il suo Aminta è un capolavoro, il suo Torrismondo è una tragedia benissimo fatta, e la sua commedia degl’Intrighi d’amore, se non è un’opera eccellente, non lascia però di manifestare l’indole di un uomo di genio. La vita del Tasso somministra per sè stessa parecchi aneddoti molto importanti per una composizione teatrale; ed i suoi amori, che sono stati appunto la sorgente delle sue disgrazie, formano l’azione principale della mia commedia. Tutto il mondo sa, che il Tasso divenne amante della principessa Eleonora, sorella di Alfonso d’Este duca di Ferrara, il rispetto però di cui è degna questa illustre casa, tuttora regnante in Italia, mi fece mutare il grado di principessa in quello di una marchesa favorita del duca, e molto bene affetta alla principessa. Si trovavano in quel tempo alla corte di Ferrara due altre Eleonore: una era moglie di un cortigiano chiamato don Gherardo, e l’altra, cameriera della marchesa. Raccapezzai quest’aneddoto nel dizionario del Moreri, e se il fatto non è abbastanza autentico per l’istoria, lo credo almeno sufficiente per dar materia ad un’opera comica; giacchè non parmi straordinario incontrare in Italia tre nomi simili in un’istessa corte, avendo l’uso gl’Italiani di chiamarsi sempre per i loro nomi di battesimo. Apre la scena il Tasso, componendo un madrigale in lode di Eleonora. Sopraggiunge don Gherardo che lo cerca da parte del duca, onde il Tasso accorre agli ordini del suo padrone. Il cortigiano intanto resta solo, ed in questo tempo scartabellando i fogli dell’autore, vi trova il madrigale sopradetto: lo legge, e si mette in idea che Eleonora sua moglie sia il soggetto dei versi e della passione del poeta. Quest’uomo indiscreto è anche imprudente al segno di lagnarsene; sua moglie gli presta fede, nè gli dispiace una tal notizia; ma anche la cameriera che è la terza Eleonora ha le sue pretensioni sul madrigale. Il duca però non si lascia ingannare: sospetta della marchesa, ed ecco il Tasso in disgrazia. Tutti quelli che hanno letto la vita di quest’uomo celebre, devono sapere ch’è originario di Bergamo, e che per un viaggio de’ suoi genitori nacque in Sorrento nel regno di Napoli. Queste due città si contrastavano appunto a vicenda l’onore di esser patria del Tasso, e tali pretensioni erano anche favorite dai respettivi loro sovrani che desideravano a gara di possederlo. In conseguenza di questi contrasti, simili a quelli della Grecia sulla nascita di Omero introdussi nella mia commedia un Veneziano e un Napoletano che parlano entrambi il linguaggio del loro paese, e che profittano della scontentezza del preteso loro compatriotto per impegnarlo a lasciar Ferrara. L’incontro di questi due forestieri produce alcune scene molto comiche e piacevoli, e la dolcezza del dialetto veneziano posta in opposizione alla brutta e veemente pronunzia napoletana, formano un singolare e dilettevole contrasto. Feci aver parte con molta destrezza in questa medesima composizione ad un personaggio fiorentino, sotto il nome di Cavaliere del Fiocco, il quale non era già un vero accademico della Crusca, avendo io troppo rispetto per quella illustre e dotta società per esporre uno de’ suoi membri alle risa pubbliche. Il Cavalier del Fiocco altro non era, se non uno di quegli abbietti rifiuti dell’Accademia, che, affettando il rigorismo della lingua toscana, cadono nell’assurdità; e tale appunto era la maggior parte di quelli che l’avevano col mio stile. Non intendo però di comprendere in questa classe i Granelloni, società letteraria stabilita in Venezia sotto questo nome, della quale i conti fratelli Gozzi erano a mio tempo l’ornamento principale. Il Tasso tormentato dall’amore, congedato dal suo sovrano