Monete dei romani pontefici avanti il mille/Gregorio III
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731-741.
Nel mese che seguì a quello della morte dell’avantidetto pontefice venne eletto Gregorio III siriaco di nazione, il quale vedendo che i Longobardi ogni giorno fatti più audaci per l’impotenza degli esarchi e dei duchi greci, le loro scorrerie aumentavano, tutti i Romani come il suo predecessore tenendo a suoi figliuoli nulla tralasciò per la loro difesa, epperciò dopo provato che nulla poteva dai Greci sperare, scrisse nel 739 a Carlo Martello reggente il regno de’ Franchi e guerriero di gran rinomanza, chiedendogli aiuto contro i Longobardi1; ma pare che tale preghiera rimanesse senza effetto; chè troviamo Luitprando stesso venire sino a Roma e saccheggiare la basilica di S. Pietro, e se più oltre non procedè contro questa città, fu perchè invitato da Carlo andò in Provenza contro i Saraceni.
A proposito di questa lettera il Muratori 2 dice che il papa col popolo di Roma gli offerirono la signoria di detta città col titolo di console o sia di patrizio, appoggiandosi alle parole quas vobis ad regnum direximus, quando invece in essa è detto che gli manda le chiavi della confessione di S. Pietro quas vobis ad rogum direximus, formola come osservò il Troya 3 usata come in atto di preghiera, non già per offrirgli un regno, cosa assurda, e che ivi non avrebbe avuto senso alcuno.
Dopo questo fatto rimase il ducato romano tranquillo per quattro anni, quantunque avesse perduto quattro città toltegli dal re Luitprando, per la cui restituzione caldamente il pontefice si raccomandava ai vescovi Longobardi, senza che apparisca che per tal perdita si muovessero gli esarchi; pel contrario troviamo in questi anni4 che una flotta greca avendo preso terra presso Ravenna, ne tentò il saccheggio quantunque loro obbedisse, per il che que’ cittadini prese le armi dovettero dai Greci difendersi come da nemici.
Sì fatta condotta de’ Bizantini e la persecuzione di Leone contro la Chiesa cattolica, portata al punto di sequestrarle i patrimoni che teneva in Sicilia ed in Calabria e che tanto avevano servito ai papi per la difesa e sostentamento di Roma e del suo ducato, fecero sì che l’autorità degli esarchi scapitasse talmente, che a poco più si ridusse che all’amministrazione della giustizia ed all’esazione delle imposte.
Frattanto nel novembre del 741 passò a miglior vita questo pontefice degno successore dei Gregori I e II, lasciando ai Romani memorie della sua pietà e beneficenza.
Il Ficoroni5 pubblicò, dichiarando di ignorare a qual uso abbia potuto servire, un pezzetto quadrato di lastra di rame (Tav. I, N° 1), avente da una parte superiormente una croce con sotto una sbarra orizzontale, indi la parola GREII e nuovamente una sbarra con sotto PAPE il tutto in un circolo di perlette, e dall’altra in ugual circolo una croce e sotto SCI indi una sbarra poi PTR, le quali lettere benissimo lesse Gregorii pape e Sancti Petri. Il qual pezzo che trovossi pesare grani 75 del marco di Troyes∗ 1, anche da altri pubblicato, venne dal Cinagli6 classificato come prima moneta papale senza addurre prova alcuna.
Avanti però di cercare cosa tal pezzo fosse ed a qual uso servisse, credo utile anche per la numismatica romana o meglio bizantina sino all’impero di Carlo Magno, di dire qualche cosa sulle monete battute in Italia dagli imperatori di Costantinopoli.
