Memorie di Carlo Goldoni/Parte seconda/XXXII

XXXII

../XXXI ../XXXIII IncludiIntestazione 2 dicembre 2019 100% Da definire

Carlo Goldoni - Memorie (1787)
Traduzione dal francese di Francesco Costero (1888)
XXXII
Parte seconda - XXXI Parte seconda - XXXIII

[p. 232 modifica]

CAPITOLO XXXII.

Critiche de’ miei nemici. — Difese dei miei partigiani. — Accusa di aver mancato nella purità della lingua toscana. — Il Tasso fu criticato in egual modo. — La mia commedia di cinque atti ed in versi, intitolata: Torquato Tasso. — Notizie preliminari, riguardanti la sua vita. — Ristretto di questa commedia.

Il mìo viaggio di Parma, il diploma e la pensione che ne avevo ottenuta, risvegliarono l’invidia e lo sdegno de’ miei nemici. Costoro sparsero voce in Venezia, nel tempo della mia assenza, che io era morto; e vi fu un frate che audacemente asserì d’essersi trovato alle mie esequie. Ma giunto in patria sano e salvo, i perversi spiriti si vendicarono della mia buona sorte. Non erano gli autori, miei antagonisti, che mi tormentavano: ma solo i partigiani dei diversi spettacoli di Venezia.

Alcuni letterati, che avevano qualche considerazione per me, si presero l’incarico di difendermi; ed ecco perciò una guerra dichiarata, nella quale mi toccava ad essere vittima innocente di tutti gli animi irritati. È sempre stato mio costume di occultare i nomi dei malvagi; posso però ben onorarmi del nome dei miei difensori. Il padre Roberti gesuita, oggi abate Roberti, uno dei più illustri poeti della soppressa Compagnia, pubblicò uno poema in versi sciolti, intitolato La Commedia, nel quale, parlando della mia riforma e facendo l’analisi, di alcune scene delle mie commedie, incoraggiva i suoi e miei compatriotti a seguitare l’esempio ed il metodo dell’autore veneto. Dietro l’abate Roberti venne il conte Verri milanese, che intitolò la sua opera La Vera Commedia; fece in essa particolari estratti di quelle mie che gli parvero migliori, esponendole quali modelli da imitarsi per condur felicemente al termine la riforma del Teatro italiano. Il Museo di Apollo, poema in versi martelliani di sua eccellenza Niccola Beregan, nobile veneziano era lo scritto più ragguardevole di tutti gli altri. Infatti tale opera, benissimo composta e ricca di dotte note, fu dal pubblico gustata con estremo piacere, e mi fece un infinito onore. Altri patrizi [p. 233 modifica]veneziani ancora scrissero in favor mio nell’occasione delle dispute che andavano a prender fuoco un giorno più dell’altro. Il conte Gasparo Gozzi, letterato dottissimo, ed autore di alcune tragedie e commedie italiane, prese egli pure il mio partito, e mi onorò nelle sue poesie de’ suoi elogi; il conte Orazio Arrighi Landini, fiorentino, trovò parimenti degne della sua musa toscana le opere dell’autore veneziano. Ogni giorno escivan fuori composizioni prò e contra; io per altro avevo il vantaggio, che tutte le persone affezionate a me erano per i loro costumi, per le loro doti intellettuali e riputazioni le più saggie e considerate d’Italia.

Non dimenticherò mai il signor Stefano Sugliaga della città di Ragusa, attualmente segretario reale ed imperiale a Milano. Quest’uomo dottissimo, questo filosofo stimabile, caldo ed affezionatissimo amico, di cui il cuore e la borsa erano sempre aperte per me; quest’uomo in somma, il cui ingegno e carattere eran ben degni di un egual rispetto, si accinse alla risposta dei satirici dardi vibrati contro di me. L’energica ed eloquente sua prosa faceva molto più effetto dell’orpello dei versi e delle poetiche immagini. Uno dei difetti ond’io venivo vivamente censurato, era quello della purità della lingua. Come Veneziano, avevo lo svantaggio di avere succhiato col latte l’uso di un dialetto piacevole e seducentissimo, ma che non era il toscano. Imparai per principii e coltivai in séguito colla lettura il linguaggio dei buoni autori italiani; ma contuttociò sempre tornano a riprodursi alcune delle natie prime impressioni, malgrado l’attenzione che si ponga ad evitarle. Feci un viaggio in Toscana, ove mi trattenni per quattro anni, ad unico oggetto di rendermi questa lingua familiare, e feci fare inclusive in Firenze la prima edizione delle mie Opere sotto gli occhi e la censura dei dotti di quel paese, per renderla così netta da qualunque difetto di lingua. Tutte le mie precauzioni non bastarono per contentare i rigoristi. Secondo loro avevo sempre mancato in qualche cosa, e mi si rimproverava sempre il peccato originale del venezianismo. In mezzo a tante noiose baie mi ricordai un giorno che il Tasso pure era stato vessato per tutto il tempo della sua vita dagli Accademici della Crusca, i quali sostenevano che La Gerusalemme Liberata non era passata per il buratto, emblema della loro Accademia. Trovandomi nel mio studio, volsi l’occhio ai dodici volumi in quarto delle opere di questo autore, ed esclamai: Mio Dio; sarà dunque necessario esser nato in Toscana per ardire di scrivere in lingua italiana? — Ciò detto, passai ad una meccanica osservazione su i cinque volumi del Dizionario della Crusca, nei quali trovai più di seicento vocaboli, ed una quantità grande di espressioni approvate dall’Accademia, e rigettate affatto dall’uso; percorsi alcuni autori antichi, che fan testo di lingua, e che contuttociò non si potrebbero imitare al dì d’oggi senza rimprovero, e terminai con dire: È vero che bisogna scrivere in buon italiano, ma è altresì necessario scrivere in un modo da essere intesi in tutte le regioni d’Italia; infatti fece malissimo il Tasso a riformare il suo poema per dare nel genio agli Accademici della Crusca. La sua Gerusalemme Liberata è letta da tutto il mondo; nessuno legge la Gerusalemme Conquistata.

