Memorie di Carlo Goldoni/Parte seconda/I
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CAPITOLO I.
- Mio ritorno a Venezia. — Il Medebac prende a fitto il teatro di S. Angelo. — Tonino bella-grazia, L’uomo prudente, I due gemelli veneziani, commedie di carattere ciascuna di tre atti in prosa. — Epilogo di codeste composizioni. — Loro felice successo.
Quale contentezza per me tornar di nuovo, in capo a cinque anni, nella mia patria, che mi era stata sempre cara, e che compariva sempre più bella a’ miei sguardi ogni qual volta avevo la sorte di rivederla! Mia madre dopo l’ultima partenza da Venezia avea preso a pigione per sè e sua sorella un appartamento nel circondario di San Giorgio nei contorni di San Marco. Il quartiere era bello, passabile il locale: andai dunque a riunirmi a quella tenera madre, che mi accarezzava, e non mai si lamentava di me. Mi chiese nuove di mio fratello, ma fui nel caso di fare a lei l’istessa interrogazione. Nè l’una nè l’altro sapevamo che cosa ne fosse. Essa lo credeva morto, e piangeva; ma io, che lo conoscevo un poco meglio, ero sicuro che fosse per tornare un giorno a carico mio, nè m’ingannai. Il Medebac aveva preso a pigione il teatro Sant’Angelo, che non essendo de’ più vasti affaticava meno gli attori, e conteneva un sufficiente numero di persone per dare ragionevoli introiti. Non mi ricordo della commedia che fu rappresentata all’apertura di codesto teatro. So bensì, che quella compagnia comica, giuntavi d’allora, dovendo lottare con competitori abilissimi e abituati agli usi della capitale, stentò molto a procacciarsi protettori e partitanti. Fu la Griselda che cominciò a dar qualche credito al nostro teatro di lì a poco. Questa tragedia per sè stessa piacevole, e la destrezza dell’attrice che l’abbelliva ancora di più, fecero una sensazione generale nel pubblico in favore della signora Medebac, e la Donna di garbo, rappresentata alcuni giorni dopo, terminò di stabilire la sua riputazione.
Il Darbes, Pantalone della compagnia, stato fin’allora ben accolto, e molto applaudito nelle parti relative alla sua maschera, nulla aveva ancora recitato a viso scoperto, nel che appunto era capace di fare la più bella figura. Non ardiva esporsi nelle commedie da me fatte per il Pantalone Golinetti al teatro di San Samuele, ed io pure ne conveniva per quella gran ragione, che le prime impressioni non si cancellano così facilmente; onde torna sempre bene l’evitare i confronti, per quanto è possibile. Non poteva dunque il Darbes comparire che nella commedia veneziana da me lavorata espressamente per lui, e quantunque dubitassi con fondamento che Tonino bella-grazia non valesse quanto il Cortesan veneziano, pure bisognava arrischiarne il tentativo.
Se ne fecero le prove. I comici ridevano come pazzi, ed io al par di loro. Fummo perciò d’opinione che il pubblico potesse far l’istesso; ma questo pubblico appunto, che comunemente dicesi non aver testa, l’ebbe in ciò così ferma e decisa fin dalla prima rappresentazione di questa commedia, che fui costretto a ritirarla nel momento. In simili casi non è stato mai mio costume scagliarmi contro gli spettatori o i comici. Mi son sempre rifatto dall’esaminar me medesimo freddamente, e appunto questa volta conobbi d’avere io tutto il torto.
Una commedia andata a terra non merita che se ne dia l’estratto; il male è che è stampata; peggio per me e per quelli che si daranno la pena di leggerla. Dirò solamente per procurar qualche scusa alle mie mancanze, che quando scrissi questa commedia ero fuori di esercizio da quattr’anni; che avevo la testa piena di occupazioni relative al mio stato; che avevo dispiaceri, ch’ero di cattivo umore, e che per colmo di disgrazia essa fu trovata buona dagl’istessi comici. Facemmo a mezzo dello sbaglio, e a mezzo ne pagammo la pena. Il povero Darbes era mortificatissimo; bisognava ingegnarsi di consolarlo. A tale oggetto intrapresi subito una nuova composizione dell’istesso genere, facendolo comparire con la maschera in una commedia nella quale acquistò molto onore, e che ebbe un fortunatissimo successo. Era questa L’Uomo prudente, commedia in prosa, e di tre atti. Pantalone, ricco negoziante veneto, stabilito a Sorrento nel regno di Napoli, aveva due figli del primo letto, Ottavio e Rosaura, ed era per ammogliarsi con Beatrice, figlia d’un mercante del medesimo luogo.
