastici e laici che nelle continue scorrerie da que’ barbari schiavi facevansi riscattavano, sovente con doni procurando d’ammansarli, e pagando anche la soldatesca che stava alla difesa delle città italiane suddite dell’impero.

Siffatta critica condizione di cose, che parrebbe esagerata, quando non ne avessimo una descrizione nelle lettere stesse de’ papi contemporanei, venne con ottime prove descritta dal Manzoni3, e con numerosi documenti confermata dal Troya4, i quali preclarissimi nostri scrittori, primi [p. 9 modifica]si sollevarono contro quelli che sopratutto nello scorso secolo tra noi nelle loro opere lodarono il governo dei Longobardi, trovando male che i Romani ogni sforzo facessero per non cadere sotto il loro scettro, in questo preceduti dai protestanti del secolo XVI, e parendo loro un’infamia che i papi, dopo aver usato ogni legittimo mezzo per tener lontani dall’esarcato e ducato romano questi barbari, vistisi abbandonati da Costantinopoli, e colla stessa Roma in pericolo di cadere nelle loro mani con tutte quelle spaventevoli conseguenze che quasi ogni giorno vedevano succedersi ai loro confini, in ciò anche seguitando l’esempio di vari imperatori, si siano indirizzati ai Franchi, che quantunque barbari anch’essi, tuttavia da molto tempo erano cattolici, e che dall’epoca del loro stabilimento nelle Gallie erano stati riconosciuti federati della repubblica romana, come allora usavasi ancora chiamare l’impero.

Tale condotta dei papi viene da questi detta ambizione di potere, ma a ciò credo meglio non si possa rispondere che colle parole stesse del Manzoni5, il quale, dopo aver esposto lo stato compassionevole di questa parte d’Italia, dice che La speranza, pei Romani, era tutta riposta nei pontefici. Roma, spoglia di tutto ciò che può dare una considerazione, aveva nel suo seno un oggetto di venerazione, di pietà, e talvolta di terrore anche ai suoi nemici, un personaggio per cui verso di essa si rivolgea da tanta parte di mondo uno sguardo di riverenza e di aspettazione, per cui il nome romano si proferiva nelle occasioni più gravi. E mentre le ragioni di equità, di antica proprietà, di diritto sul proprio suolo, non sarebbero state nè ascoltate nè comprese dai barbari, i quali avevano un loro sistema di diritto pubblico fondato sulla conquista, questo solo personaggio poteva pronunziar parole che diventavano un soggetto di attenzione e di discussione; era un Romano, che aveva promesse e minacce da fare.

A quest’uomo adunque si dovevano rivolgere tutti i voti e tutti gli sguardi dei suoi concittadini, e così infatti avveniva. I papi nelle tribolazioni di quell’infelice popolo chiedevano o forze ai Greci, o pietà ai Longobardi, o aiuti ai Franchi, secondo che la condizione dei tempi concedeva di sperar più nell’uno che nell’altro ricorso. L’ultimo fu il più valevole; ma per vedere, se l’effetto principale dell’intervento armato dei Franchi sia stato di soddisfare un’ambizione privata dei papi o di salvare una popolazione, basta guardare alla sfuggita in quali occasioni i Franchi sieno stati invocati dai papi. [p. 10 modifica]Gregorio III scrive per aiuto a Carlo Martello, quando gli eserciti dei Longobardi mettono a sacco il territorio romano6: Stefano II ricorre a Pipino, quando Astolfo, poco dopo aver fermata una pace di quarant’anni, assale Roma, pretende dai cittàdini che si riconoscano tributari; finalmente minaccia i Romani di metterli tutti a fil di spada se non si sottopongono alla signoria longobardica7.

Dopo la duplice fuga, e le iterate promesse di Astolfo, e la donazione di Pipino, i richiami dei papi ai Franchi vertono intorno agli indugi dei Longobardi nello sgombrare le terre donate da Pipino, e insieme intorno alle nuove invasioni di essi sul territorio romano. Nel primo lamento molti non veggono altro che un dolore ambizioso dei papi, e fanno carico a questi di aver mosso cielo e terra per una loro causa privata: a noi però, come abbiam detto, è impossibile di risguardare come causa privata una contesa nella quale si dibatteva se una popolazione sarebbe stata conservata come conquista dei barbari, o libera da quelli.

