Memorie storiche della città e del territorio di Trento/Parte seconda/Capo XIX
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CAPO XIX.
Memorie Storiche dall’anno 1763
fino all’anno 1776.
Divenuta vacante per la morte di Francesco Felice la sede episcopale, accadde nella elezione d’un nuovo Vescovo ciò che non era in Trento negli antecedenti secoli giammai accaduto. Datosi principio agli scrutinj il Preposito della Cattedrale Conte di Trapp ebbe del primo scrutinio sette voti in suo favore, e quattro n’ebbe l’Arcidiacono Conte Pietro Vigilio di Thunn. Rinnovatisi gli scrutinj ne’ seguenti giorni si ritrovò, che sette voti persistevano costanti in favore del Conte di Trapp, e che altri sette voti si riunirono in favore del Conte di Thunn. Ripetuti gli scrutinj fino al trigesimo, che fu l’ultimo, si vide sette voti stare sempre pel Conte di Trapp, e sette voti sempre in favore del Conte di Thunn. Non avendo nè l’uno nè l’altro per se la pluralità delle voci l’elezione del nuovo Vescovo secondo il disposto da’ sacri canoni andò devoluta al Sommo Pontefice in Roma. Il Conte di Thunn impugnava come simoniaci e di niun valore due voti, che stavano in favore del Conte di Trapp, e pretendeva che con sette voti fosse stata canonicamente conchiusa la sua elezione, ma le sue rimostranze si ritrovarono non bastantemente fondate. Quindi il Papa Clemente XIII. li 2 Luglio 1763 passò ad eleggere e nominare il nuovo Vescovo Principe di Trento. L’elezion pontificia fu tale, quale niuno aspettavasi, ma commendevolissima, e che esser non potea più avventurosa e felice. Egli elesse Cristoforo Sizzo Canonico della Cattedrale, al quale niuno aveva prima pensato, e che in tutti gli scrutinj non aveva mai avuto nè pure un sol voto, ma che degnissimo stato sarebbe d’averli tutti. Cristoforo Sizzo era nato in Trento li 19 Agosto 1706 di nobile ed antica famiglia, e dopo essersi dedicato allo stato ecclesiastico egli aveva per più anni soggiornato in Roma. La sua elezione fu solennemente pubblicata in Trento li 12 Luglio, ed egli prese il possesso della sua dignità li 19 Dicembre dello stesso anno 1763. Nel mese di Giugno del seguente anno egli fu investito dall’Imperatore Francesco I. nelle consuete forme delle Regalie del suo Principato mediante il suo Inviato in Vienna Conte Carlo di Herberstein Canonico di Trento e suo Consigliere aulico.
Egli diede principio al suo governo con intraprendere come Vescovo la visita pastorale di tutta l’ampia sua Diocesi. Questa visita, se mostrava dall’un canto la dignità d’un Principe, inspirava pure ad un tempo stesso a’ popoli il rispetto e la riverenza per la religione e pel divin culto. Sebbene rivestito della dignità di Sovrano egli non isdegnò di adempiere come Vescovo la più importante delle funzioni dell’apostolico suo ministero, ed in occasione di questa visita egli recitò dal sacro altare in più luoghi delle sacre omelìe ornate di quell’unzione e di quell’aurea eloquenza, che ammirasi in quelle dei più grandi Vescovi, ed io stesso una ne udii nella chiesa parrocchiale di Tajo mia patria, che sarebbe stata degna d’un Bossuet e d’un Fenelon. Cristoforo Sizzo ad un grave e dignitoso contegno, ch’era in lui naturale, e che comandava rispetto e venerazione a tutti quelli che gli si accostavano, accoppiava ad un tempo stesso l’affabilità e la dolcezza delle maniere. Una vera e soda pietà scevra da ogni pregiudizio, la più pura ed illibata integrità di costumi, un eccelente discernimento ed uno squisito giudizio, una scelta erudizione e dottrina attinta ai più puri fonti, ed ai più gravi e classici autori, un cuore generoso e nobile, un amore ardente della virtù, e la più profonda avversione ad ogni spezie d’ingiustizia erano i pregi, de’ quali Cristoforo Sizzo era adorno nel più eminente grado. Ma mentre egli governava il suo Principato con quella saggezza, e con quelle virtù, che il rendevano l’oggetto della devozione e dell’amor de’ suoi sudditi, e che gli conciliavano la stima ed il rispetto degli esteri, avvenne un fatto per cui dovette egli pure provare, quanto sia incostante la felicità della vita umana. Scrive un celebre