Pessimo parentado. La matrigna era una civetta, e di cattivo carattere, il figliastro libertino e la giovine una sciocca; Beatrice aveva i suoi cicisbei, il giovine le sue belle, la signorina i suoi intrighi. Pantalone, uomo saggio e prudente, procura di vincerli con la dolcezza e nulla conclude; prova a minacciarli; le minaccie irritan costoro maggiormente, e l’urto li mette in disperazione. Beatrice furiosa, ed instigata da’ malvagi consigli delle persone che ha sempre attorno, porta la sua collera e la sua malignità fino al punto di disfarsi di suo marito: con questa idea guadagna ed impegna nel delitto anche il suo figliastro, scellerato ed indegno quanto la matrigna; questi provvede il veleno, e l’altra coglie il momento che il cuoco è in faccende per gettare un po’ d’arsenico nella zuppa destinata al rispettabile vecchio. Rosaura possiede una cagna che ama alla follia; volendo farle far colazione si serve di una parte di quella zuppa. La cagna ne mangia, cade convulsa, muore. Rosaura è in disperazione. Ne fa al suo amante la confidenza; egli indovina d’onde viene il colpo, nè può avere altro sospetto che sulla matrigna e sul figliastro; s’adopera dunque a tutt’uomo per la vita di Pantalone, e si porta subito a denunziare il delitto. La giustizia si assicura di Beatrice e di Ottavio. L’uomo prudente occulta il corpo del delitto, facendosi egli stesso difensore delle accuse date: mancano prove. La pignatta avvelenata più non esiste. Un’altra cagna, viva, sana, e simile a quella rimasta morta illude il fatto, ed una energica e patetica perorazione del padre e marito, convince, e muove il giudice. Ecco assoluti gli accusati: il tenero affetto di Pantalone guadagna il cuore de’ suoi nemici, e la prudenza di lui salva l’onore della famiglia.
Questa commedia era stata da me composta quando ero occupato in Pisa a difender cause criminali. La favola non era inventata di pianta. Un tale orribile delitto fu commesso in un paese della Toscana, ed io aveva anche caro di far conoscere a’ miei compatriotti, quali erano state le mie occupazioni in cinque anni d’assenza. Questa commedia ebbe in Venezia un completo successo. Il veleno, la perorazione in criminale, e certi tratti, di cui era piena, non potevan dirsi, per verità, proprii della buona commedia; ma per il Pantalone nulla si poteva desiderare di più, per aver la comodità di far valere la superiorità del suo ingegno nei differenti chiaroscuri che doveva esprimere; nè altro appunto ci volle per farlo generalmente proclamare l’attore più perfetto che fosse allora sul teatro. Perchè meglio stabilisse però la sua riputazione, bisognava fargli fare una bella figura anche a viso scoperto. Questa era la mia idea, e questo era il mio scopo principale. Nel tempo dunque che il Darbes godeva gli applausi per la rappresentazione dell’Uomo prudente, io ne lavoravo per lui un’altra intitolata: I due gemelli veneziani. Avevo intanto avuto tempo e comodo bastante per esaminare i diversi caratteri de’ miei attori. Nel Darbes conobbi due pregi opposti ed abituali nella macchina, nella figura e nell’azione. Ora era l’uomo più allegro e vivace del mondo, ora prendeva l’aria, i tratti e i discorsi d’un inetto, di un balordo; queste variazioni poi succedevano in lui senza pensarvi, e con la maggior naturalezza. Una scoperta di tal sorte mi risvegliò l’idea di farlo comparire sotto questi differenti aspetti in una rappresentazione medesima. Il primo dei due fratelli chiamato Tonino era stato mandato da suo padre a Venezia, e l’altro detto Zannetto a Bergamo in casa di uno zio. Il primo era allegro, elegante e piacevole, l’altro grossolano e senza garbo.
Doveva quest’ultimo sposar Rosaura, figlia d’un negoziante veronese, onde partì per andare ad unirsi colla futura sua sposa; l’altro teneva appunto dietro alla sua bella nell’istessa città: ecco come i due gemelli vengono ad incontrarsi senza saperlo. La somiglianza non poteva essere più perfetta, poichè ambedue le parti eran recitate da un solo attore; i nomi però eran differenti, onde l’intreccio per l’attore doveva esser più difficile, e per lo spettatore più dilettevole. Vi è poi in questa commedia un personaggio episodico che somministra molta parte, che prepara accidenti, e compie la catastrofe. È questi un impostore chiamato Pancrazio, che, essendo l’amico del suocero futuro di Zannetto, aspira a guadagnare il cuore e la mano di Rosaura, nascondendosi sotto il velo dell’ipocrisia. Quest’uomo astuto si fa padrone dell’animo del semplice bergamasco con fargli credere che non vi è al mondo nulla di più pericoloso delle donne. Zannetto, che a motivo della sua imbecillità non può vantarsi di ottenere i favori del sesso, trova che Pancrazio ha ragione; ma la carne lo tormenta, onde il malvagio amico gli dà una polvere per difendersi dagli stimoli. Il povero diavolo la trangugia, e s’avvelena. Eccoci ad un nuovo veleno. Veramente feci male ad usarlo in due commedie consecutive, molto più che sapevo bene al par d’ogni altro, che tali mezzi non eran quelli della buona commedia, ma la mia riforma era ancora nella culla; e poi qual diversità tra le conseguenze prodotte dal veleno nella prima, da quelle che ne derivano nella seconda! Il delitto, nella commedia dell’Uomo prudente, desta sentimenti patetici, che toccano il cuore; e quello de’ Due gemelli produce, malgrado il suo orrore, accidenti divertevoli degni della verità comica. Non vi può esser nulla di più piacevole, che la follìa in questo baggeo, il quale, credendo di giungere a vendicarsi della crudeltà delle donne col disprezzo, soffre, e si rallegra nel tempo medesimo. Io m’era molto arrischiato, lo confesso, ma conosceva un poco il mio paese, onde questa commedia andò alle stelle.
Ciò che poi contribuì infinitamente al buon successo di questa rappresentazione fu la maniera incomparabilmente sostenuta dal Pantalone, che si vide al colmo della gloria e del contento. Il direttore non era meno soddisfatto vedendo assicurata la sua impresa; io pure ebbi la mia parte di contentezza, trovandomi acclamato, ed essendomi fatta festa più di quello che meritava.