Mitologia del secolo XIX/XIX. Perseo

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XIX. PERSEO.

Siete voi stato all’Apollo a vedere la favola di Perseo ed Andromeda che vi si è rappresentata?

Di tal maniera interrogò Gervasio, sere sono, un suo amico, solito di accorrere sempre al teatro quando vi si rappresentavano cose nuove. E l’amico gli rispose: che ci aveva io a vedere di nuovo? — Non fosse altro, soggiunse Gervasio, il famiglio, o scudiero che vi piaccia chiamarlo, di Perseo, del quale la favola, almen che si sappia, non fa parola. — E l’amico: oh non è egli quel bell’umore, che, chiamato l’altr’ieri dagli applausi dell’uditorio a ricomparire sulla scena, con nuovo modo ebbe a dire a’ suoi ammiratori: Ebbene? Che vogliono le signorie loro? Io ho per verità in buon concetto un attore che sa trovare, in proposito, di tali uscite. Ma, quanto [p. 118 modifica]alla favola di Perseo, ella è sì vecchia e ripetuta, che ne sono ristucco del solo udirla rammemorare. — Oh! siete voi pure, riprese Gervasio, di que’ begl’ingegni ai quali la mitologia non sa più piacere, e credono aver fatto un gran che in pro delle lettere mettendo un tanto d’affisso sulla porta del palazzo d’Olimpo, con dire casa d’affittare, accomiatandone tutti i numi che vi abitavano da secoli e secoli, e sono poi disposti a fermar patto di scrittura con non so che silfi e che streghe, gente nuova e di bassa mano, qua venuti d’oltramonte, senza ricapiti di sorta, e con un fare da zingani vagabondi? — Di tutte queste vostre spiritosaggini, soggiunse l’amico, che saranno forse ammirabili, soprattutto per la novità, ve ne so grado e grazia; ma sappiate che io non ho in avversione il paladino dal gorgone e dal cavallo alato, perciò solo che egli sia della famiglia mitologica; bensì perchè m’imbatto ad ogni ora in chi, se non è lui propriamente, ha tanta rassomiglianza con esso, che ci vuole una grande penetrazione a discernere qual dei due sia l’originale, e quale la copia. — Questa m’è cosa nuova ad udire, proruppe maravigliato il buon uomo di Gervasio; e vi avrò non piccola obbligazione se vorrete spiegarmela in guisa ch’io possa rimanerne capacitato. — Volentieri, rispose l’altro, e cominciò del seguente tenore.

Ciò che vi dà maraviglia in Perseo egli è senza altro quella testa di donna, che porta figurata [p. 119 modifica]nello scudo, e intorno alla quale corrono i serpenti a tenerle luogo di capelli (e li aveva bellissimi la povera fanciulla), e più ch’altro la metamorfosi che ne accadde di trovarsi mutato in pietra qualunque levi gli occhi a guardare. Ora di questi Persei, che al loro primo apparire ti fanno di pietra, non ne trovate voi in questo mondo ad ogni due passi? Quel Filiberto, che conosciamo tutti due tanto bene, non è egli appunto il Perseo della favola in anima e in corpo? I suoi discorsi, i suoi gesti, il suo solo apparire ove sia gente d’altra razza che non è la sua, sono altra cosa che il gorgone summentovato, da sassificare qualunque ha la sciagura d’imbattersi in lui? Può ben essere il più fino e leggiadro discorso di questo mondo, egli è certo che con quei suoi secchi commenti te lo cangia in una incomoda scipitezza: sicchè può dirsi di lui che faccia vile e spregiato macigno di ogni gioia più cara e lucente. Simile alla morte, riducendo ogni cosa a’ suoi elementari principii, ti spolpa, snerva, dissangua ogni corpo più bello e perfetto, per la misera compiacenza di mostrartelo nudo scheletro e sclamare: ecce quem colebatis! Or vedete, balordi, a che badavate. Se vi toccherà di porvi ad un passeggio con esso in una bella notte d’estate, gli basterà l’animo di cangiarvi colle sue parole il gorgoglio del ruscello in un incomodo stridore di sega, e il riflesso della luna frammezzo una siepe di gelsomini in uno straccio di lavandaia posto ad asciu[p. 120 modifica]gare sur un muricciuolo. Non vi attentaste mai di parlare a Filiberto degli effetti cagionati dall’arti nell’anime privilegiate ad esperimentarne la virtù; non vi pensaste toccare col discorso nessuna di quelle dolci illusioni che confortano la vita angustiata da tante realtà dolorose: Filiberto, o meglio Perseo, vi mette subito davanti i suoi maladetti sarcasmi, e addio musica e poesia, addio larve di speranze e d’amore; sognavate un mazzetto di fiori, e vi trovate fra mano non più che degli stecchi. Questa loro infelice maniera di giudicare la estendono con incredibile pertinacia a tutti quanti sono i lavori dell’ingegno: per essi la prima cosa in un quadro è il costume, in una tragedia le ventiquattro ore. Di questa specie era quel causidico, di non so che paese, cui leggendo taluno il verso ove dicesi di Faone:

