Mio figlio ferroviere/XII
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XII.
MA I CARABINIERI CHE FANNO?
ha dall’abito l’obbligo d’essere “popolare”, appena il blocco nazionale fu sconfitto, mi chiese: — La sa la malinconica istoria del povero camaleonte? Non le hanno insegnato zoologia in Università? Ebbene il povero camaleonte, diventato superbo, un giorno morì perchè volle essere insieme di tutti i colori. Questa è anche la storia del blocco. Ma io d’un fatto soprattutto mi dolevo: che fosse rimasto a terra il capitano Tocci di cui ho parlato nelle pagine addietro. In Consiglio comunale era entrato, primo della minoranza; ma insomma, se avesse vinto il blocco, egli sarebbe stato il sindaco della nostra città, un bel sindaco con due medaglie d’argento, e giovane e sano e vigoroso, faccia aperta e parole poche. No, dovevamo invece subirci l’avvocato Pascone tutto pancia e prosopopea, con la faccia rossa e gonfia come un gelone, che mi pareva dovesse prudergli tanto era tesa ed accesa. Avvocato era senza clienti, e si diceva che avesse sposato la causa proletaria per avere almeno una causa da discutere. Veramente se la discuteva tra sè e sè, tanto disdegnava gli avversari e i loro argomenti e tanto era certo che le parole fossero le madri dei fatti. “La borghesia è morta. Il re si ritira in Sardegna. Contadini ed operaj, da oggi voi siete i padroni. Lenin annuncia il suo arrivo in Italia pel 20 di febbraio. L’esercito è in sfacelo. La vittoria italiana è stata una truffa.” Questi erano i suoi argomenti. Parlava così socchiudendo gli occhi per non essere abbagliato da verità tanto lampanti, e alzando il mento perchè le parole cadendo più dall’alto facessero un tonfo più sonoro. Intanto lo stesso giorno in cui l’assessore anziano dell’amministrazione Pópoli gli fece la consegna del Municipio, Pascone ordinò che venisse smurata dalla facciata del palazzo Comunale la lapide col bollettino della vittoria, o della truffa che dir si voglia. I manovali del Comune, per quanto bolcevici e soddisfatti, furono più savii di lui, e la lapide se la smurarono quando era bujo fitto, così che noi al Circolo lo sapemmo verso la mezzanotte. E si corse dal sottoprefetto, ma in Prefettura dormivano tutti. I “popolari” del resto, sostenevano che Pascone era nel suo diritto. Aveva vinto? Il palazzo del Comune era affidato a lui, cosa sua. Noi non cedemmo. Prima si pensò di telegrafare a Roma, al presidente del Consiglio addirittura: poi di fare una pubblica protesta raccogliendo firme da per tutto; poi d’andare dallo stesso Pascone a convincerlo o almeno a comprometterlo; poi di murar la lapide tra due finestre sulla facciata del Circolo; infine nel salone del Circolo, che sarebbe stato, dati i tempi, più prudente. La conclusione fu che s’andò a letto. Ma la mattina dopo, quando uscii verso le sette per le mie visite e passai sotto il Comune, vidi due scale rizzate contro la facciata, e la lapide che legata a due corde già risaliva. Tocci era là sotto a dirigere i muratori, tranquillo. Alcuni giovanotti gli stavano intorno. Quattro guardie municipali s’erano ritirate nell’androne, sforzandosi di sorridere. Avevano mandato a chiamare il sindaco, dicevano, e aspettavano gli ordini suoi. Dalla parte opposta della piazza sotto la fontana, si venivano raccogliendo alcuni operai. Ripassai di lì dopo mezz’ora. Le scale non c’erano più. La lapide era tornata al suo posto. E il sindaco? Il sindaco non s’era veduto. Chi lo dava malato; chi, partito per una città vicina, sede di tribunale, a difendere una gran causa. Intanto il cemento lassù faceva presa. Alle otto fu disteso un cordone di bersaglieri attraverso alla piazza per dividere Tocci e i suoi amici dagli operai: ordine del sottoprefetto. Ma Tocci e i suoi amici quando videro arrivare i bersaglieri, cominciarono ad applaudire. Dalle finestre socchiuse di casa Sonsi spuntò un tricolore. Un altro súbito dopo apparve sul poggiolo di casa Langeli. Gli