Commettendo di parlare di esse per il tempo che corse prima di Giustino II perchè anteriore all’epoca della quale trattiamo, troviamo che, dopo d’aver Narsete riacquistata l’Italia all’impero greco, tre sole zecche nella penisola vi lavorarono, cioè Roma, Ravenna e Napoli. Tacendo delle due ultime perchè estranee al caso nostro, vediamo che nella prima si batterono sino al secolo VIII monete nei tre metalli all’effigie e col nome di Giustino II, Tiberio Costantino, Maurizio Tiberio, Foca, Eraclio I e II, Costante II, Costantino IV e Giustiniano II 7.
La legge, a tenore della quale vennero esse lavorate, è quella stata prescritta da Anastasio nel 498, la quale ebbe vigore per alcuni secoli, quantunque soffrisse molte oscillazioni, cosa comune a tutti i sistemi monetari massimamente in tali tempi8.
Secondo questa legge adunque il soldo d’oro, da’ Greci detto statere, doveva essere a caratti 20 ed a pezzi 72 per libbra, e secondo Ramé de l’Isle, i cui calcoli riconobbi i più esatti, essendo la libbra composta di grani 6,048, il soldo doveva pesare grani 84, che osservai esatto meno la tolleranza di un grano in più od in meno in molti pezzi di Costantino V, Giustiniano II e Tiberio V.
Del soldo si coniò anche la metà detta semisse, del peso di grani 42, ma che raramente trovasi.
Così il tremisse ossia terzo di soldo di grani 28, il quale è piuttosto comune (Nota I).
Segue lo scrupolo, o gramma, di grani 21, e de’ quali quattro facevano il soldo.
La più piccola moneta d’oro che mai potei vedere effettiva, ma che doveva essere allora comune in commercio, come appare da atto del 564 9 era il silique, dai Greci detto keration, e dei quali sei abbisognavano per uno scrupolo, onde ventiquattro per un soldo, epperciò dovevano pesare grani 3 ½.
Delle monete d’argento da Eraclio I sino a Costantino V, come verificai in vari pezzi, si batterono migliaresi a pezzi 48 per libbra, onde grani 120 incirca caduno, e 12 di essi equivalevano ad un soldo d’oro.
Mezzi migliaresi da pezzi 96 per libbra, epperciò di 60 grani incirca caduno.
Finalmente dai tempi di Giustino I a Leone III Isauro si coniò una monetina chiamata silique d’argento per distinguerla da quella d’oro, e della quale deve essersene anche lavorata la metà.
Questo pezzo che il Sabatier10 trovò all’epoca di Giustiniano I pesare tra grani 25 e 26, sotto Giustino I era di soli grani 12 a 13, ed indi andò ancora scendendo di 7 a 8, onde il suo rapporto che era in principio col migliarese come 1 al 5, poi come 1 al 10, s’abbassò come 1 al 12.
L’unità della moneta di rame era il nummus, secondo alcuni anche detto follis o follare dal sacco che li conteneva ordinariamente, rappresentava l’antica uncia romana ma ad essa ben inferiore nel peso, e che inoltre trovasi sempre variare, altrimenti avrebbe dovuto conservarsi il rapporto del rame all’oro come 1 al 1800.
Messo il nummo per base, troviamo che quattro erano i suoi moltiplici sui quali Anastasio nel 498 aveva prescritto doversi segnare il proprio valore, uso che durò sino ai tempi di Michele III verso l’anno 850.
Questo valore era così segnato:
sui pezzi di | nummi | 40 | in Grecia | Μ | in Occidente | XXXX |
» | 30 | » | Λ | » | XXX | |
» | 20 | » | Κ | » | XX | |
» | 10 | » | Ι | » | X | |
e qualche volta | » | 5 | » | Θ | » | V |
I successori di Anastasio variarono però il numero dei suddetti moltiplici, trovandosi pezzi di 33, 16, 8, 6, 4 e 3 nummi.
Il Sabatier 11 pretende che folleri si chiamassero solamente i pezzi di 40 nummi, appoggiato a Procopio, il quale dice12 che Giustiniano I ordinò che i stateri d’oro, che sin allora si cambiavano contro 210 follari, indi in poi si dovessero dare per soli 180, e così il soldo d’oro che prima cambiavasi contro 8400 nummi, ora sarebbesi ridotto a 7200, prova dell’incostanza di tal fittizia moneta.
