Memorie inutili/Parte terza ed ultima/Capitolo I

Capitolo I

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Parte terza ed ultima Parte terza ed ultima - Capitolo II
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CAPITOLO I

Stravaganze e contrattempi a’ quali la mia stella mi volle soggetto.

Scrissi le Memorie inutili della mia vita l’anno 1780 sino all’etá che aveva in quel tempo; e perché dall’anno 1780 all’anno 1797 m’avvedo d’essere vivo ancora, avendo il vizio insuperabile di scrivere, logoro alcuni fogli di inutili Memorie posteriori e pubblico anche queste per umiltá.

S’io volessi narrare tutte le stravaganze e tutti i contrattempi a’ quali la mia stella mi volle soggetto, averei lunga faccenda. Furono frequentissimi e quasi giornalieri.

Le stravaganze ch’io soffersi mansuetamente co’ successivi miei servi pro tempore potrebbero darmi argomento di formare un volume di parecchi fogli d’aneddoti, che farebbero arrabbiare e ridere.

Narrerò la sola stravaganza, molesta, pericolosa e ridicola insieme, ch’io fui preso con somma frequenza da infinite persone in iscambio di chi io non era, con una insistenza ostinata; e ciò che ha di vago questa stravaganza è ch’io non somigliava punto agli uomini per i quali era preso.

Un giorno m’incontrai in un vecchio artefice a San Pavolo, che vedendomi mi corse incontro inchinato, e baciandomi un gherone del vestito piangendo, mi ringraziò svisceratamente ch’io avessi colla mia protezione liberato il di lui figlio dalle carceri. Sostenni ch’egli non mi conosceva e che mi prendeva per un altro. Egli sostenne vivamente francamente di conoscermi e ch’io era il suo caritatevole padrone Paruta. Vidi ch’egli mi prendeva per un veneto patrizio Paruta. M’affaticai invano per disingannarlo. [p. 210 modifica]

Quel buon uomo, forse giudicando ch’io negassi d’essere il Paruta per non volere ringraziamenti, m’accompagnò un buon tratto di strada con una tempesta di benedizioni e di promesse di voler pregare Iddio, sino che avesse vita, per la mia felicitá e per quella di tutta la mia famiglia Paruta.

Chiesi a chi conosceva quel patrizio Paruta se mi assomigliasse. Mi si disse ch’egli era un signore scarno, alto, sottilissimo di taglia e di gambe, col viso spunto e che non aveva con me la menoma somiglianza.

Non v’è chi non conosca o non abbia conosciuto Michele dall’Agata noto impresario dell’Opera, né chi non sappia ch’egli era un palmo piú basso di me, due palmi piú grosso e differentissimo da me ne’ vestiti e nella fisonomia.

Ho dovuto soffrire per un lungo corso d’anni, e sino ch’egli visse, la seccaggine d’esser fermato per la via per Michele quasi ogni giorno da canterini, da canterine, da ballerini, da ballerine, da mastri di cappella, da sartori, da pittori, da dispensieri di lettere; e di ascoltar lunghe doglianze, lunghi ringraziamenti, ricerche d’alloggi, richieste e preghiere di danari in anticipazione, querimonie sulle scarse decorazioni e sulla povertá de’ vestiari; e co’ dispensieri di lettere di dover rifiutare replicatamente lettere e fardelli diretti a Michele dall’Agata, gridando, protestando e giurando ch’io non era Michele; le quali persone tutte, partendo a stento, si volgevano a me tratto tratto guardandomi fiso smemorati e dimostrando di credere ch’io fossi un Michele che non volesse esser Michele.

Giunto a Padova una state, seppi essere a letto da un parto la signora Maria Canziani, valente e saggia danzatrice mia ottima amica. Volli farle una visita, e chiedendo a una donna nel di lei alloggio se potessi entrare nella sua stanza, ella entrò ad annunziarmi con queste parole: — Signora, è qui fuori il signor Michele dall’Agata che brama di riverirla. — Nel mio entrare ho avuto timore che la povera Canziani scoppi dal ridere sul franco sbaglio di quella femmina.

Uscito da quella visita m’incontrai sul ponte San Lorenzo nel celebre professore d’astronomia Toaldo. Egli conosceva me [p. 211 modifica]perfettamente, com’io conosceva perfettamente lui. Lo salutai, ed egli guardandomi si trasse il cappello con gravitá e dicendomi: — Addio, Michele, — e passando oltre pe’ fatti suoi.