applausi scrosciarono più fitti. E il sindaco non si vedeva. All’improvviso qualcuno cominciò a gridare sotto il Municipio: – Ecco il sindaco! Ecco il sindaco! – E tutti già alzavano gli occhi al balcone del Palazzo comunale quando invece del sindaco vi apparve il tricolore nelle mani di Tocci. Agli applausi allora, dal gruppo degli operai, risposero fischi. – Ma Nestore dov’è? – mi chiese uno di loro mentre io tagliavo la calca per continuare il mio giro. Non lo sapevo. Quello concluse, truce: – Anche lui è scomparso, come il sindaco –, e ricominciò a fischiare, così che non sapevo più se fischiasse il tricolore, la lapide o la scomparsa dei suoi capi. Non doveva saperlo bene nemmeno lui. Tutta la città non sapeva bene quel che avveniva e contro chi doveva, o meglio contro chi poteva ribellarsi. Gli uni avevano smurata la lapide, gli altri la avevano rimurata: partita pari. Ma fra un giorno o fra un minuto chi avrebbe ripreso il sopravvento? Anche in politica i più fanno solo quello che si può fare senza rischio. Si può saccheggiare? E saccheggiamo. Si può fischiare la truppa? E fischiamola. Ci si può ribellare ai saccheggi? E ribelliamoci. Si può fischiare il sindaco? E fischiamolo. Acqua che si precipita dove non trova ostacolo. L’arte di governare è difficile appunto perchè si tratta d’incanalare quest’acqua, e farne una corrente per poi galleggiarci su docilmente, facendo credere, con aria autorevole ed indifferente, che la si dirige. Lo dico con cognizione di causa perchè mi sento acqua anche io. Nè per governo intendo proprio quello del Re e quello di Roma: basta quello di Nestore o di Tocci. Nè contano, le convinzioni politiche, quando non t’è lecito manifestarle, ovvero, manifestandole, non ci guadagni che una risata o un ceffone. Che io fossi un borghese, un liberale, magari un conservatore, questo a che e a chi giovava se m’era lecito soltanto di confidarlo qui sulla carta a te, caro lettore o cara lettrice che devi ancóra nascere? E poi, ad avere delle convinzioni politiche anche silenziose, si è in pochi. Molti le prendono o le lasciano secondo la moda; e sono i più sinceri. E, ripeto, per gli altri, per quelli che hanno la disgrazia o la fortuna di averne di ben nette e durevoli, l’importante è poterle manifestare. Quali opinioni si potevano in quel giorno manifestare? Ecco il punto. L’incertezza la si poteva misurare dalle persiane delle finestre: le più chiuse; alcune socchiuse; solo tre o quattro arditissime, col tricolore che schiaffeggiava l’aria. — Che è successo, dottore? Hanno rimurato la lapide? Ma ci resterà? Il sindaco dove è? Il capitano Tocci che fa? Mi sono dimenticato di dirvi che la piazza del Municipio è in salita; quaggiù il Palazzo comunale, a metà della piazza la fontana. Dopo la fontana, comincia la salita, per una cinquantina di metri, utilissima a chi parla dal balcone del Municipio perchè vi si raccoglie la folla come nei gradini d’un anfiteatro. Ora contro la casa che in cima sbarra la piazza in salita e la riduce a un vicolo angusto ed oscuro, c’è un rifugio pei più urgenti bisogni dei passanti: aperto rifugio: una lastra di marmo ravaccione con due ali di ferro arrugginito, una di qua, una di là, per la decenza degli occhi. Poichè tutta la calca era giù sotto il Comune e lungo il cordone dei bersaglieri e intorno alla fontana, e tutti guardavano la lapide e il balcone con la bandiera, la parte più alta della piazza restava deserta e dimenticata. All’improvviso qualcuno da giù disse: – Il sindaco, il sindaco. – Un altro lo ripetè ad alta voce, la mano tesa verso l’alto della piazza: – Il sindaco, il sindaco, lassù! E tutti si voltarono verso la casa, verso la pudica lastra di marmo incastrata ai suoi piedi. Centinaja d’occhi si fissarono verso quel punto, da cui per decenza tutti i passanti solevano nella vita ordinaria distogliere lo sguardo. Appoggiato ad una delle ali di bandone, le spalle alla piazza e alla folla, l’avvocato Pascone era