I mali orrendi delle spedizioni continue non erano certo un dolore privato dei papi; e Paolo I non pregava per se solo, quando implorava l’aiuto di Pipino contra i Longobardi, che passando per le città della Pentapoli avevan messo tutto a ferro e a fuoco8: nè Adriano, quando i Longobardi commettevano saccheggi, incendii di Sinigaglia, d’Urbino, e d’altre città romane, quando assalendo alla sprovveduta gli abitanti di Blera, che senza sospetto mietevano, uccisero tutti i primati, portarono via molta preda d’uomini e d’armenti, e posero il resto a ferro e a fuoco9.

Dopo sì eloquenti parole nulla sarebbe più a dire, tuttavia avendo a parlare dei diversi pontefici che in questi anni siedettero in Roma, toccheremo de’ vari fatti, nei quali furono essi parte principale.

Ritornando ora a quanto abbiamo detto in principio, cioè che nel 578 era stato eletto sommo pontefice Pelagio II, troviamo che già questi scrivendo a vescovi10, lamentavasi della barbarie dei Longobardi, ed implorava aiuto contro di essi a Costantinopoli dall’imperatore Maurizio Tiberio11.

Essendo esso passato a miglior vita nel febbraio del 590, tutti i voti [p. 11 modifica]concorsero nella persona di Gregorio, diacono della Chiesa romana, nato di famiglia patrizia, e che prima d’avere abbracciato lo stato ecclesiastico era stato de’ senatori di Roma.

Questo pontefice ebbe grandemente a cuore la difesa della provincia d’Italia, che, per le sue splendide qualità e per l’alta sua dignità essendogli stato dall’imperatore affidata la direzione degli affari della penisola12, nel mentre che con somma sapienza dirigeva le cose della Chiesa, occupavasi della difesa dei territori minacciati inviandovi soldatesca, Roma provvedendo di viveri, e tregue trattando coi Longobardi della Toscana, cioè coi duchi di Spoleto, insomma nulla trascurava pel bene di essa, per la salvezza della quale profondeva i tesori della Chiesa, senza che con tanti sacrifizi grandi risultati ne ottenesse, come scriveva al diacono Sabiniano: Postquam enim defendi ab inimicorum gladiis nullo modo possumus: postquam pro amore reipublicae, aurum, argentum, mancipia, vestes perdidimus etc.13.

Gregorio alla fine mediante doni al re Agilulfo e preghiere alla cattolica Teodolinda potè ottenere nel 599 una tregua, la quale era però già rotta nel 601, quando l’anno susseguente fu deposto Maurizio Tiberio ed acclamato dall’esercito imperatore Foca.

A questo nuovo Cesare subito s’indirizzò Gregorio raccomandandogli i suoi Romani, affinchè non solamente li difendesse dai Longobardi, ma ancora li tutelasse dagli ufficiali greci, sovente di quelli peggiori, essendosi persino veduto un esarca servirsi dei soldati che doveva impiegare nella difesa dei Romani, per saccheggiare il tesoro della basilica Lateranense14.

Due anni dopo, cioè nel marzo del 604, passò a raccogliere in cielo il meritato premio questo pontefice, al quale giustamente fu dato il titolo di grande.

Sotto i successori di Gregorio I nulla avvenne di straordinario relativamente ai moti dei Longobardi contro i Romani sino a Gregorio II eletto papa nel maggio del 715, nel terzo anno dell’impero di Anastasio II.

Nello stesso anno il loro re Luitprando s’impossessò del patrimonio che la Chiesa romana teneva nella provincia dell’Alpi Cozie, che donato come dicono dall’imperatore Costantino il Grande era già stato occupato dai Longobardi, e nel 707 restituito dal re Ariperto a papa Giovanni VII. Sì vive furono [p. 12 modifica]le istanze di Gregorio a tal riguardo, che alla fine Luitprando cedette e restituì alla Chiesa questi fondi allodiali, che non devonsi confondere col possesso da alcuni creduto di tal provincia, la quale abbracciava allora non già le Alpi propriamente dette Cozie, ma le città di Acqui, Genova, Savona e Tortona nell'Apennino, che non appartennero mai a S. Pietro.

