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la causa proletaria per avere almeno una causa da discutere. Veramente se la discuteva tra sè e sè, tanto disdegnava gli avversari e i loro argomenti e tanto era certo che le parole fossero le madri dei fatti. “La borghesia è morta. Il re si ritira in Sardegna. Contadini ed operaj, da oggi voi siete i padroni. Lenin annuncia il suo arrivo in Italia pel 20 di febbraio. L’esercito è in sfacelo. La vittoria italiana è stata una truffa.” Questi erano i suoi argomenti. Parlava così socchiudendo gli occhi per non essere abbagliato da verità tanto lampanti, e alzando il mento perchè le parole cadendo più dall’alto facessero un tonfo più sonoro. Intanto lo stesso giorno in cui l’assessore anziano dell’amministrazione Pópoli gli fece la consegna del Municipio, Pascone ordinò che venisse smurata dalla facciata del palazzo Comunale la lapide col bollettino della vittoria, o della truffa che dir si voglia. I manovali del Comune, per quanto bolcevici e soddisfatti, furono più savii di lui, e la lapide se la smurarono quando era bujo fitto, così che noi al Circolo lo sapemmo verso la mezzanotte. E si corse dal sottoprefetto, ma in Prefettura dormivano tutti. I “popolari” del resto, sostenevano che Pascone era nel suo diritto. Aveva vinto? Il palazzo del Comune era affidato a lui, cosa sua. Noi non cedemmo. Prima si pensò di telegrafare a Roma, al presidente del Consiglio addirittura: poi di fare una pubblica protesta raccogliendo firme da per tutto; poi d’andare dallo stesso Pascone a convincerlo o almeno a comprometterlo; poi di murar la lapide tra due finestre