Memorie di Carlo Goldoni/Parte seconda/II

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Carlo Goldoni - Memorie (1787)
Traduzione dal francese di Francesco Costero (1888)
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Parte seconda - I Parte seconda - III

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CAPITOLO II.

Critiche delle mie commedie. — Ingiuriosi libercoli contro i comici. — Istoria riguardante i medesimi. — La Vedova scaltra, commedia di tre atti in prosa. — Estratto di questa composizione. — La Putta onorata, commedia veneziana di tre atti ed in prosa. — Suo estratto. — Suo buon successo.

Dopo il mio ritorno in Venezia avevo esposte tre altre commedie nuove, senza che alcuna critica fosse venuta a frastornare la mia tranquillità. Nella novena di Natale però vi furono persone sfaccendate, che trovandosi prive del divertimento degli spettacoli teatrali, fecero comparire alcuni libercoli contro i comici e contro l’autore. Non si faceva parola alcuna della mia prima commedia andata a terra; anzi la critica feriva direttamente il paese piuttostochè il mio lavoro, pretendendosi, che la commedia del Tonino bella grazia, quantunque buona, fosse però troppo vera e troppo piccante; onde mi si condannava solamente di averla messa in scena a Venezia. Riguardo poi all’altre due si diceva che nell’Uomo prudente vi era più furberia che prudenza, e si disapprovava nei due Gemelli veneziani la parte di Pancrazio. Queste critiche avean del buono e del cattivo, avean ragione, avean torto, e l’espressioni piccanti, che vi si leggevano, eran compensate da mille elogi ed incoraggiamenti: dunque non potevo esserne disgustato: si prendeva però in esse di mira la compagnia del Medebac principalmente e si chiamava la compagnia dei saltatori: simili discorsi erano tanto più cattivi, in quanto che fondati sopra alcuni principii di verità. La signora Medebac era figlia di un ballerino da corda, Brighella suo zio aveva fatto da pagliaccio, e il Pantalone aveva sposato la cognata del capo di quei saltatori.

Frattanto questa famiglia, sebbene cresciuta in un ceto screditato e pericoloso, viveva non ostante nella più esatta regolarità di costumi, nè mancava di coltura e di educazione. Il Medebac, comico abile, amico e compatriotto di quella buona gente, vedendo che parecchi di loro avean ottime disposizioni per l’arte comica, consigliò i medesimi a mutare stato. Essi di buon grado aderirono a [p. 150 modifica] tale suggerimento, e il Medebae gli addestrò. I nuovi comici fecero progressi molto rapidi, e giunsero in pochissimo tempo a far fronte colla loro bravura alle più vecchie e più accreditate compagnie d’Italia.

Ora meritava codesta compagnia, ch’era divenuta buona ed erasi diportata sempre con onoratezza, il rimprovero della sua prima professione? Si scopriva in ciò chiaramente una pretta malignità, e tutto dipendeva dalla gelosia de’ suoi rivali, e degli altri spettacoli di Venezia che cominciavano a temerla; e siccome conoscevan bene di non poterla distruggere, avean la bassezza di disprezzarla. Allorquando vidi in Livorno questi comici la prima volta, presi una parziale affezione per essi, per i loro meriti, per la loro condotta, e procurai dal canto mio di portarli con le mie premure e fatiche a quel grado di considerazione, di cui sono stati poi meritevoli dovunque. Aveano un bel dire e un bel fare i nemici del Medebac: i comici andavano ogni giorno più prendendo piede, e la rappresentazione di cui son ora per render conto, stabilì affatto il loro credito e li mise in istato di goder con sicurezza una perfetta tranquillità.

