Memorie di Carlo Goldoni/Parte terza/XII
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CAPITOLO XII.
- Mio nipote professore di lingua italiana nella Regia Scuola Militare e poco tempo dopo segretario interprete nell’uffizio della Corsica. — Partenza del signor Gradenigo ambasciatore di Venezia, — Udienze pubbliche degli ambasciadori soppresse. — Il signor cavaliere Mocenigo nuovo ambasciadore di Venezia.
L’esame di ciò che v’ha di più bello a Parigi, e qualche ora dedicata ogni giorno allo studio, rendevano piacevolissimo il soggiorno di Parigi; l’oggetto bensì più serio d’ogni mia occupazione era mio nipote. L’avevo condotto in Francia con me, sapendo quanto giovino all’educazione i viaggi, allorchè siano somministrati ad un giovine i mezzi per imparare, e si vegli di continuo sulla sua condotta. Arrivando a Parigi non pensavo di fissarvi la mia dimora; ma avendo finalmente deciso di restarvi, bisogna fare il possibile per procacciare uno stato anche al figlio di mio fratello, che io amava come se fosse stato mio. Egli era di buoni costumi, docile, ed aveva compito in Venezia il corso de’ suoi studi; onde era capace per qualche buono impiego. Non essendo io ricco quanto conveniva per comprare al medesimo una carica, volevo evitare, se era possibile, la disgustosa inquietudine di stare, relativamente agl’impieghi di grazia, in lotta con i Francesi. Alla Scuola Reale Militare il professore di lingua italiana era il signor Conti, mio intimo amico, che desiderava dimettersi da tale impiego; ma siccome non veniva concessa la pensione di riposo se non dopo venti anni di servizio, il signor Conti non era in caso di domandarla. D’altra parte l’impiego era buono, e per un giovane lo stato non poteva esser migliore, onde bramavo vivamente che mio nipote potesse ottenerlo; ma vi erano da superare difficoltà parecchie. In tal caso implorai la protezione della principessa Adelaide di Francia. Ella mi raccomandò al duca di Choiseul; in somma in quindici giorni di tempo il signor Conti ebbe la sua pensione, e mio nipote l’impiego. In questa occasione io vidi con tutto il comodo e più volte quei due stabilimenti, degni della magnificenza dei monarchi francesi, la Scuola Militare e lo Spedale degli Invalidi, la cuna e la tomba dei difensori della patria. Si alleva nel primo la nobiltà destinata alla professione dell’armi, e nel secondo si appresta sollievo all’età, ai servigi già resi, alle disgraziate conseguenze della guerra: le arti, le scienze, l’educazione più utile formano i veri uomini nell’uno, laddove l’altrui cura, il riposo e i comodi della vita li ricompensa nell’altro. La fondazione di quest’ultimo monumento è dovuta al regno di Luigi XIV; e al regno di Luigi XV è dovuta quella dell’altro. Lo spedale degli Invalidi è decorato di un tempio così magnifico che sarebbe degno di un posto onorevole in Roma; e son belli a vedersi i quattro grandi refettorii dei soldati, non meno che le cucine ove si preparano i cibi per quella buona gente. Era un piacere per me lo andare a passar qualche giorno in codeste due Case reali che restano l’una accanto dell’altra, delle quali ne conoscevo i direttori e i principali impiegati; ma dopo due mesi che mio nipote vi fu collocato, successero nella Scuola Real Militare mutazioni considerevoli. Furono trasferite al collegio della Fléche le classi di umanità e restò soppressa affatto quella della lingua italiana, non per colpa del professore, il quale anzi venne ricompensato e gli furono assegnati seicento franchi di pensione. Mi assicurano alcuni, che il signor duca di Choiseul era avvertito delle mutazioni che si proponevano, allorquando vi collocò mio nipote; e fu solo per procurare a noi questo piccolo benefizio, che concesse un impiego il quale non doveva durare. Riguardandomi pertanto questo ministro come un protetto dalle principesse, aveva per me molta bontà, e mi fece l’onore di dirmi, allorquando mi recai da lui per ringraziarlo: Ecco felicemente disposti gli affari di vostro nipote; come vanno i vostri? — Risposi che il mio assegnamento ascendeva a sole tremila seicento franchi di rendita. Egli, ridendo, soggiunse: — Veramente questo non può dirsi avere uno stato; vi si conviene molto più; si penserà anche per voi. Con tutto questo non ho mai avuto nulla di più; sarà forse dipeso da me; ma eccomi sempre al solito ritornello: ero alla corte, ma non ero cortigiano.
