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308 parte terza


doto della mia comparsa sul palco scenico. — Trovandomi stanco, avevo bisogno di riposare e di dormire. Contento il mio cuore e tranquilla la mia mente, avrei passato nel mio letto una notte soave, ma in un legno da posta chiudevo appena l’occhio, che ad ogni istante ne ero svegliato dalle scosse; insomma dormicchiando, discorrendo, sbadigliando, giungemmo alfine a Fontainebleau. Quivi prendo riposo, poi desino, passeggio, e vo a vedere la rappresentazione della mia commedia, sempre però dietro le scene. Nel capitolo precedente ho fatto menzione del suo buon incontro alla corte. Benchè non fosse allora permesso di applaudire nella casa del re, ciò non ostante si scorgeva benissimo, da certi moti naturali e permessi, l’effetto grande che la commedia produceva sull’animo degli spettatori. Il giorno dopo ebbi l’onore di essere presentato al re, nel suo gabinetto particolare, dal signor maresciallo di Duras. Sua Maestà e tutta quanta la famiglia reale mi diedero segni della solita loro benignità.

Non ritornai a Parigi se non nell’occasione della seconda recita della mia commedia, durante la quale vi fu qualche agitazione nella platea, che indicava un principio di mal umore. Io era nel solito mio posto, quando il signor Feuilli venne a farmi questo discorso: — No, non vi date la minima pena; questo è tutto effetto di cabala. — Come? (io ripresi) eppure non ve n’è stata nella prima rappresentazione. — Non ve n’è stata (soggiunse il comico), perchè i gelosi non vi temevano, burlandosi di uno straniero che aveva la pretensione di esporre una commedia in francese, onde la cabala non era ancora preparata: con tutto questo, state pur certo, che nulla avete a temere; il colpo è fatto, ed è assicurato il felice successo. Difatti questa commedia andò sempre di bene in meglio fino alla duodecima rappresentazione, dimodochè i comici ed io d’accordo non la ritirammo, se non per farla nuovamente comparire in una stagione più vantaggiosa. Nessuno diceva male del mio Bourru bienfaisant, ma se ne parlò per altro in diverse maniere: taluni credevano, che ella fosse un lavoro tratto dal mio Teatro italiano, ed altri sospettavano, che io l’avessi qui scritta in italiano, e poi tradotta in francese. I primi potevano persuadersi del contrario riscontrando la collezione delle mie Opere; gli ultimi poi, seppur tuttora ve ne sono, mi è facile disingannarli. Non solo mi proposi di scrivere la mia commedia in francese, ma ebbi altresì in mira la maniera francese nell’immaginarla; ed infatti essa porta fedelmente, l’indole della sua origine tanto nei pensieri quanto nelle immagini, tanto nei costumi quanto nello stile. Se ne son fatte due differenti traduzioni in Italia, le quali, benchè non siano cattive, nulladimeno non s’avvicinano a gran pezza all’originale. Io medesimo mi son provato per divertimento a tradurne alcune scene, e posso dire di aver sentita tutta la fatica di tal lavoro, non meno che la difficoltà di riuscirvi; vi son certe frasi, certi modi convenzionali che nella traduzione perdono ogni sale. Esaminiamo per esempio nella scena XVII del secondo atto, il vocabolo jeune homme, pronunziato da Angelica; e vedremo che non vi è l’equivalente in italiano. La parola giovine è troppo abietta, ed è al disotto della condizione di Angelica; giovinetto sarebbe troppo affettato in bocca di una ragazza timida e morigerata; per ben tradurlo sarebbe necessario valersi di una perifrasi, che altro non sarebbe se non dar troppa chiarezza al senso sospeso, e conseguentemente guastare la scena. I caratteri del signore e della signora Dalancour sono immaginati e trattati con una delicatezza, conosciuta soltanto in Francia. In