La eterna insistenza di questo sbaglio m’aveva quasi ridotto a credere d’essere Michele. Se quel Michele avesse avuti de’ nimici brutali vendicativi, averei avuto occasione di non ridere d’esser preso per Michele.

Una sera che faceva gran caldo splendeva una luna bellissima a tal che la notte pareva giorno. Passeggiava cercando fresco e discorrendo col patrizio Francesco Gritti nella piazza San Marco. Ho udita una voce gridare dietro di me dicendo: — Che fai tu qui a quest’ora? ché non vai a dormire, pezzo d’asino? — Il dir ciò e il darmi due calzanti pugni nella schiena fu tutta una cosa. Mi volsi per fare una mia vendetta e scòrsi il patrizio cavaliere Andrea Gradenigo, il quale, guardandomi prima attentamente, mi disse poscia: — Scusi, avrei giurato ch’Ella fosse Daniele Zanchi.

Ci fu qualche ceremonia sulle pugna e sul titolo d’«asino» che aveva ricevuti per esser stato creduto un Daniele, con cui il cavaliere doveva avere una confidenza da potergli dire «asino» e di darle de’ cazzotti per usargli una finezza domestica.

Né meno stravagante fu il caso che m’avvenne sulla mia considerata somiglianza.

Essend’io con Carlo Andrich mio buon amico discorrendo sulla piazza San Marco un giorno serenissimo, vidi un greco co’ baffi, vestito alla lunga, con una berretta rossa in capo, il quale aveva seco un ragazzo vestito alla sua stessa maniera.

Quel greco vedendomi corse allegro verso me, e dopo avermi abbracciato e baciato con gran trasporto, si volse al ragazzo dicendogli: — Via! ragazzo, baciate la mano qui al vostro zio Costantino. — Il ragazzo mi prese la mano baciandola. Carlo Andrich guardava me, io guardava l’Andrich; eravamo due simulacri.

Finalmente chiesi al greco per chi mi prendesse. — Oh bella! — diss’egli — non siete voi il mio caro amico Costantino Zucalá? — L’Andrich si stringeva le coste per non crepare dal [p. 212 modifica]ridere ed io ebbi fatica sette minuti a persuadere il greco ch’io non era il signor Costantino Zucalá.

Fatta ricerca sulla mia somiglianza col signor Zucalá a chi lo conosceva, fui assicurato che quel signore, onorato mercante, era un uomo di bassa statura, pingue e che non aveva grano di somiglianza con me.

Avrò tediato soverchiamente narrando la centesima parte delle stravaganze che annoiarono me sulle mie giudicate somiglianze: darò ora un cenno sulla centesima parte de’ contrattempi che mi colsero.

Fosse di verno, fosse di primavera, fosse di state, fosse d’autunno, ad una pioggia dirotta improvvisa che mi colse fuori di casa, per quante ore mi fermassi o sotto un porticale o in qualche bottega ad attendere che quella pioggia cessasse per andarmene a casa asciutto, non v’è esempio ch’io avessi giammai la consolazione di veder cessato il diluvio, anzi lo vidi infuriare sempre maggiormente.

Spinto alfine dalla ricadía d’attendere invano, dalla impazienza e dalla brama d’andarmene a casa, mi sottomisi mansueto al diluvio, giugnendo al mio albergo molle e grondante d’acqua.

Giunto a casa con quella miseria addosso, appena aperto l’uscio e postomi in salvezza, cessò tosto la pioggia, le nuvole si diradarono e si mostrò il sole, ridente forse del mio fastidio.

Delle dieci le otto volte per tutto il corso della mia vita, quando sperai di rimaner solo e di potermi occupare leggendo o scrivendo per appagare il mio genio e per distrarmi da’ pensieri molesti, delle lettere o delle persone inaspettate, piú moleste de’ miei pensieri e delle lettere, vennero a interrompermi e a porre in crucciolo la mia pazienza.

Delle dieci le otto volte per tutto il tempo da che incominciai a radermi la barba, per delle persone giunte nel punto di raderla, le quali vennero frettolose adducendo di aver bisogno di parlar tosto con me, o furono persone di qualitá da non poter fare attendermi, ho dovuto nettare in fretta la saponata dal viso e talora uscire colla barba mezza rasa e mezza da [p. 213 modifica]radere per ascoltare le persone frettolose o per non mancare di creanza colle persone di qualitá.

Parrá indecente il narrare un altro contrattempo mio persecutore; ma lo narro perch’egli è una veritá.