filosofo, che alla gloria d’un grand’uomo manca qualche cosa, se egli non è mai stato infelice, e questa trista gloria non mancò al nostro Cristoforo. L’Imperial Regia Corte di Vienna aveva fatto ergere una nuova casa di dazio sul Lago di Garda in quella parte del Lago, che i Principi Vescovi di Trento pretendevano appartenere al loro dominio. Cristoforo Sizzo non mancò di fare, come doveva, all’Imperial Regia Corte le sue rimostranze contro la erezione di quel nuovo dazio nel suo territorio, ma senza averne ottenuta peranco alcuna favorevole risposta, non essendosi in Vienna potuto ancora bastantemente esaminare e decidere, se quella parte del Lago appartenesse al dominio austriaco o trentino. Allorchè egli ritrovavasi in occasione della visita episcopale in Giudicarie, gli si presentarono alcuni deputati di quel popolo esponendogli lo stato lagrimevole, in cui trovavasi per la incredibile penuria di viveri, e per la fame che doveva soffrire: essi dicevano, che la cagione di tanto male era il nuovo dazio austriaco eretto sul Lago di Garda atteso le gravi gabelle, che vi si esigevano sulle derrate e sui grani, che dovevansi tradurre dall’Italia. Il Principe Vescovo loro rispose, ch’egli aveva già fatte intorno al nuovo dazio le sue rimostranze all’Imperial Regia Corte, ch’egli le ripeterebbe ancora energicamente, ma che nulla di più egli poteva fare a loro favore. Partitosi Cristoforo Sizzo dalle Giudicarie un cotale Andrea Vedovelli soprannomato il Perotin uomo audace e temerario cominciò a dire pubblicamente a’ popoli delle diverse terre e villaggi della pieve di Tione, che se il loro Principe nulla potea fare per liberarli dalle calamità, che soffrivano, ben avrebbero potuto farlo essi medesimi coll’atterrare e distruggere quel dazio, ch’era l’unica cagione de’ loro mali. La vera cagione però non era già, com’essi credevano, il nuovo dazio, ma il rigoroso divieto, con cui la Repubblica veneta aveva proibita da’ suoi Stati ogni esportazione di grano, e colle più severe misure ne impediva ogni trasporto pel Lago di Garda. Ciò nondimeno gli abitanti di quei villaggi fissi nella loro opinione dopo essersi uniti a suono di campana a martello sulla piazza di Tione portaronsi colle armi alla mano al numero di trecento alla casa del dazio sul Lago di Garda, ed ivi giunti l’hanno violentemente smantellata e demolita, e dopo averne tratti fuori i cannoni, e tutto ciò che vi si trovava, appicatovi il fuoco la diedero in preda alle fiamme, con aver pure ridotta in cenere la barca armata, che serviva a’ soldati austriaci per iscorrere il Lago. La notizia d’un tale avvenimento riempì di cruccio e di dolore l’animo del Principe Cristoforo Sizzo. Egli ordinò tosto, che fosse formato contro i rei del gravissimo misfatto un rigoroso processo; ma essendosi i medesimi portati, come era loro costume, nel mese d’Ottobre in varie parti d’Italia a procacciarsi il vitto colle loro fatiche, convenne sospendere ad altro tempo il castigo loro dovuto. Intanto la malignità e la malevolenza avevano falsamente accusato innanzi al trono dell’Imperatrice Regina Maria Teresa Cristoforo Sizzo d’aver egli ordinata segretamente a’ suoi sudditi o permessa la demolizione della casa del dazio sul Lago di Garda. Non sapendosi, quali potessero essere gli effetti del risentimento e dello sdegno per tal cagione contro di lui della Imperial Regia Corte, egli dovette starsi in questo penoso ed amaro stato per due interi anni, finchè la verità trovata in fine fortunatamente la via onde farsi conoscere distrusse interamente l’opera della menzogna. Essendo poi stata da Cristoforo Sizzo ordinata la continuazione del processo contro i rei della demolizione del dazio, i tre primarj autori del delitto, che uniti al Vedovelli avevano sedotta la cieca moltitudine, furono per sentenza del Consiglio aulico di Trento condannati alla pena di morte, ed ebbero sulla piazza di Stenico dalla spada del carnefice tagliate le teste. Gli altri poi condannati furono in più o men gravi pene, con aver però tutti provato gli effetti della sovrana clemenza sì del loro natural Principe, come dell’augustissima Maria Teresa.