La sicula innalzò vela spergiura

le vele, gravemente soggiunse, non possono spergiurare, non essendo loro concesso di fare testimonianza. Potrei, caro Gervasio, farvi toccare con mano che il numero di questi Persei è strabocchevole; dacchè altri ve ne sono a parole ed altri a fatti, ossia di quelli che vivono del censurare e ridurre al nulla ogni detto d’altri, e di quelli che, non paghi del censurare ciò che loro si riferisce, vanno essi medesimi in traccia dei fatti altrui per isconciarli quel peggio che [p. 121 modifica]sanno. Quante volte vi tocca essere a stretto colloquio d’amici, colloquio importante ed animatissimo, ed eccovi il Perseo che soprarriva, e scopre il gorgone per cui tutti diventano statue inerti all’intendere e più inerti al parlare!

Gervasio approvava il discorso dell’amico, con una fisonomia tra compunta ed indispettita, come chi dicesse: pur troppo mi è tocco più volte provare quanto siano vere le vostre parole! Il che vedendo l’amico, mosse un suo cotal risolino, e riprese: non crediate tuttavia non v’abbiano in compenso altre persone con facoltà affatto opposta a quella degli uomini sin qui ricordati. Oh contro il male c’è pure il suo bene a questo mondo! Avrete udito sicuramente parlare di quel simulacro di Mennone nell’Egitto, il quale, come andavano a ferire in esso i primi raggi del sole, si animava per modo da formare fin anco non so che armonia. Certi uomini sono, ponete caso, quei raggi di sole, i quali, per quantunque fredde siano le anime in cui s’imbattono, sì le riscaldano colla loro vicinanza, che ne cavano pensieri e parole di vita e di sentimento. Voi vedete alcuna volta una compagnia di persone, che non ben sapete se siano deste o assopite, commoversi in una repentina allegrezza, e dove non udivasi per lo innanzi chi facesse motto, scambiarsi discorsi piacevoli e risate sonore per ogni canto. Onde questo? È capitato taluno che ha la bella facoltà di diffondere il buon umore; aperse la bocca chi sa di[p. 122 modifica]re ogni cosa al suo tempo; ed ecco succedere la facondia al silenzio, ed alla noia l’ilarità. Un benefico raggio di sole ha dato nel simulacro di Mennone, e questo non potè a meno di mandar suono.

Anche di questi non posso negare, disse Gervasio, che non se n’incontrino, ma ohimè! sono pochi in proporzione di que’ moltissimi della prima specie. — Assicuratevi per altro che molte volte siamo noi stessi a cui se ne deve attribuire la colpa. — E come ciò? — Sì noi, i quali diamo ricetto a singolare viltà per cui la trista natura dei Persei è aiutata nelle sue operazioni, e all’incontro andiamo a poco a poco impietrandoci di maniera che non ci vuol meno dei raggi del sole a cavare da noi un cenno di vita. Ma ciò ne farebbe incorrere nelle declamazioni; e a giustificare la mia noncuranza per la nuova rappresentazione che si è data all’Apollo, mi sembra aver fatto sufficiente discorso. Or Dio vi guardi, mio buon Gervasio, dai Persei, e vi faccia scontrar spesso in quelle persone gentili che fanno l’ufficio del sole. Detto ciò, i due amici se ne andarono quale per una e quale per altra strada, e mi fu quindi tolto materia a continuare più a lungo su questo argomento.