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un lampo il profondo significato di quel gesto del loro capo, ciò che esso conteneva di bello e di audace: sfida agli avversarii, offesa volgare forse ma certo chiara e brutale ai loro applausi, lapidi, chiacchiere e bandiere. “Voi vi sgolate ad applaudire alla vittoria? Voi vi affannate a rimurare le vostre lapidi? Ebbene, ecco il conto che io sindaco ne faccio. Guardate.” E cominciarono i battimani. — Bravo Pascone! Viva Pascone! Viva il nostro sindaco! Viva Lenin! Bravo! Continua! – e si torcevano dalle risa, agitavano i cappelli, si davano l’un l’altro manate di contentezza. Le guardie sul portone, i fascisti sotto il palazzo, i bersaglieri attraverso la piazza, la folla sulla porta e alle finestre, tutti ridevano. E Pascone non si muoveva. Dai tre piani del Municipio s’erano affacciati tutti gl’impiegati. Da casa Sonsi s’era affacciato il marchese e guardava lassù col binocolo. E Pascone non si muoveva. Quanto durarono gli applausi, le esclamazioni, la meraviglia, l’attesa? D’un tratto Filiberti della Camera del Lavoro cominciò a salire da solo. Tutti tacquero, trattenendo il respiro. Lassù contro la lastra di marmo c’era posto per due, anche per tre. Voleva Filiberti andare ad imitare il suo sindaco, tenergli compagnia, dargli il cambio? Filiberti, vestito come sempre di nero, procedeva in piena luce, su per la salita deserta, lungo, magro e risoluto sotto lo sguardo della folla silenziosa. E all’improvviso quando giunse vicino al sindaco, lo vedemmo dargli uno spintone e buttarlo