Secondo lo stesso autore i pezzi di 30 nummi si sarebbero chiamati tre quarti di follare, di 20 mezzi follari, decanummi quelli di 10, e pentanummi quelli di 5.
Avendo veduto qual sistema di monete allora fosse in vigore nell’impero bizantino, toccheremo delle monete che in Roma specialmente si usò di battere, essendo necessario di conoscerle per la storia numismatica de’ primi papi.
Abbiamo già detto che ivi monete coniavansi a nome di Giustiniano II, e certamente vi si continuò a battere anche a quello de’ suoi successori sinchè in Roma fa riconosciuta la sovranità di que’ Cesari, e da questa zecca uscirono tremissi d’oro bianco di Costantino Copronimo13 e soldi dello stesso col figliuolo Leone IV, sui quali vedesi nel rovescio la croce accostata da una stella e dalla lettera R, che quando sola vedesi sulle monete d’oro e d’argento si sa che indica questa officina, e non quella di Ravenna, la quale mai questa sola lettera usò, ma sempre almeno RA o RV o RAV14∗ 2.
Oltre i suddetti pezzi che positivamente sono stati lavorati tra il finir del 743, cioè quando Costantino ebbe riacquistato l’impero, ed il 774 anno in cui ebbe fine il suo dominio in Roma e nel suo ducato, venne anche in questa città coniata una moneta del peso di grani 25, la quale pare d’argento, o forse d’oro bianco, nel qual caso sarebbe un tremisse, coi nomi di Artavasdo e Niceforo, i quali proclamati imperatori a Costantinopoli dopo la morte di Leone Isauro nel 741, subito ristabilirono il culto delle sacre imagini, epperciò vennero immantinenti riconosciuti dal pontefice Zaccaria, come appare da una sua lettera scritta imperante domino piisimo augusto Artavasdo a Deo coronato magno imperatore anno III P. C. eius anno III, sed et Niceforo magno imperatore eius filio anno III15.
Questa rarissima moneta battuta tra il 741 ed il 743, cioè durante il tempo che essi regnarono, ha da un lato l’effigie e nome d’Artavasdo dall’altro quella di Niceforo accostata dalle due lettere I-B, e simile nel tipo e peso, e colle stesse due lettere che vedonsi sopra una moneta d’ugual metallo da papa Adriano I coniata, onde nessun dubbio può aversi sul luogo della sua battitura.
Oltre queste monete principali, trovansi sovente nei dintorni di Roma piccole silique d’argento del peso di grani 7 incirca, aventi da una parte un’effigie d’imperatore ma senza leggenda, e dall’altra le lettere R M con sopra una croce, inoltre pezzi quasi quadrati di rame del valore di tre quarti di follare con simil figura da un canto e dall’altro XXX e sotto ROM, ma tutti di tipo sì barbaro che non direbbonsi fatti in Italia quantunque portino il nome della zecca di Roma, onde non dubiterei che siansi fatti batter dal senato negli ultimi tempi della dominazione imperiale per sopperire ai minuti bisogni del popolo.
Avendo adunque veduto che in Roma sinchè continuossi a riconoscere per sovrani gli imperatori di Costantinopoli, sempre la moneta a loro nome ed effigie coniavasi, essendo questa una prerogativa della sovranità, la quale, come abbiam già detto e come meglio ancora vedremo, non incontrò mai opposizione per parte dei papi, anzi venne da essi difesa sino all’epoca che, spogliatine i Longobardi che li avevano presi sull’impero, Carlo Magno loro donò l’esarcato ed il ducato romano, onde non possiamo più dubitare se il pontefice Gregorio III vi abbia usato, o vi potesse usare di un tal diritto.