Trovandosi mio nipote senza occupazione alcuna, per mettere a profitto il tempo, lavorava con me, stando intanto in aspettativa che la sorte lo provvedesse di qualche altro ufficio; ma la massima da me adottata, ed insinuata in lui di non far domande con la folla dei concorrenti, ne rendeva più difficoltoso l’intento.
Feci amicizia in Versailles con il signor Genet, capo e direttore del compartimento degl’interpreti, al quale egli aveva dato una forma affatto nuova, e una maggiore consistenza, e n’era divenuto primo commesso. Questo rispettabile padre di famiglia, il cui tempo era costantemente diviso fra gli affari relativi al suo impiego e l’educazione dei suoi figli, rammentandosi un piccolo servigio che io aveva avuto la sorte di rendergli, colse l’opportunità di rimunerarmi. Dappoichè la Francia aveva fatto acquisto della Corsica, era stato a Versailles stabilito un uffizio per tutti gli affari riguardanti quest’isola; ed essendovi necessario un interprete delle due lingue, il primo commesso s’indirizzò subito al signor Genet per averci posto. In tale occasione il degno amico si ricordò di me, propose mio nipote, ed egli infatti venne accettato e vi fu nel momento collocato senza difficoltà. Sembrava però che questo giovine fosse destinato ad incontrar per tutto delle riforme, delle soppressioni. Anche il dipartimento còrso fu smembrato qualche tempo dopo; gli affari delle finanze furono assegnati al registratore generale, e passò al ministero di guerra l’amministrazione civile. Là adunque fu aggregato l’interprete, e questa incombenza fu annessa all’uffizio del signor Campi primo commesso per gli affari contenziosi. Procurò adunque mio nipote di rendersi utile, ed ebbe la sorte di non dispiacere ai superiori, che gli diedero anzi mille prove della loro bontà; per lo che, quando il mio viaggio in Francia non avesse prodotto altro che il collocamento di questo mio diletto nipote, io mi loderei sempre di averlo intrapreso.
Propenso alla Francia per inclinazione, divenni maggiormente tale per riconoscenza; dimodo che il signor cavalier Gradenigo, ambasciatore di Venezia, quantunque impegnatissimo per farmi apprezzare le proposizioni de’ suoi compatrioti, trovò giusta nulladimeno la mia resistenza, e s’incaricò anzi di giustificarmi con i suoi amici, miei degni protettori. Questo ministro era prossimo al termine della sua commissione, poichè il periodo degli ambasciatori della Repubblica è limitato a quattr’anni. Essendo egli amato dalla corte non meno che dal ministero francese, si desiderava perciò che egli proseguisse anche per maggior tempo l’esercizio della sua carica. Disposto il re a richiederlo, il ministro era quasi sul punto di spedire un corriere espressamente alla Repubblica. Ma l’ambasciatore, pieno di rispetto e riconoscenza, non poteva in alcun modo acconsentirvi: le leggi della Repubblica sono immutabili; il successore era già per viaggio; il signor Gradenigo doveva partire, ed i preparativi della sua udienza di congedo erano già troppo avanti. Il duca di Coiseul, ministro degli affari esteri, vedeva che questa cerimonia era dispendiosa, incomoda, e totalmente inutile. Il Re era dell’istesso pensiero; onde il signor Gradenigo fu dichiarato cavaliere di Sua Maestà senza l’ordinaria pompa, e fece perciò le sue visite alla famiglia reale ed ai principi del sangue in privato. Questa è l’epoca della soppressione delle udienze pubbliche degli ambasciatori ordinari. Al cavalier Gradenigo subentrò li signor cavaliere Sebastiano Mocenigo, proveniente di Spagna, ove la Repubblica di Venezia lo aveva inviato per la sua prima ambasciata. Discendeva egli da illustre famiglia, antichissima e ricchissima: aveva ingegno e criterio; era amabile, buon dilettante di musica, aveva il dono di una voce graziosissima; con tutto questo egli ebbe a sopportare dispiaceri, che forse non meritava.