Presso che ogni volta, ad una mia furiosa necessitá di orinare essendo fuori di casa e cercand’io qualche viottola solitaria per sgravarmi con modestia, appena sbottonato, eccoti aprirsi un uscio appresso di me e uscire da quello due signore che mi fanno sospendere il mio bisogno. Passo in fretta ad un altro cantuccio ch’io credo disabitato, ed eccoti delle altre signore da un uscio.

Questo frequente contrattempo d’intoppo, il violente prurito mi fanno correre qua e colá e scompisciar spesso le brache per necessitá e per modestia.

Ma questi sono piccioli contrattempi e mosciolini fastidiosi soltanto.

Chi ha la sofferenza di leggere la seconda parte di queste scipite Memorie troverá che il mal influsso de’ contrattempi mi fu sempre sul capo, e certamente i contrattempi ne’ quali m’involse il povero Pietro Antonio Gratarol, da me commiserato, colle sue strane direzioni non furono inconsiderabili.

Parmi che non sia indegno d’esser narrato un comico contrattempo che mi sorprese, e voglio narrarlo.

Abitava io nella casa paterna posta in calle della Regina, contrada di San Cassiano, ed ero rimasto solo abitatore d’una casa assai grande, perocché i miei due fratelli Francesco ed Almorò, ammogliati e accasati nel Friuli, attenti a’ loro interessi in quella provincia, avevano lasciata nel mio partaggio la paterna abitazione.

Ne’ tempi delle villeggiature mi portava anch’io nel Friuli, lasciando le chiavi e la custodia del mio albergo ad un mercante di biade mio vicino onestissimo.

Avvenne per caso che un autunno, per uno de’ miei contrattempi fedeli, le piogge e i torrenti caduti mi trattennero lungo tempo nel Friuli e sino al novembre innoltrato. Quelle nevi alla montagna e que’ venti che ristabiliscono il sereno avevano anche fissato un grandissimo freddo. [p. 214 modifica]

M’avviai verso Venezia ben impellicciato, e superando pantani, buche profonde e fiumi gonfiati, vi giunsi verso l’un’ora di notte metá vivo e metá morto per la noia, per la stanchezza, per il freddo e per il sonno.

Smontai dalla barca che mi condusse alle poste a San Cassiano, e fatto prendere ad un facchino il mio baule in collo e al mio servo una cappelliera sotto il braccio, indirizzai i passi verso la mia abitazione, ben ravvolto nel pelliccio e tutto brama e necessitá d’andarmene a letto ben caldo.

Giunto col facchino ed il servo carichi alla calle della Regina, quella via era cosí affollata e calcata di maschere e di gente d’ogni sesso, che il voler fendere la piena per giugnere all’uscio mio con le some de’ miei due seguaci era cosa affatto impossibile.

— Che diavolo è questa calca? — chiesi ad uno che m’era presso.

— Fu oggi creato patriarca di Venezia il patrizio Bragadino, che ha il suo palagio nel fondo di questa calle — rispose quell’uomo. — Si fanno fuochi, feste; si largisce pane, vino e danari al popolo per tre giorni. Queste sono le cause della pressa enorme.

Riflettendo io che l’uscio della mia casa era vicino al ponte per cui si passa al campo di Santa Maria Materdomini, credei, facendo un giro per la calle detta del «ravano» e per la contrada di Sant’Eustacchio, di poter riuscire nel detto campo e passando il ponte di aver libertá di ficcarmi nel mio albergo a dormire.

Feci il lungo giro co’ portatori del mio corredo, e giunto nel campo di Santa Maria Materdomini rimasi uno stupido nel vedere spalancate le mie finestre, e la casa mia, tutta fornita di ciocche di cristallo e illuminata da cere, ardere come la casa del Sole.

Dopo esser stato mezzo quarto d’ora con la bocca aperta a mirare tanta maraviglia, mi scossi, e facendo cuore passai il ponte, picchiando forte all’uscio mio.

Aperto l’uscio mi si affacciarono due militi urbani, i quali presentandomi due spuntoni al petto gridarono con viso fiero: — Per di qui non si passa. [p. 215 modifica]

— Come! — diss’io ancor piú sbalordito e mansuetamente. — Perché non poss’io passare?

— Non signore — risposero que’ terribili, — per quest’uscio non s’entra. Ella vada a porsi in maschera ed entri per quel portone che vede qui a mano diritta, ch’è del palagio Bragadini. Mascherato la lasceranno per di lá entrare alle feste.