Veramente bene esaminando il pezzo di rame improntato del suo nome, e che sopra abbiamo descritto, non vi si trova nulla di comune colle monete che sin allora in Italia od altrove coniavansi.
Il Carli16 credette che questi fossero pezzi espressamente battuti per gettarsi dal papa al popolo prima della sua consecrazione, essendo prescritto dal rituale romano che in tal occasione dicendo argentum et aurum non est mihi ad delectationem; quod autem habeo hoc tibido, gettasse al popolo monete di rame. Ma per essere monete dovevano essere di quelle che coniavansi nella zecca e che legalmente correvano, epperciò dovevano avere il nome e l’effigie dell’imperatore, e non potevansene coniare delle speciali col nome del papa, la qual cosa sarebbe stata un’usurpazione di sovranità. Ma il Carli, siccome trova anche monete d’argento col solo nome d’Adriano I, per sostenere una certa sua opinione, anche queste vuole battute dal papa per gettare alle turbe, ma non potè mai trovare chi lo seguitasse in tale storta credenza; e poi perchè non si son mai trovati simili pezzi coi nomi dei tanti altri pontefici che ressero la Cattedra di S. Pietro prima e dopo di questi? Che quando la cosa fosse stata come la vuole quest’autore, almeno d’una diecina d’altri avressimo ancora notizia, quando invece non se ne conoscono che di Gregorio III e di Zaccaria. Soggiungeremo ancora che se la cosa fosse stata come lui dice, è impossibile che nessuno dei tanti autori che delle cose de’ papi scrissero, non ne avesse fatto parola, ma nessuno nemmeno ciò sospettò.
Essendo certo per le ragioni sopraddette, cioè, che per essere in questi anni il ducato romano ancora dipendente dall’impero, ivi le monete battevansi a nome dei cesari di Bisanzio, e perchè nulla ha di comune il nostro pezzo con quelle che allora correvano, che esso moneta non è, credo perciò di non errare dicendo che questo pezzo altro non può essere che contrassegno o tessera che dai papi davasi al minuto popolo in tempi di tante miserie, e che doveva cambiarsi contro una data quantità di farina, o di pane, od altro oggetto di prima necessità. Ciò che a così credere m’indusse è la stessa sua impronta, leggendovisi il nome di Gregorio alla seconda persona, segno che vi si deve sottintendere un sostantivo, il quale potrebbe benissimo essere la parola signum per indicare che a nome di esso davasi la tessera, così al Sancti Petri deve sottintendersi elemosina, cioè elemosina fatta coi danari provenienti dal patrimonio della Chiesa romana, che appunto dicevasi di S. Pietro.
Viene a corroborare questa mia opinione una moneta d’argento da Pipino battuta in Francia alcuni anni dopo17, nella quale da una parte leggesi su due linee divise da sbarre orizzontali DOM PIPI cioè Domini Pipini, e dall’altra su tre linee ELEMOSINA; la qual disposizione delle lettere simile a quella dei pezzi di rame di Gregorio, ci proverebbe che chi l’incise vide questi. La parola Dominus indica che tal denaro venne battuto dopo l’innalzamento di Pipino al trono, per il che deve averlo fatto d’argento, potendo come sovrano dargli corso legale come fosse moneta, quando il papa, non potendo ciò fare perchè imperavano in Roma gli imperatori di Costantinopoli, volle che a questi suoi pezzi si desse un’impronta tale che colle monete correnti nulla avesse di comune, epperciò con esse non si potessero confondere.
Note
- ↑ Troya, Vol. IV. Parte II, pag. 663.
- ↑ Annali d’Italia all’anno 741.
- ↑ Codice dipl. longobardo. Parte III, pag. 668.
- ↑ Muratori, all’anno 733.
- ↑ De plumbeis antiquorum numismatibus. Romae 1750, Tav. XIII, N° 5 e pag. 49.
- ↑ Le monete dei papi descritte. Fermo 1848, pag. 1.
