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da qualunque parte venga, tanto è raro. Il fatto si è che, appena schiuso l’uscio di casa, senza pur salutarmi, Neo sgattajolò via nelle tenebre, muro muro, che parve un’ombra. E io con un pacchetto di garza, uno d’ovatta e una boccetta di jodio scesi a gran passi verso la casa del sindaco bastonato. M’aprì la moglie, non la serva. Recava in mano una candela perchè nel suo slancio verso l’avvenire Pascone considerava la luce elettrica tanto antiquata quanto l’olio, la candela o il petrolio, e la disprezzava aspettando di piè fermo invenzioni più strabilianti. — Gli dica che si dimetta, che si dimetta súbito, – mormorava quella facendomi luce. Era un’asta di donna magra in alto, se posso dire, e grassa in basso, la faccia ossuta, con una mascella da cavallo, le spalle strette, il petto piatto, le mani lunghe e nodose; e due fianchi, invece, poderosi che ostruivano la piccola scala mentre ella saliva davanti a me e si voltava per ripetermi: — Che si dimetta, e che si stia zitto! Parlava minacciosa e concitata, gli occhi sfolgoranti di collera, una lunga ciocca di capelli neri e lucidi svolazzante sulla gota come un pennacchio. Pascone sul letto matrimoniale giaceva a gambe larghe, ancóra, salvo la giacca, vestito e calzato. Gemeva e mi guardava con un occhio solo perchè sull’altro teneva un asciugamano ripiegato in quattro e bagnato. Provai a levarglielo. M’afferrò la mano. —