Il Vescovo Principe Cristoforo Sizzo già nel principio del suo governo sottopor dovette il Principato di Trento ad una nuova contribuzione chiamata comunemente la Steura, di cui dobbiamo da più alti principj ripeterne la storia. Nell’anno 1573 ai quattro Stati della provincia del Tirolo, ed agl’Inviati dei due Vescovati di Trento e di Bressanone adunati in Dieta fu dal Serenissimo Arciduca Ferdinando fatto presente lo stato critico del suo erario aggravato da una considerabile somma di debiti, che lo ponevano fuori di stato di sostenere le spese necessarie alla comune difesa. Gl’Inviati dei due Vescovati risposero, niente aver essi che fare rapporto ai debiti contratti dalla Camera del Serenissimo Arciduca per le spese riguardanti la di lui Corte, ma unicamente per quelle necessarie alla difesa della comune patria. Dopo lunghi dibattimenti restò finalmente conchiuso, che gli Stati della provincia ed i due Vescovati si addossassero il debito d’un milione, e seicentomila fiorini, e fu determinato di estinguerlo entro lo spazio di vent’anni, al qual oggetto fu decretato, che ognuno vi concorresse con una somma annuale di danaro proporzionata al numero de’ fanti già assegnato ad ognuno nel caso di guerra col libello di confederazione dell’anno 1511, essendosi tassato ogni fante alla somma di fiorini trentasei in contanti; ma pria che spirasse il prefisso termine di vent’anni essendo sopravvenute nuove necessarie spese avvenne, che finito lo spazio degli anni venti non solo non si ritrovò estinto l’antico debito del milione e seicentomila fiorini, ma il paese ne rimase aggravato d’un nuovo. Fu quindi necessario di continuare anche ne’ susseguenti tempi la contribuzione della così detta Steura. Dopochè l’atto celebrato nella Dieta dell’anno 1573, con cui agli Stati della provincia ed ai due Vescovati venne addossato il peso suddetto, e dopochè quest’atto fu dal Principe Vescovo di Trento approvato e sottoscritto col consenso del suo Capitolo, egli sottomise con un particolare suo editto i proprj sudditi all’annua contribuzione steurale. La città e pretura di Trento ubbidì prontamente ai comandi del proprio Principe, e dopo quell’epoca ella pagò sempre quella porzione di steura, che le fu imposta; ma tutte le altre comunità e giurisdizioni del Principato non vi si vollero assoggettare, e si mantennero esenti da ogni contribuzione fino al tempo del Principe Vescovo Cristoforo Sizzo. Allora fu, che tanto gli Stati provinciali del Tirolo, quanto l’Imperial Regia Corte chiesero altamente, che venissero omai assoggettate anche colla forza, allorchè fosse d’uopo, alla contribuzione steurale tutte le comunità e giurisdizioni del Principato di Trento. Cristoforo Sizzo non potendo dispensarsi dall’adempiere ciò ch’era stato solennemente accordato e promesso dai Vescovi Principi suoi antecessori, promulgò in tutte le giurisdizioni sì mediate come immediate del suo Principato un editto, col quale comandò loro di dover in avvenire pagare annualmente quella porzione di steura, ch’era stata a ciascuna di esse assegnata; ma essendosi ritrovato, che la distribuzione fatta e lo scomparto dell’annua contribuzione in danaro secondo il numero de’ fanti non era equilibrato con giusta proporzione alle forze de’ contribuenti avuto riguardo alla qualità e valore de’ beni fondi, che possedevano, si cominciò a propor nelle Diete, ed a porre sul tappeto il progetto d’una perequazione universale; e per conseguenza d’un nuovo estimo generale de’ beni in tutta la provincia del Tirolo e nei due Vescovati, a fine di stabilire con tal mezzo una giusta eguaglianza nel portare il comun peso. Nella Dieta dell’anno 1769 gl’Inviati di Trento e di Bressanone acconsentirono anche per parte loro ossia dei loro Commettenti alla nuova perequazione generale, e siccome la steura fino dalla sua