lassù a testa bassa, indifferente. Aveva la sua pelliccia, la sua famosa borghese pelliccia di castorino che gli aveva procacciato tanta stima tra i suoi compagni ed elettori proletarii, la pelliccia in cui egli parlando all’aperto si paludava come in una toga, la pelliccia il cui bavero egli soleva lasciare alzato sulla nuca a far da sfondo al suo faccione congestionato. Portava il suo cappello nero a larghe tese, un po’ piegato sull’orecchia sinistra. – Il sindaco, il sindaco! – Ma la folla ha pudore. Quel sindaco che le riappariva, in un momento politico di tanta gravità, indifferentemente occupato in un’azione tanto intima e personale, sulle prime le ripugnò. Solo i socialcomunisti che gli erano più vicini perchè, come ho detto, stavano raccolti a metà della piazza intorno alla fontana, intuirono in un lampo il profondo significato di quel gesto del loro capo, ciò che esso conteneva di bello e di audace: sfida agli avversarii, offesa volgare forse ma certo chiara e brutale ai loro applausi, lapidi, chiacchiere e bandiere. “Voi vi sgolate ad applaudire alla vittoria? Voi vi affannate a rimurare le vostre lapidi? Ebbene, ecco il conto che io sindaco ne faccio. Guardate.” E cominciarono i battimani. — Bravo Pascone! Viva Pascone! Viva il nostro sindaco! Viva Lenin! Bravo! Continua! – e si torcevano dalle risa, agitavano i cappelli, si davano l’un l’altro manate di contentezza. Le guardie sul portone, i fascisti sotto il palazzo, i bersaglieri attraverso la piazza, la folla sulla porta e alle finestre, tutti ridevano. E Pascone non si muoveva. Dai tre piani del Municipio s’erano affacciati tutti gl’impiegati. Da casa Sonsi s’era affacciato il marchese e guardava lassù col binocolo. E Pascone non si muoveva. Quanto durarono gli applausi, le esclamazioni, la meraviglia, l’attesa? D’un tratto Filiberti della Camera del Lavoro cominciò a salire da solo. Tutti tacquero, trattenendo il respiro. Lassù contro la lastra di marmo c’era posto per due, anche per tre. Voleva Filiberti andare ad imitare il suo sindaco, tenergli compagnia, dargli il cambio? Filiberti, vestito come sempre di nero, procedeva in piena luce, su per la salita deserta, lungo, magro e risoluto sotto lo sguardo della folla silenziosa. E all’improvviso quando giunse vicino al sindaco, lo vedemmo dargli uno spintone e buttarlo indietro a pancia all’aria. Che era avvenuto? Perchè, perchè Filiberti percuoteva il diletto compagno? Ahimè, non era Pascone, il facondo Pascone, il gran sindaco rosso. Quello era un fantoccio fatto di due bastoni e di stracci: un fantoccio su cui qualche burlone aveva poggiato la celebrata pelliccia e il cappellone nero, come a dir le sue insegne. E Filiberti furente l’aveva, per la dignità del partito, abbattuto d’un colpo. E adesso con la sua vocina fessa e rugginosa, chiedeva: – Chi è stato il cretino che ha fatto questa burla? Chi ha portato qui questo fantoccio? Farabutti, vigliacchi, masnadieri, venduti.... Ma mentre egli inveiva contro quel fantoccio e, noncurante della pelliccia di castoro, lo faceva a calci rotolare giù per la china tra i piedi della folla, da sotto il Municipio si udì scrosciare una risata e poi zampillare un “Eja, eja, alalà” che finì d’inviperire i rossi. Questi provarono a tornar giù di corsa, a scagliarsi contro Tocci e gli altri rei della beffa; ma c’era l’ostacolo dei bersaglieri armati, c’era la folla che scappando e ridendo li impacciava, c’era anche lo scorno d’essere stati burlati. E lo scontro non avvenne. E l’alto della piazza tornò a vuotarsi intorno ai cenci disfatti, alla pelliccia impolverata, al cappellaccio nero del sindaco abbandonati lì sui selci, così che dovette chinarsi un carabiniere a raccattarli. Portandoli giù attraverso la piazza li voltava e rivoltava tenendoli per un lembo, e considerandoli dal diritto e dalla fodera come li volesse pesare e stimare. Alla fine davanti al Municipio li gettò da tre passi di distanza nelle braccia d’una guardia comunale con l’aria di concludere: – Non valgono niente, – e poi si fregò una palma contro l’altra per liberarsi, non si capì bene se dalla polvere o dall’unto o dalle idee che cappello e pelliccia solevano contenere. Dopo la beffa, le finestre e le porte si aprirono più francamente come palchetti di teatro. La rappresentazione era ormai cominciata di sicuro; e si trattava d’una farsa. La difficoltà, davanti alle donne, di raccontare esattamente la posizione e il gesto del fantasma di Pascone lassù, aguzzava la curiosità. Ma come mai non c’eravamo súbito accorti che si trattava d’una burla, dato che di quella stagione e con quel sole Pascone non poteva ancóra portare la pelliccia? Così chi non aveva assistito alle vicende della mattina, ora si consolava accusando di poca perspicacia noi che ce le eravamo godute tutte, oppure aggiungendo particolari inediti, spesso più gustosi della verità. Il Corso è solo a cento metri dalla piazza del Municipio; ma chi abitava sul Corso assumeva già le funzioni della posterità al paragone di chi abitando sulla piazza aveva, presso a poco, partecipato all’azione. Nelle piccole città di provincia la pubblica opinione si forma più lentamente. Ci si conosce tutti di persona e ci si saluta tutti, e si può tutti stasera o domani aver bisogno l’uno dell’altro. Maldicenza quanta se ne vuole; ma la pubblica opinione per aver forza dev’essere più aperta continua e concorde della maldicenza. Si aggiunga che pei socialisti, comunisti, russi e rossi, era più facile ritrovarsi insieme e uscire sulla strada, in cento, duecento, cinquecento da un comizio o da un’officina. Ma adesso dovevamo noi borghesi rivoltarci contro loro, ed a noi era difficile unirci, sia pure in corteo, perchè noi si vive più soli che in compagnia, più in casa che sulla strada, più a testa scoperta che col cappello in testa. Infine a tenere ancóra divisi e sospesi gli animi contribuivano i “popolari” accusando Tocci d’avere pensata una burla troppo volgare e spudorata la quale, se narrata da qualche giornale di Roma, avrebbe dato a tutta la città una cattiva fama e quasi un cattivo odore. Così passò tutta la giornata, sotto un brusìo di ciarle che ancóra non prendevano corpo e forza di sentenza. La sera, mentr’ero a pranzo, suonarono il campanello: tre suonatine timide timide tanto che Teta credette allo scherzo di un monello e prima di scendere ad aprire s’affacciò a guardare dalla finestra. Era Neo, un ragazzotto sui dieciannove anni, meccanico in una piccola officina che rattoppava biciclette e macchine da cucire; alla Camera del Lavoro aveva un impiego tra di portiere e di portalettere. Non parlò che quando fu davanti a me e Teta fu uscita: — Il sindaco ha bisogno di lei súbito. È ferito. — Quando? Dove? Da chi? — È ferito a un braccio e alla testa. L’hanno assalito quando era già scuro, mentre tornava a casa. Bastonate. Erano in due, con la maschera. — Tu li hai veduti? — Io non c’ero. M’ha mandato a chiamare dalla serva, chè abito al vicolo del Santo, dietro casa sua. — Ed eri a casa a quest’ora? — Sa, oggi è meglio non uscire. C’è la reazione. Lo guardai in faccia. Portava un gran cimiero di capelli biondi ispidi e dritti sopra la fronte, e vi si passava dentro le cinque dita come doveva fare Sansone quando voleva rassicurarsi sulla propria forza. Ma aveva le labbra pallide, le narici aperte, due solchi dalle narici al mento, e una certa instabilità in tutto il corpo. — Che cosa c’è oggi? — C è la reazione. E noi siamo un partito civile che non si vuole scandali. — Andiamo dal sindaco. — Io torno a casa. — Vieni, che ci può essere bisogno di mandarti dal farmacista. — Pascone ha la serva. Io ho promesso a mia madre che torno a casa. È una povera vecchia e sta in pena. Io non sono e non sarò mai un reazionario, e ormai devi esserti, lettor mio, accorto anche di questa mia incapacità. E a vedere che il primo effetto della tanto temuta reazione era quello di far rifiorire in quella