Il carnevale del 1748 fu aperto con La Vedova scaltra. Questa vedova veneziana, stata per qualche tempo astante al suo vecchio ed infermo marito possessore di una fortuna considerevole, aspirava a indennizzare i perduti giorni col mezzo di un matrimonio più conveniente. Fece ad una festa da ballo conoscenza con quattro forestieri: Milord Ronebif inglese, il cavaliere le Bleau francese, don Alvaro di Castiglia spagnuolo, ed il conte di Bosco-nero italiano. I quattro viaggiatori, colpiti dalla bellezza e dall’ingegno della vedovella, le fanno la loro corte, procurando ciascuno dal canto suo di meritar la preferenza sopra gli altri rivali. Milord le manda un bel diamante, il cavaliere le dà un bel ritratto, lo Spagnuolo l’albero genealogico della sua famiglia, e il conte italiano le dirige una lettera molto tenera, nella quale parecchi tratti di gelosia manifestano il carattere della sua nazione. La vedova fa le sue riflessioni sopra rincontro di questi suoi nuovi adoratori; trova l’Inglese generoso, il Francese galante, lo Spagnuolo rispettabile, e l’Italiano amoroso. Palesa qualche inclinazione per quest’ultimo, ma la cameriera, francese di nazione, si fa avanti alla sua padrona, e le prova che non poteva esser felice, che sposando un francese. Rosaura (questo è il nome della vedova) prende tempo a risolvere. Il primo e secondo atto passano in visite, tentativi, rivalità essendo sempre in contrasto i caratteri delle respettive nazioni; da tutto ciò ne risulta un complesso comico molto vario, molto decente. Debbo rimproverarmi solamente di aver dato un poco troppo di caricatura alla parte del cavaliere, ma non ci ho colpa: avevo veduti a Firenze, Livorno, Milano e Venezia parecchi Francesi, onde incontrati gli originali ne avevo fatto la copia.

Giunto poi a Parigi, ho conosciuto il mio errore, poichè non ci ho mai vedute quelle figure ridicole da me trovate in Italia: onde o la maniera di pensare, e di essere, hanno da venticinque anni a questa parte mutata in Francia affatto indole, o i Francesi nei paesi stranieri hanno piacere di far torto a sè stessi. L’ultim’atto di questa commedia è il più importante ed il più vivace. La vedova, a cui con tutta ragione diedi l’epiteto di scaltra, vuole assicurarsi sempre più dell’attaccamento e della sincerità de’ suoi quattro pretendenti: profitta perciò del carnevale di Venezia, e mascherandosi in quattro diverse forme, fa una volta dopo l’altra da compatriotta [p. 151 modifica] dei quattro suoi forestieri. Seria con l’Inglese, capricciosa col Francese, grave e severa con lo Spagnuolo, ed amorosa col Romano: mediante la maschera, la simulazione dei costumi e della voce inganna sì bene i suoi amanti che i primi tre cadono nella rete e preferiscono di sostener la donna del loro paese; il solo conte ricusa i tentativi dell’incognita per non mancare alla fedeltà della sua bella. La vedova allora dà una festa da ballo in casa propria, e fa invitare i quattro forestieri, che non mancano d’intervenirvi. Palesa ad alta voce la prova ch’essa aveva fatta sulla loro sincerità, ed offre la mano al conte, che trovasi al colmo del contento.

Milord approva il di lei modo di agire, il cavaliere domanda il posto di cibisbeo, e lo Spagnuolo, sdegnato dell’astuzia, condanna gl’Italiani e parte; si principia il ballo, e così termina la rappresentazione.

Benchè avessi dato parecchie composizioni di un esito felicissimo, niuna per altro era pervenuta al punto di questa. Fu rappresentata trenta volte di seguito, ed è stata esposta dovunque con l’istessa buona sorte. Il principio adunque della mia riforma non poteva essere più splendido. Tenevo ancora un’altra commedia per il carnevale, ma era necessario che la chiusa del teatro non ismentisse i fortunati successi di quest’anno decisivo; seppi perciò trovar l’opera adattata a coronar le mie fatiche. Avevo veduto al teatro di San Luca una commedia intitolata Le Putte di Castello, commedia popolare, il cui soggetto principale era una Veneziana priva d’intelletto, senza costumi e senza condotta.

Quest’opera comparve avanti la legge della censura degli spettacoli. Tutto era cattivo: caratteri, intreccio, dialogo; tutto pericoloso: frattanto era una commedia secondo il gusto della nazione, divertiva il pubblico, tirava la gente, e si rideva a quelle disdicevoli buffonerie. Ero sì contento di questo pubblico, che incominciava a preferir la commedia alla farsa, e la decenza alla sciocchezza, che per impedire il male che quella rappresentazione poteva produr negli animi ancor vacillanti, ne diedi un’altra dell’istesso genere, ma molto più onesta ed instruttiva, col titolo La Putta onorata, la quale potea dirsi appunto il contravveleno delle Ragazze del quartier del Castello. L’eroina della mia commedia era di condizione volgare, ma per i suoi costumi e per la sua condotta, piaceva ad ogni ceto di persone, non meno che a tutti i cuori onesti e sensibili. Bettina, orfana, sostentandosi col lavoro delle proprie mani, è forzata a convivere in compagnia della sorella e di Arlecchino suo cognato, ambedue pessimi soggetti. Bettina è savia senz’essere ritrosa o bigotta, ed ha un amante che spera di potere un giorno sposare; questi è Pasqualino, che passa per figlio di un gondoliere veneziano, giovine di una condotta regolare, ma privo d’impiego e di fortuna. La ragazza che molto lo ama, non gli permette di andare a trovarla in casa, nè lo vede, nè gli parla che dalla sua finestra; ma la sorella, dolente di veder questo giovine passeggiare per istrada, lo fa qualche volta entrare. Bettina va sempre a chiudersi in camera, temendo i pericoli dell’amore, e le ciarle dei vicini. Pantalone negoziante veneziano conosceva bene questa fanciulla, la stimava molto e le dava di tempo in tempo qualche aiuto, avendole perfin promesso di maritarla; ma confidando essa al medesimo la sua inclinazione, egli non va d’accordo che sposi un uomo senza stato e senza fortuna. Il marchese di Ripaverde vede Bettina, se ne innamora, e fa tentativi per sedurla, la sorella ed il cognato sono del partito di lui, ma non è [p. 152 modifica] possibile di scuoter la fermezza della virtuosa orfanella: il marchese la fa rapire, ed essa resiste sempre; le fa inclusive la proposizione di maritarla al vero amante, che era figlio del suo gondoliere, ma Bettina ricusa di accettare il matrimonio per mezzo di lui. Questa rappresentazione ha molto brio, molto intreccio, molti accidenti. Il marchese essendo ammogliato, giunge alla signora marchesa consorte la notizia della nuova passione di suo marito; essa prende a sdegno Bettina, ma vedutola, e parlatole, diviene la sua amica e la sua protettrice. Intanto Lelio, creduto figlio di Pantalone, arriva da Livorno, ove era stato allevato fino dai primi anni: non conosce di persona suo padre, e differisce di andare a trovarlo ad oggetto di goder con libertà i divertimenti del carnevale di Venezia. Lelio è un libertino, che scarseggia a danari, e che ne fa ricerca per ogni parte; il marchese fa a lui la proposizione di bastonare un uomo, che gli aveva mancato di rispetto, e Lelio s’incarica di eseguire la commissione. Pantalone si difende, e nel difendersi dice il suo nome; Lelio allora riconosce il padre, e fugge; ma è arrestato, e si risolve di relegarlo nelle isole dell’Arcipelago. La vera madre di questo disgraziato, moglie del gondoliere del marchese, è forzata a parlare; Lelio è suo vero figlio, e Pasqualino quello di Pantalone. Essa era stata nutrice di quest’ultimo e l’aveva barattato per far la sorte di suo figlio. Bettina vede il suo amante divenuto ricco e per tal ragione crede d’averlo perduto per sempre; ma Pantalone ricompensa la virtù dichiarandola sua figliastra. Nel compendio che attualmente fo di questa commedia, vi si potrebbe scorgere una doppia azione; ma leggendo la composizione si vedrà che l’azione è unica, e che il riconoscimento di Pasqualino era troppo necessario alla catastrofe di Bettina. Vi sono in questa commedia scene di gondolieri veneziani prese dalla natura sommamente divertevoli per quelli che hanno cognizione del linguaggio e dei modi del mio paese. Veramente volevo riconciliarmi con questa classe di servitori, ben meritevoli di qualche attenzione, e che era malcontenta di me. In Venezia i gondolieri hanno posto agli spettacoli solamente quando la platea non è piena, e siccome non potevano entrar mai alle mie commedie, ed erano obbligati ad aspettare i padroni per istrada o nelle respettive loro gondole, io stesso gli avevo intesi caricarmi di titoli molto faceti e propriamente da scena, però m’adoperai affinchè ottenessero alcuni posti negli angoli della platea; essi rimasero incantati, vedendo rappresentare sè stessi, ed io divenni il maggior loro amico. Questa commedia ebbe il migliore successo che potessi desiderare, e la chiusura del teatro non poteva esser più bella nè più soddisfacente. Ecco adunque la mia riforma già ben avanti. Che felicità! che piacere per me!