origine era stata imposta ai due Vescovadi unicamente dall’autorità e volere dei rispettivi Principi Vescovi, così questi anche nell’incontro della nuova perequazione ebbero cura di preservare da ogni pregiudizio i proprj diritti, e la propria superiorità nel loro territorio come Stati immediati dell’Impero per modo, che tutta questa operazione nei due Vescovadi si facesse unicamente sotto l’autorità ed il comando de’ due Vescovi Principi, che vi avevano consentito soltanto in qualità di confederati. Il Principe Vescovo Cristoforo Sizzo pubblicò quindi li 10 Gennaio 1776 un nuovo editto ordinante questa perequazione in tutte le giurisdizioni mediate ed immediate del Principato di Trento, e prescrivente la norma da osservarsi, ch’egli aveva approvata ed adottata ne’ Congressi provinciali. Il piano però, di cui erasi incominciato ad intraprendere l’esecuzione nell’anno 1776, incontrò nuovi ostacoli, e venne in seguito proposto ed adottato nelle Diete un nuovo metodo di questa operazione, che fu poi pubblicato in Trento per ordine del successore Principe Vescovo Pietro Vigilio con suo editto 24 Dicembre 1777, ed eseguito in tutte le giurisdizioni mediate ed immediate del Principato da due suoi Consiglieri aulici, e dal Magistrato consolare rispetto alla città ed alle ville interiori della Pretura di Trento. Questa dunque fu l’epoca, in cui il Principato di Trento soggiacer dovette ad una nuova gravezza o contribuzione, a cui non aveva mai soggiaciuto ne’ precedenti secoli, ma contribuzione indispensabile e necessaria per le ragioni, che abbiamo vedute.
Nel tempo del governo di Cristoforo Sizzo essendo avvenuta la celebre soppressione della Compagnia de’ Gesuiti egli conseguì il libero possesso e dominio di tutti i beni e di tutte le rendite, che la soppressa Compagnia possedeva nel Principato di Trento, per la ragione che dovendosi riguardare tali beni come vacanti atteso l’estinzione o la morte civile della società de’ Gesuiti, la quale ne aveva il dominio, e devolvendosi i beni vacanti secondo la regola del dritto pubblico universale al Principe, nel di cui territorio son posti, non poteva disputarsi al Vescovo Principe di Trento il diritto di occupare i beni, ch’egli ritrovava vacanti nel suo Principato. Cristoforo Sizzo donò poscia con solenne atto tutti questi beni e tutte queste rendite al nuovo Seminario Vescovile, ch’egli eresse e stabilì nel Collegio dell’estinta Compagnia, e provvide il Ginnasio di nuovi maestri per l’educazione ed istruzione della gioventù, e di professori delle scienze, che prima vi s’insegnavano.
Essendosi portata in Innsbruck sua Maestà l’Imperatrice Regina Maria Teresa insieme coll’augusto Imperatore Francesco I. e tutta la Reale famiglia, Cristoforo Sizzo si credette in dovere di recarsi colà personalmente, onde rendere un rispettoso omaggio al supremo Capo dell’Impero, ed alla sua augusta avvocata l’Imperatrice Regina. Egli vi si portò con quel nobile corteggio e quella pompa, che convenivasi alla sua dignità, e vi fu accolto colle più onorevoli dimostrazioni di stima e di benevolenza dall’augustissima Maria Teresa, la quale volle sempre, ch’egli sedesse a di lei canto alla regia mensa, a cui giornalmente invitavalo.
Durante il suo governo molti furono i passaggi per Trento dei Reali Arciduchi ed Arciduchesse d’Austria, quello cioè della Reale Arciduchessa sposa del Reale Infante Duca di Parma, quello del Reale Arciduca Leopoldo gran Duca di Toscana, quello della Reale Arciduchessa sposa del Re delle Due Sicilie, e quello in fine del Reale Arciduca Ferdinando nuovo Governatore e Capitan generale della Lombardia Austriaca. Cristoforo Sizzo accolse tutti questi Regj Principi e Principesse nel Castello di sua residenza in Trento con quello splendido apparato e quella magnificenza, che convenivasi a sì augusti ospiti.
