Memorie di Carlo Goldoni/Parte seconda/XXIX

XXIX

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Carlo Goldoni - Memorie (1787)
Traduzione dal francese di Francesco Costero (1888)
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Parte seconda - XXVIII Parte seconda - XXX

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CAPITOLO XXIX.

Séguito de’ due capitoli precedenti. — Il Ritorno dalla villeggiatura, commedia di tre atti in prosa, e ultima delle tre commedie consecutive sullo stesso soggetto.

Leonardo e sua sorella di ritorno a Livorno erano affogati dai debiti, e si vedevano per ogni parte assediati dai loro creditori; conveniva adunque pagare o pregare, ma essi non facevano nè l’uno nè l’altro. Superbi nella loro indigenza, rimandavano i mercanti con cattivo garbo; e questi li perseguitavano per via di giustizia.

Leonardo non aveva altro compenso, fuorchè quello di ricorrere al signor Bernardino, suo zio, e pregarlo di dargli qualche acconto su i beni di cui credevasi erede presuntivo: ma il carattere di questo zio essendo quello d’un uomo duro ed inflessibile, Leonardo non ardisce di esporvisi da sè solo; a tale oggetto si raccomanda a Fulgenzio che lo accompagni, e vanno insieme.

Il personaggio di Bernardino non sarebbe soffribile sul teatro, quando nell’istessa commedia comparisse più di una volta. Do questa scena intera che indispettiva me stesso mentre la componevo.

SCENA V.

Camera in casa di Bernardino.

Bernardino in veste da camera all'antica, e Pasquale, poi Fulgenzio.


Ber. Chi è che mi vuole? Chi mi domanda? (a Pasquale). [p. 224 modifica]

Pas. È il signor Fulgenzio che desidera riverirlo.

Ber. Padrone, padrone. Venga il signor Fulgenzio; padrone.

Ful. Riverisco il signor Bernardino.

Ber. Buon giorno, il mio caro amico. Che fate? State bene? E tanto che non vi vedo.

Ful. Grazie al cielo sto bene quanto è permesso ad un uomo avanzato che principia a sentire gli acciacchi della vecchiaia.

Ber. Fate come fo io, non ci badate. Qualche male si ha da soffrire; ma chi non ci bada lo sente meno. Io mangio quando ho fame, dormo quando ho sonno, mi diverto quando ne ho volontà, E non bado, non bado... E a che cosa si ha da badare? Ah, ah, ah, è tutt’uno! Non ci si ha da badare (ridendo).

Ful. Il cielo vi benedica; voi avete un bellissimo temperamento. Felici quelli che sanno prendere le cose come voi le prendete!

Ber. È tutt’uno, è tutt’uno, non ci si ha da badare (ridendo).

Ful. Sono venuto ad incomodarvi per una cosa di non lieve rimarco.

Ber. Caro signor Fulgenzio, son qui, siete padrone di me.

Ful. Amico, io vi ho da parlare del signor Leonardo vostro nipote.

Ber. Del signor marchesino? Che fa il signor marchesino? Come si porta il signor marchesino?

Ful. Per dir la verità, non ha avuto molto giudizio.

Ber. Non ha avuto giudizio? Eh capperi! mi pare che abbia più giudizio di noi. Noi fatichiamo per vivere stentatamente, ed ei gode, scialacqua, tripudia, sta allegramente: e vi pare ch’ei non abbia giudizio?

Ful. Capisco che voi lo dite per ironia; e che nell’animo vostro lo detestate, lo condannate.

Ber. Oh! Io non ardisco d’entrare nella condotta dell’illustrissimo signor marchesino Leonardo. Ho troppo rispetto per lui, per il suo talento, per i suoi begli abiti gallonati (ironico).

Ful. Caro amico, fatemi la finezza, parlatemi un poco sul serio.

Ber. Sì, anzi, parliamo sul serio.

Ful. Vostro nipote è precipitato.

Ber. È precipitato? È caduto forse di sterzo? I cavalli del tiro a sei hanno forse levato la mano al cocchiere?

Ful. Voi ridete, e la cosa non è da ridere. Vostro nipote ha tanti debiti, che non sa da qual parte scansarsi.