- ↑ Saulcy, Classifications des suites monétaires Byzantines. Metz, 1836, 8° et atlas fol.
Soleirol, Catalogue des monnaies Byzantines. Metz, 1853, 8°
Sabatier, Iconographie d’une collection de 5000 médailles. S. Pétersbourg 1853, fol.
Idem, Production de l’or, de l’argent et du cuivre chez les anciens. S. Pétersbourg, 1850, 8°
S. Quintino, Delle monete di Giustiniano II. Torino, 1845, 4°
Revue numismatique française. Blois et Paris.
Ed altre opere. - ↑ Dupuis, Dissertation sur l’état de la monnaie romaine. Mémoires de l’Académie des Inscriptions et Belles-lettres. Tome XXVIII, pag. 647, 4°
Garnier, Histoire de la monnaie. Paris, 1819. Vol. II, 8°
Sabatier, Notions générales sur la monnaie Byzantine. Revue numismatique. Paris, 1858, pag. 177. - ↑ Zanetti, Nuova raccolta delle monete e zecche d’Italia. Vol. II, pag. 367.
- ↑ Revue numismatique. 1858, pag. 191.
- ↑ Idem, pag. 193.
- ↑ Historia arcana. Bonnae 1838, pag. 140.
- ↑ Saulcy, Essai de classification des monnaies Byzantines. Atlas Tav. XIV, N° 2.
- ↑ Sabatier, Production de l’or etc. S. Pétersbourg, 1850.
- ↑ Du Fresne, Historia Byzantina. Paris, 1680, fol., pag. 124.
- ↑ Carli, Delle monete e dell’istituzione delle zecche d’Italia. Mantova, 1754. 4° pag. 152.
- ↑ Longpérier, Cent deniers de Pepin, de Carloman et de Charlemagne, découverts près d’Imphy en Névernais.
Revue numismatique. Paris, 1858, pag. 208 e Tav. XI, N° 1.
Questo dotto scrittore nota che il denaro battuto in Inghilterra con Sanctus Petrus servendo alle elemosine di quei re, il dire Elemosina Sancti Petri era il sinonimo di Denarius Sancti Petri.
- ↑ Conservo il sistema duodecimale perchè il solo in uso ne’ bassi tempi; noto però a maggior facilitazione che il marco di Troyes è uguale a grammi 244,753, e che in quanto alla bontà, pell’oro caratti 24 e pell’argento denari 12 equivalgono a millesimi 1000 del sistema decimale.
- ↑ A questo proposito crediamo di far cosa utile facendo conoscere la diversità che esiste tra le monete allora battute in Italia, e quelle uscite dalle altre zecche dell’impero.
In queste l’effigie dei Cesari ed il panneggiamento è duramente trattato, e la corona imperiale che li cuopre è molto schiacciata, oltre le lettere delle leggende che sono più tonde e regolari, e sentono alquanto del greco, quando, nelle italiane, come puossi vedere nel Saulcy ai Ni 8 e 10 della Tavola XIII, Ni 2, 4, 5 e 6 della T. XIV, e N° 1 della Tav. XV, cioè da Leone III a Leone IV, i panni sono mal segnati ma più largamente, la corona fatta di grosse perle più rilevata e le lettere più rotte e larghe, oltre una stella che difficilmente vi manca nel campo del rovescio, segni tutti che più non vi si veggono dal momento che i Greci perderono l’esarcato ed il ducato romano.
I tremissi imperiali ed alle volte anche i soldi stati battuti in Italia durante il vii ed viii secolo, sono quasi tutti d’un oro coperto da tanta lega d’argento, che alle volte furono creduti essere esclusivamente di questo metallo, così dal Taninia furono dati come denari d’argento varii soldi e tremissi biancastri, il che accadde allo stesso Saulcyb, che disse tale essere il soldo N° 10 della Tav. XIII.
Questo noto affine d’impedire che nel classificare tali monete si ripeta questo facile errore.