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capitolo xxxii | 233 |
ziani ancora scrissero in favor mio nell’occasione delle dispute che andavano a prender fuoco un giorno più dell’altro. Il conte Gasparo Gozzi, letterato dottissimo, ed autore di alcune tragedie e commedie italiane, prese egli pure il mio partito, e mi onorò nelle sue poesie de’ suoi elogi; il conte Orazio Arrighi Landini, fiorentino, trovò parimenti degne della sua musa toscana le opere dell’autore veneziano. Ogni giorno escivan fuori composizioni prò e contra; io per altro avevo il vantaggio, che tutte le persone affezionate a me erano per i loro costumi, per le loro doti intellettuali e riputazioni le più saggie e considerate d’Italia.
Non dimenticherò mai il signor Stefano Sugliaga della città di Ragusa, attualmente segretario reale ed imperiale a Milano. Quest’uomo dottissimo, questo filosofo stimabile, caldo ed affezionatissimo amico, di cui il cuore e la borsa erano sempre aperte per me; quest’uomo in somma, il cui ingegno e carattere eran ben degni di un egual rispetto, si accinse alla risposta dei satirici dardi vibrati contro di me. L’energica ed eloquente sua prosa faceva molto più effetto dell’orpello dei versi e delle poetiche immagini. Uno dei difetti ond’io venivo vivamente censurato, era quello della purità della lingua. Come Veneziano, avevo lo svantaggio di avere succhiato col latte l’uso di un dialetto piacevole e seducentissimo, ma che non era il toscano. Imparai per principii e coltivai in séguito colla lettura il linguaggio dei buoni autori italiani; ma contuttociò sempre tornano a riprodursi alcune delle natie prime impressioni, malgrado l’attenzione che si ponga ad evitarle. Feci un viaggio in Toscana, ove mi trattenni per quattro anni, ad unico oggetto di rendermi questa lingua familiare, e feci fare inclusive in Firenze la prima edizione delle mie Opere sotto gli occhi e la censura dei dotti di quel paese, per renderla così netta da qualunque difetto di lingua. Tutte le mie precauzioni non bastarono per contentare i rigoristi. Secondo loro avevo sempre mancato in qualche cosa, e mi si rimproverava sempre il peccato originale del venezianismo. In mezzo a tante noiose baie mi ricordai un giorno che il Tasso pure era stato vessato per tutto il tempo della sua vita dagli Accademici della Crusca, i quali sostenevano che La Gerusalemme Liberata non era passata per il buratto, emblema della loro Accademia. Trovandomi nel mio studio, volsi l’occhio ai dodici volumi in quarto delle opere di questo autore, ed esclamai: Mio Dio; sarà dunque necessario esser nato in Toscana per ardire di scrivere in lingua italiana? — Ciò detto, passai ad una meccanica osservazione su i cinque volumi del Dizionario della Crusca, nei quali trovai più di seicento vocaboli, ed una quantità grande di espressioni approvate dall’Accademia, e rigettate affatto dall’uso; percorsi alcuni autori antichi, che fan testo di lingua, e che contuttociò non si potrebbero imitare al dì d’oggi senza rimprovero, e terminai con dire: È vero che bisogna scrivere in buon italiano, ma è altresì necessario scrivere in un modo da essere intesi in tutte le regioni d’Italia; infatti fece malissimo il Tasso a riformare il suo poema per dare nel genio agli Accademici della Crusca. La sua Gerusalemme Liberata è letta da tutto il mondo; nessuno legge la Gerusalemme Conquistata.
Perdei molto tempo in fare tali osservazioni, tali ricerche, ma anche dal tempo perduto seppi ricavar profitto, poichè scelsi il Tasso appunto per soggetto di una nuova commedia. Siccome avevo messo in iscena Terenzio e Molière, immaginai perciò di far così anche del Tasso; soggetto non straniero nella classe drammatica, giacchè