Per quanto amasse egli la sua patria, e singolarmente la città di Trento, di cui nato era cittadino, non permise giammai, che il Magistrato consolare per quella naturale tendenza, che hanno tutti i corpi politici ad ampliare ed estendere la loro autorità, oltrepassasse punto i limiti di quella ispezione e giurisdizione, che legittimamente competevagli. Egli aveva quindi vietato al medesimo l’esercizio d’alcuni atti di giurisdizione o d’alcuni diritti, che il Magistrato credea appartenergli, ma che realmente non gli appartenevano. Il Magistrato, reclamò contro i decreti del Principe, ed espose i suoi lamenti innanzi al supremo Consiglio aulico dell’Impero, presentando al medesimo una scrittura latina stampata col titolo Libellus gravaminum. Il Principe Cristoforo m’aveva poco tempo prima chiamato a sedere nel suo Consiglio aulico, e mi prescelse allora a difendere i diritti della sovrana sua autorità; il che io feci con una scrittura pubblicata colle stampe l’anno 1774 col titolo Vindiciæ Celsissimi Tridentinorum Principis adversus Magistratum Municipalem Tridentinum. La sentenza del supremo Tribunal dell’Impero fu interamente e sopra tutti i punti in questione favorevole al Principe Vescovo, e seguì poi con comune aggradimento una dichiarazione, in cui fu determinata la natura della giurisdizione del civico Magistrato; del che dovrem parlare più opportunamente in altro luogo.
Sotto il governo di Cristoforo Sizzo avvenne pure il famoso processo contro il Sacerdote Don Gasparo Ziller, ch’era accusato di tener presso di se a danno del Regio Fisco e de’ Conti de Thunn un tesoro d’antiche monete d’oro del peso di libbre cento ventiquattro, e che veniva per ciò ritenuto in istretta prigione nel Castello di Roveredo essendo il sacerdote suddito austriaco. Avendo l’Imperial Regia Corte prima che da’ suoi tribunali si proferisse alcuna sentenza ordinato, che il processo fosse spedito alla Curia vescovile di Trento, perchè da questa si pronunciasse il suo Voto, ed essendosi dato a me l’incarico dell’esame, e del rapporto di questo processo, io conobbi bentosto, che il preteso tesoro altro non era che una favola ed una indegna impostura. Io distesi quindi un Voto ragionato, in cui ho schierati e posti in vista, cavati dallo stesso processo offensivo e dalle viscere della causa, tali argomenti e tali prove, che dimostravano invincibilmente la falsità del tesoro, il quale altra esistenza non aveva che nella credulità ed immaginazione de’ suoi giudici. Il Principe Vescovo Cristoforo Sizzo volle leggere questo Voto, e dacchè l’ebbe letto, ordinò che fosse stampato, e spedito ai tribunali d’Innsbruck, che dovevano decidere della sorte del misero sacerdote; ma la luce della verità, che risplendea nel Voto, non isfolgorò punto, qualunque ne fosse la cagione, ai loro occhi, ed essi condannarono l’innocente sacerdote come reo convinto ex indiciis della dolosa occultazion del tesoro ad una perpetua carcere: esempio terribile del pericolo, a cui sono esposte talvolta innanzi ai ministri stessi di Temide l’onore, la libertà, e la vita degli uomini. Essendo poi stata portata la causa innanzi al trono di Sua Maestà l’Imperatrice Regina Maria Teresa, Cristoforo Sizzo, tuttochè si trovasse allora gravissimamente infermo, spinto da quello zelo, che doveva animarlo in favore dell’innocenza, mi comandò di stendere in suo nome una energica lettera a Sua Maestà, che io composi pure, ed in cui dicevasi alla medesima, ch’egli non implorava già la sua pietà o clemenza ma solo la sua giustizia a favore d’un ministro del sagro altare divenuto vittima d’un infame calunnia, e che queste erano le voci estreme d’un Vescovo, che le scriveva dal letto della morte.
Allorchè io gli lessi questa lettera, uditane la lettura egli mi disse le seguenti parole: Io vi ringrazio figliuolo delle cure, che vi prendete in favore dell’innocente sacerdote, soggiungendomi che Iddio me ne avrebbe data la ricompensa. L’innocenza ottenne poscia dall’immortale Maria Teresa il più compiuto e memorabil trionfo; ma Cristoforo Sizzo era allora già passato all’altra vita.
Ritrovavasi egli nell’autunno dell’anno 1775 alla sua villa di S. Massenza, allorchè si sentì assalito improvvisamente da un malore, per cui più alcun cibo non poteva entrare nel suo stomaco. Ritornato in città e divenuti vani tutti i soccorsi dell’arte medica a sanare un vizio organico, ch’era incurabile, ei si vide condannato a morire d’inedia. Egli sostenne pel corso di tre mesi l’aspetto della morte, che vedeva inevitabile, con quella tranquillità d’animo, e con quella intrepidezza e costanza, che sole appartengono a quelle anime forti e giuste, le quali onorano in iscarso numero la specie umana. Sentendo già vicino il termine de’ suoi giorni egli dimandò, che gli fosse portato il Santissimo Viatico atteso la sua imminente partenza dal nostro mondo. Gli fu questo portato con mestissima pompa, e coll’accompagnamento di tutti gli ordini e di tutte le classi della città; ma quale non fu lo stupore, allorchè entrati nel suo appartamento il Capitolo, il Consiglio aulico, ed il Magistrato consolare vi ritrovarono il Vescovo Principe non già in letto, ma in mezzo alla sua stanza vestito degli abiti pontificali genuflesso a terra, e l’udirono pronunziare con tremante voce un’allocuzione o discorso sì grave e sì commovente, che trasse a tutti il pianto e le lagrime. Nella sera di quel giorno io mi portai a visitarlo per l’ultima volta, e accostatomi al suo letto egli mi narrò con ridente volto, che dopo aver ricevuto il Santissimo Sacramento si era fatto condurre alla sua tavola ed al suo scrittojo dal quale aveva tolte e separate tutte le carte o scritture, che non dovean rimanervi dopo sua morte: che ora egli non aveva più a far cosa alcuna su questa terra, e che aspettava la morte forse ancor quella notte o nel seguente mattino, e tutto questo egli mi dicea con una ilarità e con un giubbilo, come se avesse dovuto il giorno seguente ritrovarsi a qualche gran festa, che dovesse celebrarsi in suo onore. Io mi partii dopo avergli baciata la mano senza aver potuto per le lagrime, che spargeva, proferir parola. Egli spirò l’anima effettivamente il seguente mattino nell’età di settant’anni dopo aver formato pel corso di dodici anni la nostra gloria, ed essere stato oggetto d’ammirazione agli stranieri. Egli mi onorava di sua confidenza ne’ più importanti affari, e mi amò, fin che visse, con una tenerezza e bontà, che io ben conosco di non aver meritata; ma è un effetto della pura verità e non della riconoscenza questo tenue tributo, che io rendo alle sue ceneri. Il suo funerale fu sopra ogni altro sontuoso e magnifico, e fu accompagnato da un immenso popolo accorsovi da tutti i vicini luoghi, che amaramente piangea la di lui morte. Venne ammirata altamente la costanza d’animo, che dimostrò Pomponio Attico, allorchè trovandosi lacerato da acerbissimi dolori, a’ quali alcun rimedio non ritrovava, annunziò agli amici, che stavano intorno al suo letto, la risoluzione che aveva presa, di non voler più prendere alcun cibo o nutrimento onde por fine colla morte ad una vita sì dolorosa, fu ammirata, dico, la costanza del di lui animo nel fare agli amici questo annunzio con tanta fermezza di voce, e con tanta serenità di volto, ut non ex vita, sed ex domo in domum migrare videretur, come dice lo storico della sua vita. Più ammirata ancora fu la fermezza d’animo o l’indifferenza, con cui Socrate udì l’annunzio fattogli della sua ingiusta condanna alla morte, e con cui sostenne placidamente l’agonia di trenta giorni, dovendo essere prolungata a trenta giorni l’esecuzione della sua sentenza. Visitato ogni giorno dagli amici nella sua carcere egli tenea con essi lunghi discorsi ora sull’immortalità dell’anima umana, ora sovra altri punti della morale filosofia con tanta tranquillità e contentezza d’animo, come se fosse il più felice degli uomini: ma non meno ammirabili furono il coraggio o la costanza, che fece veder Cristoforo Sizzo sostenendo l’agonia non di soli trenta giorni ma di tre mesi, e l’indifferenza e a placidezza, con cui vedeva ogni giorno più appressarsi la morte, e quel volto ilare e lieto nelle ore estreme della sua vita, che destava stupore in tutti quelli che il vedevano, e gli si accostavano. Io chiuderò l’articolo di Cristoforo Sizzo con far mie le parole di Tacito: Finis vitæ ejus nobis luctuosus, patriæ tristis, extraneis etiam non sine cura fuit.