Ber. Oh! quando non c’è altro male, non è niente. I debiti non faranno sospirar lui, faranno sospirar i suoi creditori.

Ful. E se non vi è più roba nè credito, come farà egli a vivere?

Ber. Niente; non è niente. Vada un giorno per uno da quelli che hanno mangiato da lui, e non gli mancherà da mangiare.

Ful. Voi continuate sul medesimo tono, e pare che vi burliate di me.

Ber. Caro il signor Fulgenzio, sapete quanta amicizia, quanta stima ho per voi.

Ful. Quando è così, ascoltatemi come va, e rispondetemi in miglior maniera. Sappiate che il signor Leonardo ha una buona occasione per maritarsi.

Ber. Me ne consolo, me ne rallegro.

Ful. Ed è per avere otto mila scudi di dote.

Ber. Me ne rallegro, me ne consolo.

Ful. Ma se non si rimedia alle sue disgrazie, non avrà la figlia e non avrà la dote. [p. 225 modifica]

Ber. Eh! un uomo come lui? Batte un piè per terra, e saltano fuori i quattrini da tutte le parti.

Ful. (Or ora perdo la sofferenza. Me l’ha detto il signor Leonardo) Io vi dico che il vostro nipote è in rovina (sdegnato).

Ber. Si eh? Quando lo dite, sarà così (fingendo serietà).

Ful. Ma si potrebbe rimettere facilmente.

Ber. Benissimo, si rimetterà.

Ful. Però ha bisogno di voi.

Ber. Oh! questo poi non può essere.

Ful. E si raccomanda a voi.

Ber. Oh il signor marchesino! È impossibile.

Ful. È così, vi dico; si raccomanda alla vostra bontà, al vostro amore. E se non temessi che lo riceveste male, ve lo farei venire in persona a far un atto di sommissione e a domandarvi perdono.

Ber. Perdono? Di che mi vuol domandare perdono? Che cosa mi ha egli fatto da domandarmi perdono? Eh! mi burlate; io non merito queste attenzioni; a me non si fanno di tali uffizi. Siamo amici, siamo parenti. Il signor Leonardo? Oh il signor Leonardo, mi scusi, non ha da fare con me di queste cerimonie.

Ful. Se verrà da voi raccoglierete con buon amore?

Ber. E perchè non l’ho da ricevere con buon amore?

Ful. Se mi permettete dunque, lo farò venire.

Ber. Padrone, quando vuole; padrone.

Ful. Quand’è così, ora lo chiamo e lo fo venire.

Ber. E dov’è il signor Leonardo?

Ful. È di là in sala che aspetta.

Ber. In sala che aspetta? (con qualche maraviglia).

Ful. Lo farò venire, se vi contentate.

Ber. Sì, padrone; fatelo venire.

Ful. (Sentendo lui, può essere che si muova. Per me, mi è venuto a noia la parte mia) (parte).

SCENA VI.

Bernardino, Fulgenzio, e Leonardo, poi Pasquale.

Ber. Ah, ah il buon vecchio se l’è condotto seco. Ha attaccato egli la breccia, e poi ha il corpo di riserva per invigorire l’assalto.

Ful. Ecco qui il signor Leonardo.

Leo. Deh! scusatemi, signore zio...

Ber. Oh! signor nipote, la riverisco; che fa ella? Sta bene? Che fa la sua signora sorella? Che fa la mia carissima nipote? Si sono divertiti in campagna? Sono tornati con buona salute? Se la passano bene? Sì, via me ne rallegro infinitamente.

Leo. Signore, io non merito esser da voi ricevuto con tanto amore, quanto ne dimostrano le cortesi vostre parole; onde ho ragione di temere che con eccessiva bontà vogliate mascherare i rimproveri che a me sono dovuti.

Ber. Che dite, eh? Che bel talento che ha questo giovane! Che maniera di dire! Che bel discorso! (a Fulgenzio).

Ful. Tronchiamo gl’inutili ragionamenti. Sapete quel che vi ho detto. Egli ha estremo bisogno della bontà vostra, e si raccomanda a voi caldamente.

Ber. Che possa... In quel ch’io posso. Se mai potessi...

