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capitolo xiii | 299 |
Trovandosi mio nipote senza occupazione alcuna, per mettere a profitto il tempo, lavorava con me, stando intanto in aspettativa che la sorte lo provvedesse di qualche altro ufficio; ma la massima da me adottata, ed insinuata in lui di non far domande con la folla dei concorrenti, ne rendeva più difficoltoso l’intento.
Feci amicizia in Versailles con il signor Genet, capo e direttore del compartimento degl’interpreti, al quale egli aveva dato una forma affatto nuova, e una maggiore consistenza, e n’era divenuto primo commesso. Questo rispettabile padre di famiglia, il cui tempo era costantemente diviso fra gli affari relativi al suo impiego e l’educazione dei suoi figli, rammentandosi un piccolo servigio che io aveva avuto la sorte di rendergli, colse l’opportunità di rimunerarmi. Dappoichè la Francia aveva fatto acquisto della Corsica, era stato a Versailles stabilito un uffizio per tutti gli affari riguardanti quest’isola; ed essendovi necessario un interprete delle due lingue, il primo commesso s’indirizzò subito al signor Genet per averci posto. In tale occasione il degno amico si ricordò di me, propose mio nipote, ed egli infatti venne accettato e vi fu nel momento collocato senza difficoltà. Sembrava però che questo giovine fosse destinato ad incontrar per tutto delle riforme, delle soppressioni. Anche il dipartimento còrso fu smembrato qualche tempo dopo; gli affari delle finanze furono assegnati al registratore generale, e passò al ministero di guerra l’amministrazione civile. Là adunque fu aggregato l’interprete, e questa incombenza fu annessa all’uffizio del signor Campi primo commesso per gli affari contenziosi. Procurò adunque mio nipote di rendersi utile, ed ebbe la sorte di non dispiacere ai superiori, che gli diedero anzi mille prove della loro bontà; per lo che, quando il mio viaggio in Francia non avesse prodotto altro che il collocamento di questo mio diletto nipote, io mi loderei sempre di averlo intrapreso.
Propenso alla Francia per inclinazione, divenni maggiormente per tale riconoscenza; dimodo che il signor cavalier Gradenigo, ambasciatore di Venezia, quantunque impegnatissimo per farmi apprezzare le proposizioni de’ suoi compatrioti, trovò giusta nulladimeno la mia resistenza, e s’incaricò anzi di giustificarmi con i suoi amici, miei degni protettori. Questo ministro era prossimo al termine della sua commissione, poichè il periodo degli ambasciatori della Repubblica è limitato a quattr’anni. Essendo egli amato dalla corte non meno che dal ministero francese, si desiderava perciò che egli proseguisse anche per maggior tempo l’esercizio della sua carica. Disposto il re a richiederlo, il ministro era quasi sul punto di spedire un corriere espressamente alla Repubblica. Ma l’ambasciatore, pieno di rispetto e riconoscenza, non poteva in alcun modo acconsentirvi: le leggi della Repubblica sono immutabili; il successore era già per viaggio; il signor Gradenigo doveva partire, ed i preparativi della sua udienza di congedo erano già troppo avanti. Il duca di Coiseul, ministro degli affari esteri, vedeva che questa cerimonia era dispendiosa, incomoda, e totalmente inutile. Il Re era dell’istesso pensiero; onde il signor Gradenigo fu dichiarato cavaliere di Sua Maestà senza l’ordinaria pompa, e fece perciò le sue visite alla famiglia reale ed ai principi del sangue in privato. Questa è l’epoca della soppressione delle udienze pubbliche degli ambasciatori ordinari. Al cavalier Gradenigo subentrò li signor cavaliere Sebastiano Mocenigo, proveniente di Spagna, ove la Repubblica di Venezia lo aveva inviato per la sua prima ambasciata. Discendeva egli da illustre famiglia, antichissima e ricchissima: