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mai opposizione per parte dei papi, anzi venne da essi difesa sino all’epoca che, spogliatine i Longobardi che li avevano presi sull’impero, Carlo Magno loro donò l’esarcato ed il ducato romano, onde non possiamo più dubitare se il pontefice Gregorio III vi abbia usato, o vi potesse usare di un tal diritto.

Veramente bene esaminando il pezzo di rame improntato del suo nome, e che sopra abbiamo descritto, non vi si trova nulla di comune colle monete che sin allora in Italia od altrove coniavansi.

Il Carli1 credette che questi fossero pezzi espressamente battuti per gettarsi dal papa al popolo prima della sua consecrazione, essendo prescritto dal rituale romano che in tal occasione dicendo argentum et aurum non est mihi ad delectationem; quod autem habeo hoc tibido, gettasse al popolo monete di rame. Ma per essere monete dovevano essere di quelle che coniavansi nella zecca e che legalmente correvano, epperciò dovevano avere il nome e l’effigie dell’imperatore, e non potevansene coniare delle speciali col nome del papa, la qual cosa sarebbe stata un’usurpazione di sovranità. Ma il Carli, siccome trova anche monete d’argento col solo nome d’Adriano I, per sostenere una certa sua opinione, anche queste vuole battute dal papa per gettare alle turbe, ma non potè mai trovare chi lo seguitasse in tale storta credenza; e poi perchè non si son mai trovati simili pezzi coi nomi dei tanti altri pontefici che ressero la Cattedra di S. Pietro prima e dopo di questi? Che quando la cosa fosse stata come la vuole quest’autore, almeno d’una diecina d’altri avressimo ancora notizia, quando invece non se ne conoscono che di Gregorio III e di Zaccaria. Soggiungeremo ancora che se la cosa fosse stata come lui dice, è impossibile che nessuno dei tanti autori che delle cose de’ papi scrissero, non ne avesse fatto parola, ma nessuno nemmeno ciò sospettò.

Essendo certo per le ragioni sopraddette, cioè, che per essere in questi anni il ducato romano ancora dipendente dall’impero, ivi le monete battevansi a nome dei cesari di Bisanzio, e perchè nulla ha di comune il nostro pezzo con quelle che allora correvano, che esso moneta non è, credo perciò di non errare dicendo che questo pezzo altro non può essere che contrassegno o tessera che dai papi davasi al minuto popolo in tempi di tante miserie, e che doveva cambiarsi contro una data quantità di farina, o di pane, od altro oggetto di prima necessità. Ciò che a così credere m’indusse è la stessa sua impronta, leggendovisi il nome di Gregorio alla seconda persona,

  1. Carli, Delle monete e dell’istituzione delle zecche d’Italia. Mantova, 1754. 4° pag. 152.