Leo. Ah! signore zio... (col cappello in mano).

Ber. Si copra.

Leo. Pur troppo la mia mala condotta... [p. 226 modifica]

Ber. Metta il suo cappello in capo.

Leo. Mi ha ridotto agli estremi.

Ber. Favorisca (mette il cappello in testa a Leonardo)

Leo. E se voi non mi prestate soccorso...

Ber. Che ora abbiamo? (a Fulgenzio).

Ful. Badate a lui se volete (a Bernardino).

Leo. Deh! signore zio amatissimo... (si cava il cappello).

Ber. Servo umilissimo (si cava la berretta).

Leo. Non mi voltate le spalle.

Ber. Oh! non farei questa mal’opera per tutto l’oro del mondo (colla berretta in mano).

Leo. L’unica mia debolezza è stata la troppo magnifica villeggiatura (sta col cappello in mano).

Ber. Con licenza. (si pone la berretta) Siete stati molti quest’anno? Avete avuto divertimento?

Leo. Tutte pazzie, signore; lo confesso, lo vedo, e me ne pento di tutto cuore.

Ber. È egli vero che vi fate sposo?

Leo. Così dovrebbe essere, e ottomila scudi di dote potrebbero ristorarmi. Ma se voi non mi liberate da qualche debito...

Ber. Sì, otto mila scudi sono un bel danaro.

Ful. La sposa è figliuola del signor Filippo Ganganelli.

Ber. Buono, lo conosco, è un galantuomo; è un buon villeggiante; uomo allegro, di buon umore. Il parentado è ottimo, me ne rallegro infinitamente.

Leo. Ma se non rimedio a una parte almeno delle mie disgrazie...

Ber. Vi prego di salutare il signor Filippo per parte mia.

Leo. Se non rimedio, signore, alle mie disgrazie...

Ber. E ditegli che me ne congratulo ancora con esso luì.

Leo. Signore voi non mi badate.

Ber. Sì, signore, sento che siete sposo, e me ne consolo.

Leo. E non mi volete soccorrere?

Ber. Come ha nome la sposa?

Leo. Ed avete cuore d’abbandonarmi?

Ber. Oh! che consolazione che io ho nel sentire che il mio signor nipote si fa sposo!

Leo. La ringrazio della sua affettata consolazione, e non dubiti che non verrò ad incomodarla mai più.

Ber. Servitore umilissimo.

Leo. (Non ve l’ho detto? Mi sento rodere: non lo posso soffrire) (a Fulgenzio e parte).

Ber. Riverisco il signor nipote.

Ful. Schiavo suo (a Bernardino con isdegno).

Ber. Buondì, il mio caro signor Fulgenzio.

Ful. Se sapevo così, non venivo ad incomodarvi.

Ber. Siete padrone di giorno, di notte, a tutte le ore.

Ful. Siete peggio d’un cane.

Ber. Bravo, bravo. Evviva il signor Fulgenzio.

Ful. (Lo scannerei colle mie proprie mani) (parte).

Ber. Pasquale.

Pas. Signore,

Ber. In tavola (parte).

Questa scena per sè medesima di nessuna importanza, produce nulladimeno in questa commedia un effetto mirabile. Fulgenzio, irritato dalle ripulse di Bernardino e dolente di avere esposto agli [p. 227 modifica] insulti il suo amico Leonardo, s’adopera all’estremo per questo giovine, e fa per lui più di quello che non avrebbe forse potuto fare lo zio. Filippo ha in Genova alcune rendite male amministrate da un corrispondente trascurato o birbante. Fulgenzio dunque lo impegna a dare in dote alla figlia tutti i beni che possiede in quella città, con carta di procura che autorizzi la riscossione delle rendite. Inoltre impegna nel tempo stesso Leonardo ad affidargli l’amministrazione delle sue entrate di Livorno; incaricandosi di pagare i debiti di lui in Toscana. Questo accomodamento riesce tanto più utile a ciascuno, in quanto che l’allontanamento di Giacinta e Guglielmo era il solo mezzo di metter in tranquillità due famiglie che la vicinanza avrebbe rese sempre più infelici.