Perdei molto tempo in fare tali osservazioni, tali ricerche, ma anche dal tempo perduto seppi ricavar profitto, poichè scelsi il Tasso appunto per soggetto di una nuova commedia. Siccome avevo messo in iscena Terenzio e Molière, immaginai perciò di far così anche del Tasso; soggetto non straniero nella classe drammatica, giacchè [p. 234 modifica] il suo Aminta è un capolavoro, il suo Torrismondo è una tragedia benissimo fatta, e la sua commedia degl’Intrighi d’amore, se non è un’opera eccellente, non lascia però di manifestare l’indole di un uomo di genio. La vita del Tasso somministra per sè stessa parecchi aneddoti molto importanti per una composizione teatrale; ed i suoi amori, che sono stati appunto la sorgente delle sue disgrazie, formano l’azione principale della mia commedia. Tutto il mondo sa, che il Tasso divenne amante della principessa Eleonora, sorella di Alfonso d’Este duca di Ferrara, il rispetto però di cui è degna questa illustre casa, tuttora regnante in Italia, mi fece mutare il grado di principessa in quello di una marchesa favorita del duca, e molto bene affetta alla principessa. Si trovavano in quel tempo alla corte di Ferrara due altre Eleonore: una era moglie di un cortigiano chiamato don Gherardo, e l’altra, cameriera della marchesa. Raccapezzai quest’aneddoto nel dizionario del Moreri, e se il fatto non è abbastanza autentico per l’istoria, lo credo almeno sufficiente per dar materia ad un’opera comica; giacchè non parmi straordinario incontrare in Italia tre nomi simili in un’istessa corte, avendo l’uso gl’Italiani di chiamarsi sempre per i loro nomi di battesimo. Apre la scena il Tasso, componendo un madrigale in lode di Eleonora. Sopraggiunge don Gherardo che lo cerca da parte del duca, onde il Tasso accorre agli ordini del suo padrone. Il cortigiano intanto resta solo, ed in questo tempo scartabellando i fogli dell’autore, vi trova il madrigale sopradetto: lo legge, e si mette in idea che Eleonora sua moglie sia il soggetto dei versi e della passione del poeta. Quest’uomo indiscreto è anche imprudente al segno di lagnarsene; sua moglie gli presta fede, nè gli dispiace una tal notizia; ma anche la cameriera che è la terza Eleonora ha le sue pretensioni sul madrigale. Il duca però non si lascia ingannare: sospetta della marchesa, ed ecco il Tasso in disgrazia. Tutti quelli che hanno letto la vita di quest’uomo celebre, devono sapere ch’è originario di Bergamo, e che per un viaggio de’ suoi genitori nacque in Sorrento nel regno di Napoli. Queste due città si contrastavano appunto a vicenda l’onore di esser patria del Tasso, e tali pretensioni erano anche favorite dai respettivi loro sovrani che desideravano a gara di possederlo. In conseguenza di questi contrasti, simili a quelli della Grecia sulla nascita di Omero introdussi nella mia commedia un Veneziano e un Napoletano che parlano entrambi il linguaggio del loro paese, e che profittano della scontentezza del preteso loro compatriotto per impegnarlo a lasciar Ferrara. L’incontro di questi due forestieri produce alcune scene molto comiche e piacevoli, e la dolcezza del dialetto veneziano posta in opposizione alla brutta e veemente pronunzia napoletana, formano un singolare e dilettevole contrasto. Feci aver parte con molta destrezza in questa medesima composizione ad un personaggio fiorentino, sotto il nome di Cavaliere del Fiocco, il quale non era già un vero accademico della Crusca, avendo io troppo rispetto per quella illustre e dotta società per esporre uno de’ suoi membri alle risa pubbliche. Il Cavalier del Fiocco altro non era, se non uno di quegli abbietti rifiuti dell’Accademia, che, affettando il rigorismo della lingua toscana, cadono nell’assurdità; e tale appunto era la maggior parte di quelli che l’avevano col mio stile. Non intendo però di comprendere in questa classe i Granelloni, società letteraria stabilita in Venezia sotto questo nome, della quale i conti fratelli Gozzi erano a mio tempo l’ornamento principale. Il Tasso tormentato dall’amore, congedato dal suo sovrano [p. 235 modifica] ed annoiato dal Fiorentino era prossimo a lasciar Ferrara, sempre però indeciso, se ceder dovesse alle premurose istanze del Veneziano, o piuttosto a quelle del Napoletano. In questo mentre giunge da Roma un personaggio chiamato Patrizio, che a nome degli accademici di quella capitale del mondo cristiano, invita il Tasso ad andare a ricevere in Campidoglio la corona poetica di cui era stato onorato il Petrarca. Il Tasso dunque, preferendo l’onore a qualunque altro vantaggio, accetta la proposizione, ed abbandona le rive del Po per andare a cercare la sua consolazione sul Tevere; ove veramente l’avrebbe forse trovata, se la morte non avesse reciso il filo de’ suoi giorni e delle sue speranze. Questa commedia ebbe un incontro sì generale e costante, che per voce pubblica fu messa nella classe, non dirò già delle migliori, ma bensì delle più felici mie produzioni.