— Ma se fossi il padrone di questa casa, e giunto stanco da un viaggio, agghiacciato e assonnato, non potrei entrare nella mia casa per pormi nel mio letto? — diss’io con tutta la flemma.

— Ah, il padrone? — risposero que’ feroci. — Ella si fermi ed avrá qualche risposta. — Detto ciò mi chiusero impetuosamente la porta in faccia.

Io guardava come un smemorato il facchino ed il servo, ed il facchino oppresso dalla soma ed il servo guardavano me incantati.

S’aprí finalmente di nuovo l’uscio e mi si presentò un mastro di casa tutto trinato d’oro, il quale con molti inchini mi fece l’invito d’entrare. V’entrai, e salendo la scala chiesi a quella riverente persona che fosse l’incantesimo ch’io vedeva nel mio albergo.

— E lei non sa nulla? — rispose quell’uomo. — Il mio padrone patrizio Gasparo Bragadino, prevedendo che il di lui fratello sarebbe eletto patriarca, trovandosi ristretto di fabbricato per fare le consuete feste pubbliche, desiderò di unire con un ponticello di passaggio dalle finestre questa casa alla sua, per aver maggior agio. Tanto fu eseguito con la di lei permissione. Qui si fanno parte delle feste e si getta dalle finestre al popolo pane e danari. Lei non abbia però alcun dubbio che la stanza dov’Ella dorme non sia stata preservata e chiusa con diligenza. Venga meco, venga meco e vedrá.

Rimasi ancor piú attonito sentendomi dire d’una permissione che nessuno m’aveva chiesta e ch’io non aveva data. Non volli però far parole con un mastro di casa sopra ciò, e giunto nella sala restai abbagliato dalle gran cere che ardevano e stordito da’ servi e dalle maschere che facevano un gran girare e un gran bisbigliare. [p. 216 modifica]

Il romore che si faceva nella cucina m’attrasse a quella parte, e vidi un grandissimo fuoco a cui bollivano paiuoli, pignatte, tegami, e girava un lungo schidione di polli d’india, di pezzi di vitella e d’altro.

Il mastro di casa ceremonioso voleva pure ch’io vedessi la mia stanza, preservata chiusa con diligenza, e ch’entrassi in quella.

— Mi dica di grazia, mio signore — diss’io, — sino a qual ora dura questo tumulto?

— Ma veramente — rispose il mastro di casa, — per tre notti consecutive egli dura sino a giorno.

— Ho ben piacere — diss’io — d’aver avuta cosa al mondo ch’abbia potuto accomodare alla famiglia Bragadino. Ciò m’ha cagionato un onore. Riverisca le Eccellenze Loro. Vado in traccia tosto di trovarmi un alloggio per i tre giorni e le tre notti consecutive, avendo somma necessitá di riposo e di calma.

— Oibò! — rispose il mastro di casa. — Ella deve riposare nella sua casa e nella sua stanza serbata con tutta l’attenzione.

— No no, certamente — diss’io. — La ringrazio della cortese sua diligenza. Come mai vorrebb’Ella ch’io dormissi con questo fracasso? Il mio sonno è alquanto sottile.

Ordinai al facchino ed al servo che mi seguissero, e passai ad abitare pazientemente per i tre giorni e le tre notti consecutive in una locanda.

Alleggerito dalla stanchezza la notte, volli andare a congratularmi col cavaliere Bragadino dell’esaltazione al patriarcato del di lui fratello.

Quel cavaliere m’accolse con somma affabilitá. Si mostrò amareggiato per quanto aveva inteso dal suo mastro di casa. Mi narrò con una candidissima ingenuitá che il patrizio conte Ignazio Barziza lo aveva assicurato d’aver spedito un messo con una lettera a me nel Friuli, chiedendomi licenza di valersi del mio albergo per le feste del patriarca, e ch’io gli aveva colla mia risposta dato ampiamente l’assenso.

Gli risposi che in vero non aveva veduto né messi né lettere, ma ch’egli m’aveva fatto un sommo piacere a valersi della mia povera casa; ch’io desiderava maggiori esaltazioni alla di lui [p. 217 modifica]famiglia, e che se ciò avvenisse, senza cercare il mezzo del patrizio conte Ignazio Barziza, facesse spalancare le porte e le finestre e si valesse liberamente dell’albergo mio.

Comunque sia stata quella faccenda, ella m’ha fruttato la pregiabile benevolenza del patrizio Bragadino, m’ha fatto albergare tre giorni e tre notti in una locanda e m’ha dato argomento di narrare uno de’ miei innumerabili contrattempi.