vizza anima di meccanico l’amor figliale, mi meravigliai; ma non me ne dolsi, chè il bene s’ha da accettare da qualunque parte venga, tanto è raro. Il fatto si è che, appena schiuso l’uscio di casa, senza pur salutarmi, Neo sgattajolò via nelle tenebre, muro muro, che parve un’ombra. E io con un pacchetto di garza, uno d’ovatta e una boccetta di jodio scesi a gran passi verso la casa del sindaco bastonato. M’aprì la moglie, non la serva. Recava in mano una candela perchè nel suo slancio verso l’avvenire Pascone considerava la luce elettrica tanto antiquata quanto l’olio, la candela o il petrolio, e la disprezzava aspettando di piè fermo invenzioni più strabilianti. — Gli dica che si dimetta, che si dimetta súbito, – mormorava quella facendomi luce. Era un’asta di donna magra in alto, se posso dire, e grassa in basso, la faccia ossuta, con una mascella da cavallo, le spalle strette, il petto piatto, le mani lunghe e nodose; e due fianchi, invece, poderosi che ostruivano la piccola scala mentre ella saliva davanti a me e si voltava per ripetermi: — Che si dimetta, e che si stia zitto! Parlava minacciosa e concitata, gli occhi sfolgoranti di collera, una lunga ciocca di capelli neri e lucidi svolazzante sulla gota come un pennacchio. Pascone sul letto matrimoniale giaceva a gambe larghe, ancóra, salvo la giacca, vestito e calzato. Gemeva e mi guardava con un occhio solo perchè sull’altro teneva un asciugamano ripiegato in quattro e bagnato. Provai a levarglielo. M’afferrò la mano. — Una cosa voglio sapere da lei, prima di tutto. I carabinieri che fanno? Che fanno i carabinieri? Dove li tengono? Chiusi in caserma? Non dovevano custodire almeno la casa del sindaco? — Stia tranquillo. Mi lasci vedere. Dov’è ferito? — No: è una domanda lecita, da parte mia, da parte d’un sindaco. I carabinieri che fanno? — Lo chieda al prefetto. Adesso mi lasci vedere la sua ferita. — Ha ragione il dottore. Che vuoi che gl’importi dei tuoi carabinieri? – interloquì la moglie. Quello balzò sul letto a sedere: — Tu sta zitta. E vergognati. Qui comando io. — Comanda, comanda, – e la signora Pascone gli voltò le spalle e se ne andò. Ma intanto il sindaco agitandosi s’era scoperto il volto. Tra la fronte e l’occhio destro, un’ecchimosi larga quattro dita s’era alzata rossa e violacea e gli aveva chiuso l’occhio. Cosa da poco; e nemmeno una goccia di sangue. — Poi c’è il braccio, – mi avvertì. — Lei l’avrà alzato per ripararsi. — Io non ho alzato niente. Ho ricevuto questi due colpì all’improvviso, a tradimento, uno a destra sulla testa, uno a sinistra sul braccio. Mentre lo esaminavo, lo medicavo, lo fasciavo, lo confortavo, egli sbuffava: — So io chi è stato. Ma non denunzierò nessuno. Io devo dare un esempio di magnanimità. Pascone non fa la spia. E anche lei non deve dir niente. Prometta che non dirà niente. Gli spiegai che era impossibile tener celato un fatto così clamoroso come la bastonatura del primo magistrato della città. Ed egli dava in ismanie: — S’ha da tenere celato. Voglio che si tenga celato. E se l’offesa sarà divulgata, si divulghi insieme la mia volontà di non denunziare nessuno perchè io voglio col mio sangue.... — Sangue non c’è. — Ci sarà. Dopo la guerra siamo condannati ad affogare nel sangue. Pure non aveva febbre. Lo lasciai che continuava a parlare a sè stesso, ricominciando talvolta i suoi periodi come ad arrotondarli e a gonfiarli per migliorarne la sonorità; e tenendo la testa su due guanciali, vedeva il proprio volto sotto il turbante delle fascie riflesso nello specchio dell’armadio, e ammirava i gesti del suo braccio libero. E questo lo consolava. La moglie mi riafferrò mentre uscivo: — Lo sa chi l’ha bastonato? Sono stati i socialisti, i suoi compagni, proprio i suoi cari compagni; e gli gridavano che era un vigliacco perchè li aveva abbandonati. Per questo non vuole denunzie. Mi dica lei, dottore: perchè non l’hanno bastonato prima? Prima delle elezioni dovevano bastonarlo, loro