Memorie di Carlo Goldoni/Parte seconda/XLIII

XLIII

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Carlo Goldoni - Memorie (1787)
Traduzione dal francese di Francesco Costero (1888)
XLIII
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CAPITOLO XLIII.

Contenuto della lettera di Parigi. — Son chiamato in quella città. — Ordini all’ambasciadore di Francia per farmi partire. — Mie osservazioni. — Son costretto a lasciare la patria. — Mie ultime commedie per Venezia. — Todero Brontolon, commedia veneziana di tre atti, in prosa. — Suo compendio. — Sua ottima riuscita.

La lettera rimessami dal signor ambasciadore di Francia veniva dal signor Zannuzzi, primo amoroso del Teatro italiano in Parigi. Quest’uomo stimabile per i suoi costumi non meno che per il suo ingegno, avea portato in Francia il manoscritto della mia commedia intitolata Il Figlio d’Arlecchino perduto e ritrovato. Presentata ai suoi compagni questa composizione e da loro trovata buona, fu recitata; piacque moltissimo, e confermava, a quanto diceva, quella reputazione che le mie opere godevano in Francia da gran tempo, e la mia persona vi era desiderata. In conseguenza di questo preliminare, il signore Zannuzzi era incaricato dai primi gentiluomini di Camera del Re e soprintendenti agli spettacoli di Sua Maestà di farmi la proposta di un impegno per due anni con onorevole provvisione. Il signor conte Baschi mi fece anche notare la premura del signor duca di Aumont, primo gentiluomo di camera, e in attual servizio, per sollecitare la mia partenza: aggiungendo, che se mai fosse nata qualche difficoltà, egli avrebbe spedite lettere formali, affine di chiedermi al Governo della Repubblica. Era gran tempo che desideravo di vedere Parigi, ed ero perciò tentato di rispondere subito affermativamente; ma avevo vari doveri da compire, e chiesi tempo per risolvere.

Ero pensionato dal duca di Parma, ed avevo in Venezia un impegno; bisognava adunque dimandare il permesso al principe, e combinare nel tempo istesso l’approvazione del nobile veneziano proprietario del teatro San Luca. L’una e l’altra cosa non mi parevano di difficile conseguimento; ma dall’altro canto portavo grande affetto alla mia patria, vi ero amato, applaudito, accarezzato, non vi si udiva più critica alcuna contro di me; io vi godeva una deliziosa tranquillità. In Francia non vi ero chiamato che per soli due anni; ma vedevo troppo bene che, spatriato una volta, [p. 258 modifica] avrei durato fatica a ripatriare; ed oltre a ciò, divenuto precario il mio stato, io pensava che sarebbe stato necessario il sostenerlo con assidui e laboriosi lavori: mentre temevo sommamente i tristi giorni della vecchiezza, nei quali diminuiscono le forze ed i bisogni crescono. Ne feci parola a tutti gli amici, e a tutti i miei protettori di Venezia, e feci loro vedere, che per me non riguardavo il viaggio di Francia come una partita di piacere, ma che bensì era forza l’attendervi per la gran ragione di assicurarmi una volta uno stato. Aggiunsi anche a codeste persone, le quali dimostravano il desiderio che io stessi in Venezia, che nella mia qualità di avvocato potevo ottare benissimo a qualunque sorta d’impiego, ed ancora alle cariche della magistratura, e terminai il mio discorso con la sincera non meno che decisiva protesta, che allorquando mi si fosse assicurato uno stato in Venezia, o questo fosse a titolo d’impiego o di pensione, avrei preferito certamente la mia patria a tutto il resto dell’universo.

Il mio discorso fu udito con molto piacere e con somma attenzione; furono trovate giuste le mie osservazioni, onesto il mio procedere; tutti quanti assunsero l’incarico di cercar mezzi per appagare le mie brame. Si tennero diverse adunanze sul mio proposito, ed eccone il resultato. In uno Stato repubblicano le grazie non sono concesse che per la pluralità dei voti, ed è necessario che i postulanti chiedano e richiedano per lungo tempo avanti di poter esser mandati a partito: riguardo poi alle pensioni, «se vi è concorso di postulanti le arti utili hanno sempre la preferenza su gli ingegni piacevoli e rinomati. Questa osservazione doveva bastare assolutamente per determinarmi a non più pensarvi.