Essendo stato dall’esercito innalzato al trono imperiale nel 717 Leone Isauro, questi subito con lettera significò al pontefice la sua elezione, accompagnandola da una solenne professione di fede cattolica, e ciò fu causa che il buon papa con maggior vigore attendesse alla difesa di questa provincia, ed appunto in questo tempo essendosi i Longobardi del ducato di Benevento impossessati del castello di Cuma, Gregorio dopo aver ogni mezzo tentato presso di essi per averne la restituzione, insegnò al duca di Napoli come dovesse condursi per ricuperarlo; il che in fatti gli riuscì, ma colla spesa per parte della Chiesa di libbre settanta d’oro.

Correva l’anno 726 quando l’Augusto Leone sedotto dalle arti d’un rinegato, proibì ne’ suoi stati il culto delle sacre immagini, chiamandolo idolatria. Subito che conobbe Gregorio tal novità scrissegli dimostrandogliene la falsità, e che tal cosa sarebbe stata causa d’infiniti mali a’ suoi stati d’Italia; ed in verità quanto disse il pontefice avvenne, chè conoscendo i Longobardi quanto tal ordine rendesse odioso Leone agli Italiani, creduto perciò favorevole il momento, entrarono in questa provincia e mettendo tutto a sacco e fuoco minacciarono persin Roma.

L’iconoclasta imperatore invece di cedere alle paterne istanze del capo della Chiesa, sempre più contro di lui si irritava, anzi minacciò di destituirlo quando esso non obbedisse a’ suoi ordini. Allora il papa fece conoscere a tutta la cristianità i pericoli della Chiesa, e frattanto si preparò alla propria difesa, e ben con ragione, chè da Costantinopoli furono inviati a Roma sicari per ucciderlo15, la qual cosa venuta a cognizione del popolo, si sollevò e ne trucidò i due primari, e siccome l’esarca radunava soldatesca per venire a deporre Gregorio, gli abitanti del ducato romano si unirono coi Longobardi del ducato di Spoleto per impedirgli coll’armi il passaggio verso Roma. Le popolazioni tutte della provincia italiana cominciarono indi a tumultuare, e non volendo più riconoscere Leone per imperatore fecero sentire esser decisi di eleggerne uno cattolico, al che opponendosi vivamente il pontefice riuscì alla fine d’impedire.

[p. 13 modifica]Luitprando traendo partito di questa irritazione della popolazione suddita dell’imperatore, recossi con un esercito nell’Emilia e nell’Esarcato, e s’impadronì di Ravenna. Quelli di Spoleto poi di suo ordine occuparono Narni ed il castello di Sutri nel ducato romano, ma che indi sulle preghiere del papa e grazia ai regali che gli inviò s’indusse a rilasciare; non volle però il re cedergli agli ufficiali greci, ma bensì ne fece dono alla Chiesa romana.

Intanto Gregorio dopo sedici anni di pontificato passati in mezzo a tanti affanni andò nel febbraio del 731 a godere il premio dovuto ai giusti, lasciando vacante la cattedra di S. Pietro.

Note

  1. Anastasius bibliothecarius vitæ romanorum pontificum. Muratori rerum italicarum scriptores, Tom. III, pag. 133.
  2. Troya, Storia d’Italia, Vol. IV. Parte I, pag. 31 e 123.
  3. Discorsi sopra alcuni punti di Storia longobardica in Italia, annessi alla tragedia l’Adelchi.
  4. Codice diplomatico longobardo, Volume IV.
  5. Come sopra Capo V.
  6. Epistola Gregorii ad Carolum Martellum in codice Carolino 1.
  7. Anastasius, Rerum ital. scriptores, T. III, pag. 166, e le lettere di Stefano nel codice Carolino.
  8. Pauli ad Pipinum epistola in codice Carolino 15.
  9. Anastasius, come sopra, p. 182.
  10. Troya, Vol. IV, P. I, pag. 25.
  11. Idem, pag. 60.
  12. Troya, Vol. IV, Parte I.
  13. Idem, pag. 336.
  14. Muratori, Annali d’Italia all’anno 639.
  15. Muratori, anno 727.