che lo conoscevano. E non saremmo giunti a questo scandalo. Io sono una Torricelli. I conti Torricelli di Sinigaglia lei deve conoscerli. E m’hanno sposata ad un comunista! Ma allora era monarchico. Il cavalier Pascone: monarchico più del re. Perchè qui non lo sanno: ma l’avvocato Pascone comunista è cavaliere, sissignore, cavaliere della corona d’Italia. Senta, dottore. Da quando quest’uomo s’è messo a fare il capopopolo, io volevo venire da lei, volevo essere visitata da lei, volevo da lei una risposta franca, una sentenza definitiva. Posso aver figli io? Ho trentasei anni, sono donna, sono donna ancóra. Se lei m’assicura che io posso essere madre, io un figlio l’avrò, un figlio lo voglio avere. Non da lui, sa, ma da un galantuomo qualunque. E voglio dargli il mio nome, soltanto il mio nome: Torricelli, Torricelli, i conti Torricelli di Sinigaglia. Quando posso venire da lei? Se vuole, vengo súbito, stanotte. Lo lascio lì solo a fare i discorsi davanti allo specchio. Ma io un figlio, un figlio mio lo voglio, per poterglielo piantar sul muso. Ah sì, tu sei Pascone? Ma questo è Torricelli, vigliacco! Vengo domattina. Posso venire domattina? Aveva lasciato il candeliere sopra una sedia, lì in fondo alla scala. E quando con quella voce calda e soffocata ruggiva: – Io un figlio l’avrò, un figlio lo voglio avere, – alzava orgogliosa la testa e quel pennacchio di capelli e si batteva con le spatole delle mani sul ventre come suonasse un tamburo. Io per calmarla cercavo di deviare il discorso: — Ma stamattina la pelliccia, scusi, come gliel’hanno presa? — Semplicissimo. Lui era scomparso alle sei appena aveva saputo che il capitano Tocci rimurava la lapide. Se n’era andato non so dove, fuori di città, in campagna, in montagna, che anche in carcere sarebbe andato pur di sentirsi al sicuro. E verso le sette è venuto da me un bel ragazzo biondo tutto trafelato, con un volto franco che gli avrei consegnata tutta la casa, non la pelliccia soltanto, e m’ha detto che Pascone voleva in fretta la pelliccia e il cappello nuovo perchè doveva fuggire. E io glieli ho dati. Avrebbe dovuto vederlo come parlava commosso, come mi supplicava di far presto, povero ragazzo.... Eravamo vicini alla porta di strada sul punto d’aprirla, quando da fuori scoppiò un applauso, un grande applauso: – Evviva Pascone! Evviva il nostro sindaco! Fuori Pascone! Certo erano i comunisti che volevano riprendere il sopravvento e cominciavano dagli applausi al loro sindaco. Mi fermai titubante. La signora Pascone mi serrò un braccio: – Non esca. – Gli applausi e gli evviva rimbombavano in quella angusta straduccia, facevano tremare i vetri delle finestre a terreno. Temetti che l’avvocato non si frenasse, uscisse dal suo letto, s’affacciasse pel gusto di continuare il suo eterno discorso, in pubblico, dall’alto. E corsi su. Troppo tardi. Quello era già alla finestra, con la testa fasciata, e gridava nel bujo: — Compagni.... Non aveva finito la parola che gli applausi si mutarono in fischi: — Abbasso Pascone! Abbasso i buffoni! Abbasso i comunisti! Abbasso il sindaco! – e, in una pausa, udii la voce di Tocci intonare: – Eja, eja, eja! Alalà! Gli altri fecero coro. Ma con l’ultimo alalà scoppiò anche una pioggia di sassi sulle persiane, sui vetri, sui muri che pareva una scarica di cannoni. Pascone, per fortuna, era tornato nel suo letto. Non parlava più. Mormorava immobile, l’occhio al soffitto: — Ma i carabinieri, i carabinieri che fanno? Dove si sono rintanati i carabinieri? I fascisti s’allontanavano. Giù ritrovai la moglie di lui che aveva socchiuso una persiana e guardava fuori: — Un’altra burla gli hanno fatta. E c’è cascato anche questa volta. Ci cascherà sempre. Dottore, dottore, lei che li conosce, mi dica chi è quel giovane biondo che passa adesso sotto il lampione.... quello che si volta.... quello che ride.... È il giovanotto che è venuto stamattina a prendere la pelliccia. Come si chiama? Lei lo deve sapere....