Scrissi adunque a Parma, ed ottenni il permesso di partire; superai con un poco di pena l’opposizione del proprietario del teatro San Luca; e allorquando mi vidi in libertà, diedi parola all’ambasciadore di Francia, e ne passai per conseguenza l’avviso al signor Zannuzzi a Parigi; ma siccome era troppo giusto assegnare un tempo conveniente ai miei comici per provvedersi di un compositore, la mia partenza da Venezia restò fissata per il mese di aprile dell’anno 1761. In quest’intervallo scrissi tre commedie, la prima delle quali era intitolata Todero Brontolon, commedia veneziana. Fuvvi un vecchio in Venezia, ma non so precisamente quando, chiamato Todero, l’uomo più aspro, più fastidioso e più incomodo del mondo, il quale lasciò di sè una reputazione sì buona che allorquando s’incontra anche adesso in Venezia, un uomo garritore, si chiama subito Teodoro Brontolon. Conoscevo uno di questi vecchi di umor nero, che teneva in iscompiglio tutta la sua famiglia, e principalmente la nuora, donna bellissima ed amabile resa anche maggiormente infelice dal proprio marito che tremava al solo aspetto del vecchio padre. Volli vendicare questa brava donna che io vedeva spessissimo, delineando nell’istesso quadro il ritratto del suocero e del marito; ella, essendo a parte del segreto, ebbe piacere più degli altri del buon incontro della commedia, perchè gli originali avean riconosciuto benissimo sè stessi; ed in fatti li vide entrambi tornare dalla commedia uno in furia, e l’altro umiliato.

Eccovi pertanto un ristretto della favola da me immaginata sulle tracce di tali caratteri istorici. Todero è un ricco negoziante che tiene sotto il giogo della più dura ed umiliante dipendenza Pellegrino suo figlio, e Marcolina sua nuora, i quali non sono ragazzi, poichè Zanetta, loro figlia, è da marito. Questo assoluto e [p. 259 modifica] dispotico capo di famiglia dà ricetto in sua causa ad un ministro, chiamato Desiderio, ch’è il favorito e l’uomo di sua intima confidenza. Costui pieno di scaltrezza e malizia, impadronitosi dell’animo del vecchio, domina nella famiglia al pari del padrone; contuttochè dall’uomo salvatico sia non meno sgridato e meno strapazzato degli altri, egli però ha l’arte di far così bene il sofferente, quanto sa far bene il ladro. Quest’impertinente ministro spinge tant’oltre la sua sfacciataggine, che, avendo un figlio chiamato Niccoletto, impegna Todero a concedere al medesimo Zannetta sua nipote senza renderne prima consapevoli i genitori di lei. A quest’ultimo tratto di autorità abusiva per parte del padrone, e d’impudenza per quella del ministro, Marcolina non può tacere; essa è madre, essa è donna, onde sveglia dalla sua indolenza il marito, impedisce il sacrifizio della propria figlia; e tanto fa, tanto si adopra, che giunge finalmente a scoprire al vecchio padrone tutte quante le ribalderie del suo favorito; lo fa scacciare di casa, impegna il marito a rendersi utile a suo padre, e colloca la figlia onorevolmente. Il vecchio Brontolone confessa allora che la sua nuora è perspicace, e brontolando l’abbraccia. Questa commedia piacque tanto, che si sostenne fino al chiudersi dell’autunno 1760. Per l’apertura poi del carnevale dell’anno 1761, tenevo da parte La Scozzese, commedia che non era di mia invenzione, ma che non mi fece meno onore.

La parte storica di questa commedia consiste in un aneddoto che a me parve piacevolissimo. Non potrei farla meglio conoscere che col darne qui un estratto ricavato dalla Prefazione posta in fronte a questa medesima composizione nella mia edizione del Paquali; esso adunque formerà il soggetto del capitolo seguente.